Thomas Mann: visioni, psicologia del potere e legami italiani. Intervista con Elisabeth Galvan

Intervista a cura di Martina Mecco

 

Abstract:

Thomas Mann: Visions, Psychology of Power, and Italian Tights. An Interview with Elisabeth Galvan

Elisabeth Galvan is full professor of German literature and language at University of Naples “L’Orientale”. The interview starts from The Magic Mountain and its “pendant”, Death in Venice, and diving into Mann’s short stories (i.e. The Law and Mario and the Magician) and “minor” genres of his opus, such as the theatre. The interview also focuses on Mann’s thighs with the Italian context and the incoming Italian edition of Mann’s diaries.


Elisabeth Galvan è professoressa ordinaria di lingua e letteratura tedesca presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. I suoi studi si concentrano sulla letteratura tedesca tra XIX e XX secolo, con particolare attenzione all’opera di Thomas Mann. Galvan ha approfondito le strategie narrative di Mann, il suo rapporto con il mito e la tradizione, nonché la ricezione delle sue opere in Italia, offrendo un contributo significativo alla comprensione della complessità della sua scrittura e delle sfide poste alla traduzione. Dal 2021 è, inoltre, direttrice dell’Associazione Italiana degli Studi Manniani (AISMANN). Partendo da La Montagna magica e dal suo pendant La morte a Venezia, l’intervista è dedicata ad alcuni racconti di Mann (tra cui La legge e Mario e il mago) e ai generi minori della sua opera, come il teatro. L’intervista si concentra, infine, sui legami di Thomas Mann con il contesto italiano e sull’edizione italiana dei Diari, di prossima pubblicazione.


Martina Mecco: Buongiorno, innanzitutto la vorrei ringraziare per aver accettato la proposta di rilasciare questa intervista per Andergraund Rivista in occasione del centocinquantesimo anniversario della nascita di Thomas Mann, nonché il settantesimo dalla morte. Inizierei dunque chiedendole in che modo e in quali circostanze sia avvenuto il suo primo incontro con l’autore e come si sia, successivamente, evoluto.

Elisabeth Galvan: A parte le prime letture canoniche degli anni del liceo, mi sono avvicinata a Thomas Mann grazie al Dottorato di ricerca in Italia. Durante il mio precedente percorso universitario a Vienna non era un autore la cui opera rientrasse nei programmi di lezioni e seminari, un po’ per motivi ideologici, un po’ perché il focus era sulla letteratura austriaca. Durante il Dottorato di ricerca, Paolo Chiarini aveva scelto Thomas Mann come tema per uno dei nostri seminari. All’epoca mi occupavo di Johann Jakob Bachofen e della sua opera Das Mutterrecht (“Il matriarcato”, 1861) che ha avuto grande influenza sia sulla sociologia sia, ancor di più, sulla letteratura del Novecento. È stato Paolo Chiarini a incoraggiarmi a indagare l’importanza che il sistema culturale e antropologico elaborato da Bachofen ha avuto per la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli di Mann.

 

MM: Nella precedente intervista con il prof. Crescenzi ci siamo addentrati ne La Montagna Magica. Nell’Appendice all’edizione “I Meridiani” del romanzo, pubblicata nel 2011, è inserita la novella Der Tod in Venedig (“La morte a Venezia”, 1912). Nell’introduzione alla novella, rifacendosi alle parole di Mann, lei afferma che La Montagna Magica rappresenta “una sorta di pendant” (in tedesco Gegenstück) a La morte a Venezia. Diversi sono gli elementi di contatto che lei mette in luce, dalla simbologia dell’ambientazione narrativa ai tratti di alcuni personaggi. Vi è un tema che emerge, potremmo forse azzardare “primeggia”, nell’opera di Mann sin dagli albori, ovvero quello dell’onirico, della visione. Come si delinea il rapporto tra queste due opere in riferimento a questo tema?

EG: L’introduzione dell’elemento onirico e della visione in un impianto apparentemente “realistico” caratterizza l’opera di Thomas Mann fin dagli esordi, con buona pace di tutta quella critica che ancora oggi si ostina a volerla leggere nella tradizionale chiave dell’eredità ottocentesca e naturalista. Infatti, già una delle primissime prove della narrativa manniana, risalente al 1893 e intitolata Vision (“Visione”), tematizza l’impercettibile discrimine tra stato cosciente e stato onirico. La morte a Venezia si apre con una visione e si chiude con un sogno: l’apparizione improvvisa di un misterioso straniero davanti al cimitero di Monaco evoca nel protagonista del racconto la visione di un paesaggio lontano e esotico che lo porterà a lasciare la Germania e a intraprendere un viaggio. Poco prima della sua fine, a Venezia Aschenbach sogna un baccanale e, in quella scena, la propria rovina. Del resto, l’elemento onirico è onnipresente nella narrazione, poiché innumerevoli sono le volte in cui il protagonista si addormenta, e non sempre viene precisato che poi si svegli, sicché tutte le vicende ambientate a Venezia potrebbero essere lette come un unico sogno, o come molti sogni incastonati uno nell’altro a mo’ di scatole cinesi. Seguendo la logica onirica del racconto, anche Tadzio, l’oggetto della passione, si configura come visione e frutto del potere immaginifico dell’arte. Per quanto riguarda La montagna magica, il carattere eminentemente onirico dell’intero romanzo è stato messo in luce dal curatore della nuova edizione italiana Luca Crescenzi, che dimostra per la prima volta come le vicende di Hans Castorp nel sanatorio siano il contenuto di un sogno del protagonista sul campo di battaglia con cui il romanzo si chiude. La centralità dell’elemento onirico è confermata anche da un capitolo-chiave del romanzo, il famoso Sogno sotto la neve. Nella novella veneziana Thomas Mann ha sperimentato su scala minore un certo utilizzo del sogno che poi avrebbe sviluppato in grande nel romanzo.

 

MM: Nel 1971 Luchino Visconti realizzò una fortunata trasposizione cinematografica de La morte a Venezia. Può parlarci della ricezione della novella manniana in Italia riferendosi, nello specifico, alla possibile realizzazione di nuovi percorsi scenici? Ricordo, ad esempio, la recente trasposizione drammaturgica di Liv Ferracchiati al Bellini di Napoli.

EG: Il film di Visconti con i suoi accenti sull’elemento decadente e su quello omoerotico ha influenzato enormemente la ricezione italiana non solo della novella, ma più in generale di Thomas Mann stesso e continua a farlo. Nell’immaginario collettivo del nostro paese, per certi versi, La morte a Venezia coincide con il film ancor prima che con il racconto. Nessuna nuova trasposizione può dunque esimersi da un confronto con l’interpretazione di Visconti – sia che la segua o ne prenda le distanze. L’esempio più interessante di una rivisitazione della novella non solo in Italia ma certamente anche a livello internazionale, è il recente percorso scenico ideato dal regista italiano Liv Ferracchiati che propone al pubblico teatrale una riscrittura molto raffinata e efficace de La morte a Venezia in cui una profonda conoscenza del testo – e di tutta l’opera di Thomas Mann – va di pari passo con una grande creatività capace di dar vita a un’opera d’arte completamente nuova: attraverso una tecnica filologica assai affinata, Ferracchiati decostruisce il testo manniano per ricomporlo in una sorta di originalissima opera d’arte totale basata sulla recitazione, la musica e la danza. Sottopone insomma il racconto a un processo di enucleazione di alcuni dei suoi elementi essenziali che si collocano su un piano diverso, più profondo, rispetto alla mera storia della passione di uno scrittore famoso per un giovane che conduce alla morte. La trasposizione di Ferracchiati cita Visconti a più riprese, ma si disinteressa sia dell’aspetto omoerotico sia di un altro elemento sempre ritenuto rilevante, cioè la differenza di età tra lo scrittore maturo negli anni e il giovanissimo Tadzio, qui interpretato in modo magistrale dalla danzatrice Alice Raffaelli: Ferracchiati non sottolinea così soltanto il carattere dionisiaco di Tadzio – che si affianca a quello suo più scopertamente apollineo – ma la sua interpretazione coglie anche la centralità di un elemento spesso ignorato dalla critica, cioè la macchina fotografica e la sua funzione che allude alla natura onirica e fantastica di Tadzio come sogno e creazione artistica del suo autore, Aschenbach.

 

MM: Vorrei ora concentrare l’attenzione sul legame di Thomas Mann con l’Italia. Come già affermato poc’anzi, La morte a Venezia è forse l’esempio più noto, almeno per quanto concerne il pubblico italiano, di questo rapporto. Tuttavia, l’opera “italiana per eccellenza” di Mann è Mario und der Zauberer (“Mario e il mago”, 1930). Potrebbe soffermarsi sul ruolo della componente italiana nell’opus manniano? Ricordo, a tal proposito, la mostra da lei curata presso la Casa di Goethe su Mario e il mago e sulla sua ricezione, in forma di balletto, anche in questo caso ad opera di Visconti.

EG: Mario e il mago è infatti il racconto italiano per eccellenza che però sconta in Italia per certi versi ancora oggi la censura cui fu sottoposto durante il regime fascista. A differenza di altri racconti o romanzi, Mario und der Zauberer, pubblicato per la prima volta nel 1930, vide una traduzione italiana solo alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, e a tutt’oggi è penalizzato da una circolazione limitata nel pubblico italiano. Mario e il mago narra di una famiglia tedesca che nella seconda metà degli anni Venti del ‘900 trascorre le vacanze estive in Versilia, del clima politico che i genitori avvertono e dello spettacolo cui una sera assistono insieme ai loro bambini. L’artista che si esibisce sul piccolo palco si annuncia come mago e illusionista, ma la sua performance consiste in realtà nella manipolazione e sottomissione del pubblico attraverso un potere ipnotico cui è impossibile sottrarsi. La censura italiana fascista colse subito il carattere metaforico del mago Cipolla il cui modello era Cesare Gabrielli, noto illusionista e ipnotizzatore prima e durante il ventennio, inventore della celebre formula “A me gli occhi”, che Vittorio De Sica volle per una breve scena del suo film I bambini ci guardano (1943): infatti, nell’intenzione di Thomas Mann il racconto doveva fungere da monito per la Germania dove si stava preparando l’avvento del nazionalsocialismo. Può sorprendere che, seppur non tradotto, il racconto venne comunque recensito in Italia, in modo negativo si capisce, e tacciato di tendenza antiitaliana. Vetta insuperabile in questo senso è una recensione apparsa nel luglio 1930 sulla rivista fascista Augustea dal titolo eloquente “Pregiudizi di Tommaso Mann” il cui acume critico si trova sintetizzato nella domanda: “Ma perché, benedetti letterati tedeschi, non ve ne state in casa vostra?” Volutamente viene del tutto ignorata la caratterizzazione molto differenziata delle figure italiane che popolano il racconto. All’atmosfera apertamente nazionalista che domina negli spazi pubblici come la spiaggia o il Grand Hotel, vengono contrapposti rappresentanti di un’Italia diversa che tentano di opporsi a quel clima, prima di tutti il giovane cameriere Mario che nel drammatico finale uccide il mago Cipolla. Sarà ancora una volta Luchino Visconti a dare anche a questo racconto una veste nuova, trasponendolo nel 1952 in un’“Azione coreografica” sulle musiche del cognato Franco Mannino. Il balletto venne messo in scena alla Scala nel 1956 fornendo l’occasione per il primo debutto di Carla Fracci come prima ballerina. Quest’opera di Visconti precedette di quasi vent’anni il film Morte a Venezia e Thomas Mann, in un incontro con Visconti e Mannino avvenuto in occasione della sua visita romana nel 1953, ebbe occasione di leggere lo spartito. La messinscena del racconto manniano alla Scala fu presto completamente dimenticata e proprio per questo il museo tedesco Casa di Goethe a Roma qualche anno fa ha acconsentito all’allestimento di una mostra dal titolo Mario e il mago. Thomas Mann e Luchino Visconti raccontano l’Italia fascista. In quella mostra, sulla base delle foto custodite nell’archivio Visconti, ho cercato di ricostruire il balletto attraverso un montaggio di foto accompagnate dalle musiche di Mannino. Insieme a molti altri materiali fino a quel momento mai resi accessibili al pubblico, furono esposti per la prima volta anche i bozzetti della scenografia Lila de Nobili per la messinscena scaligera. 

 

MM: Sempre in riferimento a Mario e il mago, che ruolo ricopre il racconto nell’evoluzione della scrittura di Thomas Mann? Nelle opere manniane a svolgere un ruolo fondamentale è la riflessione politica. Questa emerge tanto nei romanzi quanto in saggi dichiaratamente politici, come Betrachtungen eines Unpolitischen (“Considerazioni di un impolitico”, 1918). Come si sviluppa questa riflessione nei racconti e, in particolare, in Mario e il mago?

EG: Il racconto segna un importante punto di svolta sia estetico sia etico. Dopo di esso Thomas Mann abbandonò la sua poetica estetica la quale, per chiarire, non prevedeva alcuno schieramento di parte, proprio perché la letteratura rappresentava quel grande cosmo all’interno del quale tutte le voci possono e devono trovare espressione, senza che un narratore o un’istanza superiore intervenga a censurarle o a decidere ciò che è giusto o sbagliato. (In un certo senso, potremmo chiamarla una poetica “democratica”). Pensiamo alla celebre polarizzazione tra Naphta e Settembrini nella Montagna magica: la dialettica tra di loro rimane aperta. Con Mario e il mago e nel contesto di cui il racconto è espressione, vale a dire il fascismo in Italia e il nazionalsocialismo alle porte in Germania, le cose cambiano e Thomas Mann incomincia a “prendere partito”. Non a caso sono gli anni in cui anche e soprattutto nella saggistica si schiera a favore della Repubblica di Weimar e della democrazia, mettendo in guardia da un clima politico caratterizzato, in Italia come in Germania, dal nazionalismo, dal trionfo dell’irrazionale, dal culto della personalità autoritaria, dal controllo manipolatorio delle masse e da un generale imbarbarimento delle nostre civiltà. Mario e il mago affronta tutti questi temi, oggi su scala globale più attuali che mai mi verrebbe da dire, e li ordina magistralmente all’interno di un unico complesso narrativo. Non è un caso che nello stesso anno 1930 Thomas Mann tenne a Berlino una celebre conferenza dal titolo programmatico Deutsche Ansprache. Ein Appell an die Vernunft (“Discorso tedesco. Un appello alla ragione”) che fu interrotta da alcuni membri della SA, l’organizzazione paramilitare del partito nazionalsocialista.

 

MM: Un tema importante e meno investigato di altri è il tormentato rapporto di Mann con il teatro. La sua unica pièce teatrale completa è Fiorenza. Pubblicata da Fischer nel 1906, venne inscenata per la prima volta a Francoforte nel 1907. Osservando il corpus delle opere di Mann è rilevante osservare come tra Fiorenza e Luthers Hochzeit (“Il matrimonio di Lutero”), suo secondo tentativo – sebbene inconcluso – di avvicinarci al teatro, passino quasi cinquant’anni. In che termini descriverebbe il rapporto di Mann con il teatro?

EG: Tutta la scrittura di Thomas Mann è caratterizzata da una forte ibridazione di generi letterari: molti sono gli elementi epici nel suo unico dramma Fiorenza, ma numerosi sono anche gli inserti drammatici all’interno dei testi narrativi, basti pensare alle frequenti costellazioni antitetiche nel sistema delle figure, oppure alla centralità dell’aspetto dialogico nei racconti e romanzi. Già I Buddenbrook si possono leggere come un susseguirsi di scene drammatiche, il racconto più vicino al teatro è tuttavia Schwere Stunde (“Ora greve”), concepito come un lungo monologo o atto unico il cui solo protagonista è il poeta e drammaturgo Friedrich von Schiller, anche se non viene nominato mai. La stessa tecnica di ibridazione si può riscontrare del resto anche negli inserti lirici che spesso si trovano montati dentro al testo in prosa. Detto questo, al di là della sua passione per il teatro, Mann è sicuramente un autore epico, perché solo quella forma gli consente quell’insieme di azione narrativa e elementi riflessivi e saggistici tipici della modernità e del suo soggettivismo. 

L’ambientazione di Fiorenza è annoverabile tra le opere che esemplificano il contatto di Thomas Mann con l’Italia. La vicenda, infatti, è ambientata nel Quattrocento fiorentino ed è incentrata su Girolamo Savonarola. Questa figura si rivela interessante per il modo in cui Mann costruisce un discorso sulla psicologia del potere (in tedesco Macht). Potrebbe descrivere il ruolo di Savonarola in questa prospettiva e il suo rapporto con altri personaggi della pièce, ad esempio la sua funzione antitetica a Lorenzo il Magnifico?

Savonarola è per molti versi un predecessore del mago Cipolla in Mario e il mago. Entrambe le figure sono accomunate dalla volontà di sottomettere le masse attraverso la parola e dalla strumentalizzazione del linguaggio a fini puramente manipolatori. Parimenti è anche un predecessore di Naphta, il gesuita fanatico della Montagna magica che rivendica la teocrazia. La psicologia del potere di Savonarola è costruita con straordinaria finezza e coerenza, utilizzando alcune categorie che Nietzsche aveva sviluppato nella sua Genealogia della morale, in particolare la sua diagnosi del risentimento come molla profonda di ogni fanatismo. Anche il Savonarola di Fiorenza è mosso dal risentimento, poiché alla radice del suo odio nichilista per il mondo e la vita c’è l’umiliazione di un amore non corrisposto. È interessante notare che questo dettaglio viene riferito dallo storico Pasquale Villari nella sua monumentale biografia savonaroliana (che Thomas Mann conosceva molto bene), ma nel dramma viene combinato con la psicologia del risentimento nietzscheana: ed ecco il Savonarola altamente fanatico, misogino e ossessionato dal potere che Thomas Mann mette in scena. Il carattere antitetico di Lorenzo il Magnifico serve alla logica dialettica del dramma: entrambi vogliono il dominio su Fiorenza, unica figura femminile della pièce e allegoria della città di Firenze. Ma un’analisi attenta del testo rivela un aspetto ulteriore e di straordinaria modernità: la dialettica tra i due antagonisti è solo apparente, perché l’ossessione per il potere su Fiorenza e su Firenze che i due antagonisti condividono, è una sola medaglia composta di due facce.

 

MM: Si è sinora discusso di due generi, ovvero la prosa breve e il teatro. Vorrei ora spostare l’intervista sul genere del romanzo. Tuttavia, non vorrei chiederle di parlare di opere ormai canonizzate nella ricezione italiana di Mann, bensì di Der Erwählte (“L’eletto”, 1951), da poco ripubblicato nei Meridiani. In che modo quest’opera affronta temi chiave dell’opus manniano quali l’esilio e la consecutiva dicotomia identità-crisi? Sebbene cronologicamente distante, anche il racconto Das Gesetz (“La legge”, 1944) presenta temi affini, è possibile tracciare un parallelismo tra le due opere?

EG: L’eletto è l’ultimo romanzo compiuto di Thomas Mann e per molti versi il punto d’arrivo della sua opera. Sotto una veste dall’apparenza leggera si intrecciano molti livelli e tematiche di grande complessità che riprendono nel loro insieme le riflessioni che Mann ha sviluppato nel corso della sua vita in ambito politico, estetico, culturale, antropologico e psicologico portandole a un livello di estrema raffinatezza e leggerezza. Attraverso una forma altamente sperimentale in cui dominano l’ibridazione linguistica e la polifonia di codici stilistici e registri che ne svelano il carattere sovranazionale e europeo, universale, il romanzo riscrive in chiave moderna e psicoanalitica la leggenda medievale del grande peccatore Gregorio. Nato come frutto di un incesto e a sua volta inconsapevole autore di un incesto, dopo un lunghissimo periodo di espiazione su una roccia in mezzo all’acqua il protagonista viene infine “eletto” papa per grazia divina. Le tematiche centrali della colpa, del pentimento e dell’espiazione che compongono la leggenda, si ritrovano ancor prima nei discorsi radiofonici che Thomas Mann rivolge dal 1940 al 1945, attraverso il canale tedesco della BBC, agli Ascoltatori tedeschi con l’obiettivo di informarli sui crimini nazisti e sul vero corso della guerra, incitandoli alla resistenza. L’eletto riflette tutte le grandi problematiche del suo tempo, dall’urgenza del superamento di ogni nazionalismo per rendere possibile la nascita di un vero spazio politico e culturale europeo alla necessità dell’espiazione della colpa tedesca (e forse anche per questo la Germania del dopoguerra riservò un’accoglienza molto distaccata al romanzo), dall’esilio al bisogno di una forma di governo del mondo improntato a una tolleranza di stampo illuminista. Prima ancora che un grande peccatore, Gregorio è un grande esiliato: la sua nascita incestuosa sovverte qualsiasi ordine precostituito e rende impossibile fin dall’inizio una sua collocazione nel mondo, ragion per cui appena nato, come un novello Mosè, viene affidato in una piccola botte alle acque del mare. Il suo è un esilio esistenziale, e nella logica del romanzo il papato rappresenta solo la sua forma ultima. L’eletto, scritto dopo diciassette anni di emigrazione da parte del suo autore, è dunque un romanzo dell’esilio e sull’esilio, ma anche l’auspicio di un nuovo inizio dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Del resto, già nel racconto veterotestamentario La legge era emersa l’idea che l’ordine scaturisce dal disordine e che solo dal caos può nascere un nuovo inizio.

 

MM: A suo avviso, è possibile individuare una linea di continuità che rimandi La legge (1943) allo scritto di Sigmund Freud Der Mann Moses und die monotheistische Religion (“L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, 1939)?

EG: Il racconto di Mann e il saggio di Freud sono due testi che dialogano tra loro. La riscrittura manniana della storia di Mosè in chiave psicoanalitica sarebbe impensabile senza l’originalissimo e provocatorio saggio che Freud aveva dedicato a questa figura appena 4 anni prima. Basti pensare al fatto che il Mosè freudiano non è di origine israelitica bensì egizia. L’origine del Mosè di Mann è ancora più provocatoria, poiché è figlio di una principessa egiziana che ha abusato di uno schiavo ebreo prima di farlo uccidere. Il racconto sottolinea fin dalla prima frase – “La sua nascita era stata disordinata” – la genesi complessa del protagonista che sta alla base del suo bisogno di trovare una propria identità attraverso la missione dell’Esodo con le sue implicazioni religiose, politiche e psicologiche. La brillantissima riscrittura manniana del mito veterotestamentario muove da una chiave laica che non solo si ricollega al saggio di Freud ma alle categorie della psicoanalisi più in generale, al punto che La legge può essere letto come una risposta a L’uomo Mosè e la religione monoteistica che il suo autore, grande estimatore di Thomas Mann, purtroppo non ha più potuto conoscere.

 

MM: Lei è attualmente la presidente dell’Associazione Italiana degli Studi Manniani (AISMANN), come è nata l’associazione e con quali obiettivi? Che legame intrattiene con la Thomas Mann Gesellschaft? Trovo sia particolarmente significativo il fatto che non si ponga come unico presupposto, ad esempio, la pubblicazione di studi critici dedicati a Thomas Mann, ma anche ad altri membri della famiglia Mann, come ben rappresentato dal suo contributo Heinrich e Thomas Mann – Un confronto con il romanzo moderno (2012).

EG: L’obiettivo dell’associazione è la promozione e la divulgazione delle opere letterarie di tutta la famiglia Mann nel nostro paese con cui alcuni membri hanno tra l’altro intrattenuto rapporti importanti: penso naturalmente ai fratelli Heinrich e Thomas, ma anche a sua figlia Elisabeth che aveva sposato lo scrittore italiano antifascista Giuseppe Antonio Borgese. In questa prospettiva l’associazione promuove anche lo studio dei rapporti tra intellettuali e scrittori italiani con l’opera dei Mann. La Deutsche Thomas Mann-Gesellschaft (di cui sono stata una delle vicepresidenti) si concentra sull’opera e la figura di Thomas da una prospettiva più tedesca che internazionale.

 

MM: È in corso un progetto editoriale rilevante per la ricezione degli scritti manniani in Italia, ovvero la pubblicazione dei Diari (1918-1955, divisi in dieci volumi) dell’autore. Si tratta di un progetto iniziato nel 2021 e promosso dall’Istituto Italiano di Studi Germanici, in cui sono coinvolti diversi specialisti tra cui altri due intervistati in questo speciale di Andergraund Rivista, il prof. Luca Crescenzi e il prof. Andrea Landolfi, e, vorrei citare, il prof. Marco Rispoli. Essendo lei la responsabile del progetto, le vorrei chiedere di spiegarci come quest’ultimo è strutturato e quali complessità si incontrano nel proporre questo importante tassello della produzione manniana per la prima volta al di fuori del contesto tedesco.

EG: Thomas Mann era solito annotare quotidianamente i fatti del giorno e questo esercizio ha prodotto una testimonianza biografica di dimensioni forse uniche nel panorama letterario del Novecento. I diari pervenuti riguardano il triennio 1918-1921 e gli anni dell’esilio dal 1933 fino alla morte nell’agosto 1955. Si tratta dunque di una documentazione molto importante dei periodi più significativi del Novecento. L’edizione italiana dei diari sarà la prima pubblicazione completa al di fuori dalla Germania e dunque un caso letterario assolutamente unico. Inoltre, presenterà i diari per la prima volta nella loro forma originaria: in Germania, al momento della pubblicazione iniziata nel 1977, l’allora curatore ritenne di sopprimere alcuni passi considerati troppo intimi o tali da turbare la sensibilità di alcuni familiari ancora in vita. L’edizione italiana integrerà invece le parti a suo tempo espunte. Il nostro piano editoriale prevede un curatore/una curatrice per ognuno dei dieci volumi che provvede alla traduzione, al commento e a un’introduzione. Una delle complessità riguarda proprio il primo aspetto, poiché la traduzione di un testo diaristico si differenzia profondamente, in virtù della sua natura intima e personale, da quella di un’opera letteraria, solitamente nata e scritta per un pubblico universale. Il diario rappresenta invece la più diretta e soggettiva espressione di un individuo e dunque anche della sua identità culturale, del suo rapporto con la propria cultura. Ciò vale in particolare per i diari di Thomas Mann che contengono numerosissime riflessioni sul suo rapporto con la cultura tedesca. Di questo aspetto e della complessità correlata noi curatori dobbiamo essere consapevoli nel trasporli in un’altra lingua e cultura.

 

MM: Avviandoci a una conclusione e in virtù anche dell’occasione in cui questa intervista è stata concepita, le vorrei chiedere quali sono i possibili temi o approcci relativi all’opera di Mann che varrebbe la pena di sviluppare, rifacendomi nello specifico al futuro degli studi manniani in Italia. Inoltre, visto anche il rinnovato interesse editoriale nei confronti di Mann, ci sono opere che meriterebbero una nuova e aggiornata edizione?

EG: Attualmente la ricerca manniana italiana si differenzia significativamente da quella tedesca in virtù di un’attenzione al testo e di un rigore filologico che ritiene strumenti imprescindibili per una comprensione profonda della complessità di questo autore e la recente edizione dei romanzi di Thomas Mann nei Meridiani di Mondadori offrono un esempio lampante di questo stato di cose. A livello internazionale, la ricerca italiana è attualmente la più vivace. Penso dunque che valga la pena continuare su questa strada, e fortunatamente in Italia ci sono i presupposti per poterlo fare. Forse mai come oggi sarebbe urgente riscoprire la grandissima attualità dell’opera di Mann come diagnosi delle crisi che hanno attraversato il secolo breve. In questo senso, i saggi politici incentrati sulla difesa dell’Europa e della democrazia meriterebbero maggiore attenzione.

 

 

Apparato iconografico:

Immagine 1 e immagine di copertina: Immagine fornita dall’intervistata.