Traduzione e tradizione. Sulla ricezione di Thomas Mann in Italia con Andrea Landolfi

Intervista a cura di Silvia Girotto

 

Abstract:

Translation and Tradition. About Thomas Mann’s Reception with Andrea Landolfi

Andrea Landolfi is Professor of German Literature at the University of Siena and a translator from German. He has translated authors such as Hugo von Hofmannsthal, Gregor von Rezzori, and Thomas Mann. In this interview, he discusses how Mann’s works have been received in Italy and the key considerations involved in translating them. Mann’s writing poses specific challenges for translators, including complex syntactic organization and subtle pragmatic and lexical nuances. The interview also examines the relationship between older and more recent translations of Mann’s works.


Andrea Landolfi è docente di Letteratura tedesca e di Traduzione letteraria presso l’Università di Siena. In quanto traduttore, si annoverano tra i suoi lavori la traduzione in lingua italiana degli scritti di autori come Hugo von Hofmannsthal, Gregor von Rezzori e Thomas Mann. Dell’autore lubecchese, in particolare, ha curato l’edizione dei Meridiani Mondadori Nobiltà dello spirito e altri saggi (1997). Data l’esperienza del professor Landolfi nel campo della traduzione, testimoniata anche dal conferimento di vari premi per tale attività, Andergraund Rivista ha deciso di rivolgersi a lui per approfondire alcune questioni traduttive in riferimento ai testi di Thomas Mann, il cui ruolo e la cui attenzione nella scrittura sono riconosciuti dall’editoria italiana.


Silvia Girotto: Buongiorno professor Landolfi, innanzitutto, la ringraziamo per aver accettato di partecipare con un’intervista a questo numero speciale di Andergraund Rivista su Thomas Mann. La domanda con cui vorrei iniziare è personale: le chiedo infatti quando ha avuto occasione di avvicinarsi alla figura di Thomas Mann e perché ha deciso di dedicarsi anche a questo autore. C’è qualcosa in particolare che l’ha affascinato della persona o delle opere di Thomas Mann?

Andrea Landolfi: Innanzitutto, quando io ero ragazzo Thomas Mann era parte del canone ineliminabile. Non conoscere Thomas Mann quando avevo diciott’anni e frequentavo il liceo era impensabile, era uno degli autori che era necessario conoscere, quasi come se non fosse un autore straniero. Non era possibile, dunque, non aver letto opere quali Tonio Kröger o I Buddenbrook. Successivamente, da germanista mi sono necessariamente avvicinato a Thomas Mann, poiché è un passaggio fondamentale nella letteratura tedesca. Tuttavia, non sono stato mosso da un amore particolare, i miei amori letterari sono altri. Ho avuto però occasione di tradurre Mann e approfondire la sua produzione in maniera scientifica, in particolare curando i suoi scritti saggistici, pubblicati nei Meridiani Mondadori. Questa è stata un’occasione straordinaria per immergermi in maniera approfondita nell’opera di Thomas Mann.

 

SG: Dato che Thomas Mann è uno scrittore che ha ricevuto un certo riconoscimento anche quando era in vita, parliamo un po’ della sua ricezione in Italia. Sono state pubblicate traduzioni delle sue opere dal 1920 in poi, con varie selezioni dovute chiaramente al governo del periodo, ma è possibile dire che ci sia un titolo in particolare che sancisce il riconoscimento di Thomas Mann in Italia? Oppure si ritiene che sia il riconoscimento internazionale con il premio Nobel a conferirgli questa fama anche in Italia?

AL: Parlando di Thomas Mann e della sua della sua ricezione in Italia non si può non parlare della germanista Lavinia Mazzucchetti, importante mediatrice della cultura tedesca in Italia nei difficili anni dell’epoca fascista. Fu lei a tradurre e introdurre per prima Thomas Mann nel nostro Paese. Io sono solito distinguere due ingressi di Thomas Mann nella nostra letteratura: il primo ingresso sono le prime traduzioni, risalenti all’inizio degli anni Venti, e proseguite poi a cavallo del Premio Nobel del 1929. È necessario, tuttavia, tenere conto del difficile periodo in cui ciò accade, ovvero quello fascista, in cui un autore di questo genere non era sempre ben visto. Insieme a questo primo ingresso in sordina di Thomas Mann in Italia ne va identificato un altro, che invece è trionfale e simbolico: il 25 aprile del 1945, nel giorno che sancisce la rinascita del nostro Paese dopo il fascismo, viene pubblicata da un piccolo editore una nuova traduzione del Tonio Kröger ad opera di Emilio Castellani, traduttore che diventerà celebre proprio per le sue traduzioni di Thomas Mann e di Goethe. Sempre nel 1945 viene pubblicata anche una nuova traduzione de I Buddenbrook – la seconda in Italia – a firma di un altro importante traduttore italiano: Ervino Pocar. Queste due traduzioni sanciscono il vero ingresso di Thomas Mann nella letteratura italiana, gettando nel dimenticatoio le traduzioni precedenti, risalenti agli anni Trenta. È a quel punto che inizia la vera ricezione italiana di Mann, sempre grazie all’infaticabile Lavinia Mazzucchetti, che curerà la prima grande edizione mondadoriana delle opere.

 

SG: Tra l’altro Lavinia Mazzucchetti aveva anche una conoscenza personale di Thomas Mann. Infatti, nel volume dei Meridiani che contiene la corrispondenza di Mann sono presenti molte lettere sia con la sua firma che indirizzate a lei.

AL: Certamente, Mann e Mazzucchetti erano in stretti rapporti e Mann era perfettamente consapevole del grande ruolo che Mazzucchetti giocava per lui in Italia. Tra l’altro, l’ultima lettera di Mann, scritta il giorno prima della sua morte, è indirizzata proprio a lei.

 

SG: La presente domanda riguarda invece la sua introduzione a Nobiltà dello spirito. In essa, infatti, lei cita come uno dei tratti fondamentali dell’opera di Thomas Mann il suo legame con i classici. Ovviamente al centro di questo legame vi sono Goethe e Schiller, ma anche diversi altri artisti sui quali Mann scrive anche diversi saggi, come Heine, Chamisso, Wagner e altri. Secondo lei, cosa implica questa connessione esplicita dell’autore nel momento in cui queste opere devono essere tradotte? Risulta necessario valutare anche questo legame fra gli autori, che deve essere che deve essere mostrato anche al pubblico? C’è un bisogno di avere un occhio di riguardo per questo aspetto?

AL: Io credo che ci sia bisogno di avere sempre un occhio di riguardo quando si traduce un autore come Thomas Mann. La sua scrittura è completamente intessuta di riferimenti espliciti e impliciti, riferimenti a letture recenti, a letture remote e ai suoi grandi amori letterari. Tra questi ovviamente i nomi che ha fatto Lei, ai quali vanno però sicuramente aggiunti almeno quelli di Schopenhauer e Nietzsche. Riguardo a questo non credo, da traduttore, di aver adottato un’attenzione particolare, se non quella di tenere sempre presente l’orizzonte di riferimento dello scrittore. Così, per esempio, quando Thomas Mann, nei saggi su Wagner, parla del concetto di Steigerung. In quel caso è necessario sapere qual è l’implicazione del termine in Wagner. Io ho tradotto Steigerung con un termine italiano non particolarmente bello, “accrescimento”, che tuttavia mi sembrava il più adatto a rendere anche il contesto wagneriano. Il traduttore deve avere sempre queste attenzioni: la traduzione sarà tanto più bella e puntuale quanto più il traduttore sarà in grado di individuarne e coglierne i nessi interni. In un autore come Thomas Mann questi nessi sono spesso, accanto a quelli aperti e dichiarati, anche nascosti. Questo vale sia per la saggistica che per la narrativa, lo schema è esattamente lo stesso.

 

SG: Quando si parla di Thomas Mann si parla di testi che presentano una grande organizzazione nella struttura sintattica, precise sfumature pragmatiche e lessicali che sono al centro di un’attenta analisi e organizzazione da parte dell’autore. Come crede che possano essere affrontati questi aspetti nella traduzione con la consapevolezza di questa precisa volontà?

AL: Anche in questo caso è necessario saper tradurre. Io ho un rapporto non molto sereno con la teoria, in particolare con la teoria della traduzione. In questo mi sento confortato da Leopardi, il quale sosteneva che spesso chi parla teoricamente di traduzione è chi in realtà non sa tradurre. Io mi riconosco molto in questa frase un po’ acida: nel tradurre non mi pongo molti problemi da un punto di vista teorico, cerco invece di immergermi quanto più possibile nel testo. Mi faccio trasportare dal testo e nel farlo alcuni riferimenti mi sono immediatamente chiari, mentre altri possono inizialmente sfuggirmi, salvo poi riemergere successivamente nella fase, importantissima, di rilettura di quanto ho tradotto. Quindi non adotto nessuna strategia particolare che non sia una strategia di tipo immersivo nel testo. Non sono d’accordo con chi afferma che non bisogna essere empatici con l’opera che si traduce. Se non si è empatici con l’autore e con il testo non si riesce a tradurre bene.

 

SG: Penso sia anche il motivo che spinge un pubblico a leggere: il fatto di potersi immergere appunto nel testo. Quindi se non lo fa il traduttore stesso come si può apprezzare un testo?

AL: Le dirò che io ho vissuto una stagione, dagli anni Settanta fino all’inizio degli anni Ottanta, in cui invece si teorizzava una assoluta presa di distanza dal testo. Ricordo sempre un saggio in cui Franco Fortini raccontava, a proposito della sua traduzione del Faust di Goethe, di aver cominciato a tradurre dalla seconda parte della tragedia ed essere poi tornato indietro, proprio per non rischiare di immergersi troppo nel testo. A me sembra qualcosa di aberrante, non lo farei mai.

 

SG: Prendendo in considerazione Thomas Mann saggista e Thomas Mann narratore, quali sono le differenze e i punti di consonanza che possono essere identificati nel linguaggio manniano?

AL: La mia esperienza non è in questo ambito totale, perché di Thomas Mann non ho mai tradotto nulla di narrativo, ma ho tradotto tanta saggistica. Adesso sto traducendo i diari, ma non mi è mai capitata l’occasione di tradurre opere di narrativa, che conosco comunque molto bene e che rileggo sempre anche con l’occhio del traduttore. Io ritengo che le due scritture procedano parallelamente, perché come sappiamo Mann ha sempre affiancato le due attività. Ovviamente la principale per lui era l’attività di narratore, ma altrettanto seriamente intesa era anche la produzione saggistica, nonostante poi egli abbia scritto saggi più importanti e altri che redigeva solo ed esclusivamente per esigenze, diciamo, più immediate. In ogni caso, il tipo di impegno che Mann rivolge ai due ambiti è, se non lo stesso, sicuramente molto simile. Io individuo certe caratteristiche che sono presenti nell’una come nell’altra attività, e che sono appunto la cura estrema e una grande sorveglianza nella scrittura. Anche nei momenti e nelle pagine più intense della sua narrativa, Thomas Mann resta sempre uno scrittore estremamente sorvegliato e questa ovviamente è una sua caratteristica ben lontana dall’essere un difetto. Esattamente la stessa cosa avviene nella saggistica. In quel caso ogni tanto accade che quando si sente incalzato dall’urgenza polemica della politica, delle vicende del presente, Thomas Mann perda un poco l’equilibrio, e allora si rileva qualche piccola esplosione di sdegno, che ritengo bellissima. Anche nella narrativa qualche volta si verifica questo allentamento del controllo, però sostanzialmente Mann è uno scrittore ipercontrollato. Questa sua attenzione, degna di ammirazione, è presente tanto nella saggistica come nella narrativa. Perciò io non vedo differenze sostanziali fra le due scritture.

 

SG: Penso che questa organizzazione oltre che nel linguaggio si possa identificare anche nei rimandi continui ad altri generi e ambiti, dalle ispirazioni fiabesche all’uso del linguaggio medico. In riferimento a questo ultimo ambito, quali difficoltà porta l’utilizzo di una microlingua così precisa nella traduzione delle sue opere?

AL: Per rispondere a questa domanda posso condividere un’esperienza personale: quando ho lavorato al volume dei saggi di Thomas Mann erano gli anni Novanta e ancora non si usava Internet, questa risorsa che con il passare del tempo ci ha completamente cambiato anche come studiosi. Tra i miei compiti vi era quello di scegliere e tradurre ex novo una serie di saggi e rivederne altri che esistevano già in traduzioni precedenti. Questa – tra l’altro – è una pratica a mio giudizio piuttosto discutibile, che gli editori adottano per risparmiare. Decidono di utilizzare vecchie traduzioni, ma le fanno “rinfrescare”. Io mi stavo dedicando alla revisione della traduzione di Einführung in den Zauberberg, un’introduzione a La montagna magica scritta per gli studenti dell’Università di Princeton nel 1938 – secondo me uno dei più bei saggi di auto-interpretazione che siano mai stati scritti. Mann tenne questa lezione ai suoi studenti – che chiamava “i miei boys” – spiegando cosa fosse La montagna magica, raccontando com’era nato il romanzo e addentrandosi quindi anche in una descrizione dei sintomi e delle terapie della tubercolosi. Negli anni Novanta del secolo scorso, quando la tubercolosi era una malattia scomparsa ormai da decenni, io mi ritrovai a dover tradurre una serie di termini specifici ormai usciti dall’uso, e ricordo che non sapevo come uscirne. Quando non c’era Internet un traduttore poteva e doveva disporre, oltre che di molti sussidi libreschi, di una rete di persone alle quali potersi rivolgere; questa rete comprendeva ad esempio i genitori, cioè la generazione precedente. Così telefonai a mia madre e le chiesi se si ricordasse della tubercolosi e di questi termini medici. Lei disse di non ricordarsi, ma suggerì di chiamare un amico di famiglia, più anziano dei miei genitori, che faceva il medico generico, ma aveva come specializzazione la tisiologia. Oltre a conoscere l’opera di Thomas Mann il vecchio tisiologo conosceva la terminologia medica dei suoi tempi, che corrispondeva perfettamente con quella dell’epoca di Thomas Mann. Questo è un esempio di come sia il povero traduttore a doversi sempre e comunque arrangiare nel trovare la soluzione migliore. D’altra parte, lo stesso Thomas Mann si preparava, sia scrivendo narrativa che scrivendo saggistica, con letture anche molto finalizzate a immettere nell’opera una serie di nozioni e cognizioni specifiche. Basta pensare agli studi compiuti per scrivere Giuseppe, mentre nello Zauberberg per quanto riguarda la terminologia medica non ha fatto studi particolari, perché era la medicina del suo tempo, quindi non si è presentata a lui nessuna particolare difficoltà. La difficoltà esisteva invece per il traduttore di cento anni dopo.

 

SG: In seguito alla presa di potere del partito nazionalsocialista, Thomas Mann si trasferì negli Stati Uniti, dove proseguì la propria produzione letteraria e continuò ad essere un autore presente nella vita pubblica del luogo che abitava. Era solito presenziare a conferenze e tenerle lui stesso, ma soprattutto si impegnò politicamente come difensore dei valori democratici dopo il suo spostamento negli Stati Uniti. L’adattamento ad un nuovo contesto in cui farsi comprendere, pur mantenendo le proprie radici europee e tedesche, ha portato ad un cambio anche nello stile di scrittura e quindi la necessità di una qualche attenzione traduttologica?

AL: Sicuramente sì e questa è una domanda con risvolti interessanti. Prima di tutto, è bene dire che Mann, da borghese e da lubecchese, conosceva l’inglese, ma non amava particolarmente parlarlo, almeno prima di doversi trasferire in America. I primi inviti lo misero anche in uno stato di agitazione per la questione della lingua, tanto che tendeva ad appoggiarsi alla moglie, che evidentemente era più sicura di lui nel parlare inglese. Già nei primi anni negli Stati Uniti Thomas Mann ebbe un ruolo importantissimo di rappresentante nel mondo dell’“altra” Germania, la Germania sua e di Goethe, che non aveva nulla a che fare con quella di Hitler. Questo ruolo di rappresentanza gli impose naturalmente di parlare molto in pubblico. Dicendo “parlare in pubblico” dobbiamo fare uno sforzo rispetto a ciò che ci immaginiamo oggi: se in questi nostri anni la conferenza di un intellettuale raccoglie in una sala una cinquantina di persone ci si può ritenere soddisfatti, mentre Thomas Mann in genere parlava davanti a 5.000-10.000 persone. Erano questi i numeri, per noi oggi assolutamente spropositati, durante questi tour attraverso gli Stati Uniti, in cui recitava anche i suoi scritti, in genere quelli di carattere politico, ma non soltanto! Si teneva sempre la lettura di qualche brano dal Giuseppe o da Charlotte a Weimar, ad esempio. Ritornando alla questione linguistica, nei primi anni in America, si può leggere nei diari come Mann riferisca: “parlato bene l’inglese” o “parlato abbastanza bene l’inglese”. Ciò che lo terrorizzava era quello che in italiano viene chiamato “dibattito”, ovvero l’uso di gratificare l’oratore alla fine del suo discorso con una serie di domande. Thomas Mann detestava questo question time e per tutti i primi anni durante il soggiorno negli Stati Uniti, ogni volta che poteva, si faceva accompagnare dalla figlia Erika, proprio con funzione di semi-interprete. Aveva dunque difficoltà di questo tipo, che ha poi superato via via, fino a non averne affatto. Questo ha influenzato in parte la sua lingua. A questo proposito con gli altri curatori dei diari ci siamo interrogati su vari aspetti e ricordo che tra le altre è stata posta la questione dell’uso del termine lunch. Da un certo punto in poi Thomas Mann non parla più di “pranzo”, ma di lunch. La questione non è così semplice, perché il termine lunch faceva parte in qualche modo del lessico colto altoborghese e abbiamo visto che prima del periodo in America lui già usava questo termine, ma alternandolo ad altri termini in tedesco. Da un certo punto in poi, tuttavia, proprio negli anni americani, lunch diventa esclusivo. Questo è un piccolo esempio per spiegare come Mann abbia assimilato anche la lingua quotidiana e come questa si sia riflessa sulla sua produzione. Per quanto riguarda invece un’influenza del mondo anglosassone sullo stile dello scrittore Thomas Mann, direi che questa non è riscontrabile nei suoi testi. Non credo che l’asciuttezza o la sobrietà anglosassone si siano in qualche modo trasferite nell’opera: Thomas Mann è rimasto profondamente fedele alla sua lingua. Si potrebbe pensare che in parte sia stato influenzato lo stile saggistico, visto che molte opere del periodo americano sono state composte direttamente in inglese, altre sono state invece scritte in tedesco e poi tradotte. In questo caso l’interferenza e la contiguità delle due lingue è più stretta e forse può aver effettivamente prodotto una maggiore asciuttezza negli scritti di quel periodo.

 

SG: A settant’anni dalla morte di Thomas Mann sono state ormai identificate delle traduzioni che si potrebbero definire “canoniche”, come quelle di Lavinia Mazzucchetti, che vedono una riproposizione anche nelle riedizioni di oggi. Crede che accanto a queste traduzioni più tradizionali sia necessario accostare delle traduzioni che siano più al passo con i tempi in termini linguistici, ad esempio per quanto concerne lessico e sintassi? Quali aspetti – in relazione alle precedenti traduzioni – è necessario tenere in considerazione nell’approcciarsi ad una traduzione delle opere di Mann?

AL: Per quanto riguarda le nuove traduzioni, fino a un po’ di tempo fa io affermavo che una traduzione dura nel migliore dei casi cinquant’anni, ma già non è più vero: ne dura trenta. Quindi ogni trent’anni le traduzioni andrebbero rifatte, il che non toglie naturalmente che ci siano state consegnate dalla tradizione delle traduzioni ottime, a volte inarrivabili. Ma è cambiato il modo di tradurre. Quando ho curato l’edizione mondadoriana di Nobiltà dello spirito ho rivisto i lavori anche di grandi traduttori come Mazzucchetti e Arzeni, facendo scoperte che possono sembrare sconcertanti, ma che in realtà non lo sono, poiché rimandano a una modalità del tradurre che è cambiata. Partendo dal testo originale e incappando in un passo particolarmente complesso e arduo controllavo come fosse stato risolto da Mazzucchetti o Arzeni o dal traduttore in questione: il più delle volte questi passi venivano risolti semplicemente saltando il punto complesso. Questo avveniva non perché fossero disonesti, erano anzi onesti e rigorosi, ma all’epoca avevano un imperativo che per noi oggi non vale più, ovvero rendere fruibile l’opera a un pubblico che non conosce il tedesco. Renderla fruibile significava anche adattarla, farle un certo maquillage, renderla “grata” al paese di destinazione. Era una prassi traduttiva normale, che per noi oggi è impraticabile. Questa è la ragione per cui anche traduzioni di valenti traduttori non possono resistere alla prova del tempo. Quindi è importante ritradurre sempre, perché la lingua evolve, ma cambiano anche le nostre esigenze rispetto ai testi che leggiamo.

 

SG: Penso che ciò sia vero soprattutto in questi ultimi decenni, in cui la lingua si evolve in modo sempre più veloce. Abbiamo dunque l’ultima domanda: Ritiene che vi sia qualche testo di Mann che non ha ricevuto l’attenzione che avrebbe meritato, che ha avuto poche traduzioni migliorabili o che sono ormai da considerarsi datate? Oppure un testo mai tradotto che varrebbe la pena diffondere?

AL: Mi permetta di rivoltare la domanda, perché Thomas Mann è stato molto tradotto – con esiti alterni – e ora con la decadenza dei diritti dal 2025 saremo inondati di nuove traduzioni. Non credo sia il caso di raccomandare all’attenzione particolari traduzioni, né mi viene in mente qualcosa di Thomas Mann che non sia stato tradotto e che meriti di esserlo nell’ambito della saggistica. Certamente ci sono molti testi che non sono stati ancora tradotti in italiano, ma i più importanti sono disponibili. Vorrei però aggiungere questo: nell’ambito delle opere ipertradotte di Thomas Mann, mi piacerebbe personalmente moltissimo ritradurre Tonio Kröger – e forse sarebbe la quindicesima o sedicesima traduzione. Mi piacerebbe perché è con questo testo che è iniziato il mio rapporto con la letteratura tedesca in lingua: è stata la prima opera che ho letto in tedesco parola per parola, dizionario alla mano, e oggi mi piacerebbe chiudere il cerchio. Ma in questo oceano di traduzioni chissà quante nuove traduzioni del Tonio Kröger sono in arrivo.

 

 

Apparato iconografico:

Immagine 1 e immagine di copertina: Immagine fornita dall’intervistato.