Melanconia, eros, guerra e morte. Luca Crescenzi racconta “La montagna magica”

Intervista a cura di Erika Maria Sottile

 

Abstract:

Melancholy, Eros, War, and Death. Luca Crescenzi on “The Magic Mountain”

This interview with Luca Crescenzi, Director of the Italian Institute of German Studies and Full Professor of German Literature at Ca’ Foscari University, one of the leading voices in Thomas Mann studies, focuses on The Magic Mountain and explores themes of melancholy, Eros, war, and death, highlighting the novel’s enduring significance in the German Studies and cultural discourse.


Luca Crescenzi, direttore dell’Istituto Italiano di Studi Germanici e professore ordinario di Letteratura Tedesca presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, è una figura di riferimento della germanistica italiana e internazionale. Nel 2017 è stato insignito della prestigiosa Thomas Mann-Medaille – un riconoscimento conferito dalla Deutsche Thomas Mann-Gesellschaft per meriti eccezionali nella ricerca e diffusione delle opere di Thomas Mann – risultando il primo studioso non tedesco a riceverlo. Autore della monografia Melancolia occidentale (Carocci, 2011), è tra i massimi esperti de La montagna magica di Thomas Mann, della quale ha curato l’edizione per i Meridiani Mondadori nel 2010.

Abbiamo incontrato il professore a Venezia.


Erika Maria Sottile: Buongiorno professor Crescenzi, innanzitutto, la vorrei ringraziare per aver accettato di partecipare a quest’intervista. Iniziamo con una sua breve presentazione. Ci parli del suo percorso accademico, focalizzandosi sul suo lavoro su Thomas Mann. Lei è considerato uno dei massimi esperti di Mann, sia in Italia che a livello internazionale. Vorrei ricordare, tra i suoi riconoscimenti, la prestigiosa Medaglia Thomas Mann ricevuta nel 2017. Come è nato il suo interesse per questo autore? Ci racconti come è arrivato a concentrarsi su tematiche così complesse e affascinanti come la melancolia, l’eros, il tempo e la guerra nei suoi studi su Mann. Infine, quali erano gli studi o le interpretazioni predominanti sull’autore quando ha iniziato le sue ricerche? 

Luca Crescenzi: Avevo già praticato lo studio di Thomas Mann in precedenza durante il dottorato, avendo frequentato il corso con il Prof. Paolo Chiarini e, come dovrebbe fare ogni bravo studente di Germanistica, chiaramente avevo già letto Mann.

Successivamente, c’è stata una lunga pausa, durante la quale mi sono occupato principalmente dell’età di Goethe e del Romanticismo, e mi sono sempre occupato di Nietzsche. Nell’ambito degli studi nietzschiani, naturalmente, ho avuto modo di entrare in contatto con la scrittura di Mann e con l’importanza di Nietzsche nella sua opera, che era un aspetto centrale di ciò che stavo studiando. Così, quando nel 2005 è arrivata la proposta di Mondadori – del tutto inaspettata – di occuparmi, inizialmente, solo della cura dell’edizione che si stava preparando, io accettai molto volentieri: con incoscienza, dovrei dire, perché non sapevo in cosa mi sarei imbarcato. Avevo posto come condizione che avrei dedicato a Mondadori dieci anni della mia vita, non uno di più, poi sono diventati quindici o giù di lì. Da lì in poi il lavoro è venuto complicandosi: certe idee iniziali dell’edizione dei Meridiani non erano praticabili, e dunque abbiamo via via ampliato il raggio d’azione, e la mia è diventata una cura generale dell’edizione, oltre alla non prevista traduzione del Dottor Faustus. Questa cura generale ha previsto, ad un certo punto, le introduzioni ai romanzi principali a questa edizione, le annotazioni, ovvero il commento a tutti i romanzi che sarebbero stati pubblicati, e così è stato. Solo che, per fare questo, io ho lavorato relativamente in fretta sulla letteratura su Thomas Mann, per capire quale fosse un approccio non ovvio alla sua opera. 

Devo dire che sono rimasto un po’ deluso del livello della riflessione su Thomas Mann: si insisteva su tematiche vetuste come il borghese e l’artista, come fosse antidemocratico e sia poi divenuto democratico; soprattutto, c’era una tendenza generale e anche ridondante, negli anni in cui ho lavorato io, a leggere Thomas Mann come ultimo realista, come scrittore tardo ottocentesco. Era uscito anche un libro di Rüdiger Görner dal titolo Thomas Mann. L’ultimo. Si tratta di un bel libro, ma, in sostanza, riporta in auge questo stereotipo. Contemporaneamente, avevo scoperto alcuni piccoli articoli, essenzialmente di scuola anglo-americana, che mettevano l’accento su alcuni aspetti allegorici, simbolici sull’opera di Thomas Mann, come ad esempio il saggio di Oskar Seidlin, Alta magia dei numeri, che facevano vedere chiaramente come all’interno dell’opera di Mann alcuni elementi che venivano definitivi simbolici, ma che in realtà erano allegorici, avevano un peso assai maggiore di quanto si credesse, facendo ad esempio riferimento alla Montagna magica nel quale questo aspetto emerge in modo molto chiaro. Già nei Buddenbrook è evidente che l’impianto generale del romanzo è di stampo realistico, persino naturalistico, ma, in realtà, alcuni elementi (come l’orso all’ingresso di casa Buddenbrook, il battesimo di Hanno, certe apparizioni singolari, fra cui quella del lavoratore portuale che pronuncia una benedizione sulla culla di Hanno, che è in realtà una maledizione – elemento, questo che ricorda molto il mondo fiabesco, come quello della Bella Addormentata), facevano pensare che fin dall’inizio questo realismo manniano fosse delimitato da altre cose. E del resto Thomas Mann parte come narratore, non voglio dire fantastico, ma certamente visionario: se si leggono i primi racconti il tema della visione, dell’allucinazione, dell’apparizione fantastica, è certamente molto presente. Un altro studio che è stato molto importante per i miei studi è stato un breve articolo di Herbert Singer che avevo letto ai tempi del dottorato su indicazione di Paolo Chiarini sull’uso di stereotipi mitologici fin dai Buddenbrook. Ecco, questo saggio è stato molto importante, poiché invitava a leggere al di là delle apparenze. 

Insomma, la mia idea è stata quella di estendere questo genere di analisi un po’ a tutto a Thomas Mann, per verificare quanto funzionasse – e funzionava molto. Chiunque abbia letto Altezza Reale, ad esempio, si rende conto che si tratta di una lunga e evidente allegoria, non può essere interpretata altrimenti, e lo stesso Thomas Mann lo ha sempre detto. Inoltre, proprio nella Montagna magica l’elemento allegorico emerge in maniera eclatante per la natura onirica del romanzo. Quindi, mi sono convinto che Thomas Mann sia il più importante scrittore allegorico del ventesimo secolo, e anche il più intelligente, quello che fa l’uso più audace dell’allegoria. Questo mi ha spinto a cercare dove non si era cercato, e di capire certi livelli dei testi, in particolare della Montagna magica, che a mio sapere non erano stati indagati. Uno di questi è, appunto, quello della melancolia, che è clamorosamente evidente, però non aveva lasciato tracce nella ricerca manniana o, quelle poche che aveva lasciato non erano risolutive, perché non facevano riferimento alla letteratura che Thomas Mann conosceva e di cui lui stesso scrive.

 

EMS: Grazie, professore, per la sua chiara risposta. Il tema della melancolia attraversa tutta La montagna magica, rappresentando un tratto fondamentale di molti personaggi. Che cos’è la melancolia, e in cosa affonda le sue radici? Come si manifesta in Hans Castorp e in che modo riflette una condizione esistenziale comune ai protagonisti di Mann?

LC: Questa è una domanda molto complessa, perché investe due problemi: che cos’è la melancolia nel mondo tedesco e che cos’è la melancolia nella Montagna Magica. C’è un punto di partenza, all’interno del romanzo, o, per meglio dire, io mi sono posto questo primo interrogativo: perché ci sono così tante tracce della melancolia all’interno dello Zauberberg? Dunque, sono andato a cercare cosa Thomas Mann potesse aver letto e conosciuto per essere così coerente nell’uso di questa dimensione. Ovviamente, il problema della melancolia è ben studiato, a partire dal libro Saturno e la melancolia, oggi noto nella versione di Klibansky, Panofsky e Sakxl, che è un testo che Thomas Mann non poteva conoscere, di cui aveva letto – ma tardi, nel 1923 – la prima versione. Tuttavia, era piuttosto strano che apparissero elementi chiaramente riconducibili a quel libro, che avrebbero presupposto un “rifacimento” del romanzo dopo il 1923, e questo non era pensabile. 

Allora, io sono risalito a quella che poteva essere una fonte, perché, per purissima coincidenza, moltissimi anni fa avevo tradotto il libro di Heinrich Wölfflin su Albrecht Dürer. Wölfflin, che scriveva nel 1905, anticipava, dandole per scontate, cose più tardi attribuite a Panofsky e Saxl, cioè al libro del 1923; mi sono allora interrogato su quale fosse la fonte comune a Mann, Wölfflin e Panofsky. Wölfflin, che era un accademico serio, riporta in nota la sua fonte, che è un saggio oggi purtroppo dimenticato di un grande storico dell’arte, Carl Gielow, che era scomparso molto precocemente; Gielow aveva lasciato incompiuto un libro sulla melancolia, che riprendeva e ampliava le tesi di un suo saggio del 1902-1903, in cui, di fatto, aveva anticipato moltissime delle tesi e delle grandi scoperte attribuite in seguito a Panofsky e Sakxl. A questo punto, è intervenuto un filosofo della Scuola Normale, Maurizio Ghelardi, un grande esperto di questo tema, il quale mi ha fornito le pezze d’appoggio per capire che Thomas Mann, amico di Wölfflin, doveva necessariamente conoscere il saggio di Gielow e il libro di Wölfflin, in cui i contenuti del saggio di Gielow appaiono in forma riassuntiva, e ha utilizzato per il suo romanzo, fra l’altro, i contenuti di quel saggio geniale che ricostruiva la concezione antica, medievale e rinascimentale dell’umore melancolico.

Perché, però, c’era così tanta melancolia dentro alla Montagna magica? La diagnosi di Thomas Mann è una diagnosi che si forma subito dopo la Prima guerra mondiale: la concezione finale dello Zauberberg è del 1919, si tratta di una chiave di lettura del mondo occidentale, che si può riassumere in una frase: è un mondo che Thomas Mann vede pericolosamente prossimo al proprio tramonto, nel quale l’idea della morte predomina sulle pulsioni vitali. Questo spinge Thomas Mann a concepire un romanzo il cui contenuto di fondo è la possibilità di restituire ad un’umanità desiderosa di abbracciare la morte il desiderio di vivere. E, nello Zauberberg, – anticipo una questione che lei probabilmente mi chiederà dopo – la cura alla melancolia sta nell’eros. Dunque, possiamo dire che lo Zauberberg nel suo complesso è una specie di grande iniziazione erotica alla vita, un romanzo di formazione erotica alla vita.

 

EMS: Grazie mille per la risposta. Sì, è vero, effettivamente questo tema verrà fuori più avanti, nel corso della nostra intervista. Andiamo dunque alla prossima domanda: il tempo è una dimensione centrale nel sanatorio, e il romanzo sembra svolgersi in un’atmosfera sospesa. La melancolia di Hans Castorp è legata a questa percezione alterata del tempo? Crede che Mann stia suggerendo che la melancolia derivi anche da una rottura con la percezione lineare del tempo, una sorta di eterno presente?

LC: Io credo che il problema sia che l’alterazione del senso del tempo nella Montagna Magica derivi dal suo carattere onirico. Qui c’è da fare una premessa: Mann ha sempre detto di non aver mai letto Freud prima del 1925 – dunque prima di aver completato lo Zauberberg –, ma in realtà è del tutto evidente che lo abbia letto, e anche bene! E ce ne sono le prove anche nei diari. 

Bisogna a questo punto fare una piccola digressione, ovvero: il modernismo ha il problema di parlare della realtà prescindendo dal paradigma mimetico del realismo e del naturalismo. Ogni grande autore del modernismo ha trovato la sua propria modalità di superamento di questo paradigma mimetico. Ora, Thomas Mann, almeno per molto tempo, sceglie l’approccio allegorico a cui la psicoanalisi aveva restituito attualità, rendendo all’allegoria come chiave di lettura del sogno e modello di rappresentazione interpretante della realtà una centralità che in precedenza essa aveva completamente perduto. Per questo Thomas Mann decide di dare alla sua Montagna magica la forma di un romanzo onirico in cui il tempo non segue l’ordine che la nostra razionalità occidentale gli ha attribuito, ma si dissolve, come nell’inconscio; se dunque ci troviamo all’interno di un romanzo onirico, il tempo non scorre, o quantomeno non scorre con un ordine cronologico a noi noto. 

Tutto ciò ha a che fare con la melancolia perché essa è collegata al desiderio della morte, che è un impulso fondamentale nell’inconscio dell’uomo (e questa sarà una scoperta importante che Thomas Mann farà attraverso Freud mentre sta scrivendo il romanzo). Già alcuni autori poco noti della neo-mistica di fine Ottocento consideravano la morte una dimensione costantemente presente nella vita degli uomini. L’uomo veniva già visto da alcuni autori di questa neo-mistica, il più importante dei quali è Carl Du Prel, come un essere a due dimensioni. L’idea di Du Prel, semplificando molto, è che l’inconscio dell’uomo sia in contatto con una realtà dell’Io che l’individuo conosce solo nella morte; l’uomo è dunque un essere duplice, che sperimenta contemporaneamente nella sua esistenza la duplice realtà della vita e della morte: chi conosce il saggio di Freud Al di là del principio di piacere, potrebbe riconoscere a ragione una qualche reminiscenza delle idee di Du Prel in Freud. Ma a parte questo, la coesistenza di vita e morte nell’inconscio umano è il nesso che permette a Mann di collegare la dimensione onirica inconscia dello Zauberberg alla melancolia. In pratica, Thomas Mann dice questo: l’uomo può operare una scelta, nel corso della sua vita, fra le due componenti dimensioni che coesistono nel suo inconscio e i pazienti del Berghof hanno scelto la morte, da cui sono continuamente tentati perché essa rappresenta nel romanzo una dimensione deresponsabilizzata, libera dai doveri e dalle angosce della vita. Devono essere dunque riportati a provare un qualche interesse per la vita stessa mentre la predilezione per la morte li costringe a vivere in un sentimento di melancolico distacco dalla realtà.

 

EMS: La malattia ne La montagna magica è sia fisica che spirituale. Pensa che la malattia di Hans Castorp rappresenti una sorta di percorso iniziatico, un’adesione alla melancolia come stato necessario per la comprensione dell’esistenza? In che modo la combinazione tra eros e malattia crea una forma di elevazione spirituale nell’ampia produzione manniana?

LC: La melancolia è la malattia della Montagna magica. E tra l’altro, una collega anglista dell’Università di Trento, Greta Perletti, mi ha reso noto, solo dopo che io mi ero occupato dello Zauberberg, che alla fine dell’Ottocento tanto la melancolia che la tubercolosi andavano sotto al nome di “male inglese”: è come se Thomas Mann avesse afferrato questa coincidenza di definizione, per trasformare i malati di melancolia nel Berghof in malati di tubercolosi. Questo, nel romanzo, rende tutto plausibile anche sul piano realistico, perché i malati di tubercolosi, in quanto vicini alla morte, sono anche melancolici ovvero aperti e disponibili all’esperienza della morte.

Inoltre, certo, Hans Castorp, al momento del suo ricovero, è un melancolico. Il collegamento con la morte e la melancolia sta in quel secondo capitolo del romanzo, che non viene abbastanza preso in considerazione da molti interpreti rispetto a quello che contiene il racconto della sua infanzia e adolescenza. Si tratta, infatti, del racconto di un ragazzo toccato e perfino sedotto dalla morte, circondato da simboli della morte sin dall’infanzia – si può, ad esempio, fare riferimento alla bella scena in cui Hans si trova in contemplazione del ritratto del nonno. Ecco, proprio questo episodio mi ha reso evidente che Thomas Mann strutturava il suo romanzo attraverso piccolissime, raffinatissime elaborazioni di motivi allegorici. 

Questa vicinanza di Hans Castorp alla morte lo rende un ideale paziente del Berghof. Il problema è che Thomas Mann deve dargli una connotazione di genialità; una genialità che, però non deve apparire, perché il melancolico – è ben noto alla tradizione degli studi sul tema – è sì sfiorato dalla morte e dal sentimento della morte, ma è allo stesso tempo, potenzialmente anche un genio. Dunque, Hans Castorp è un genio, ma lo è – e questo Thomas Mann lo dice espressamente – come lo è il Buonanulla di Eichendorff, cioè per il modo in cui vive e impara a vivere. Per questo si può dire che ad Hans Castorp è affidata l’agnizione fondamentale del romanzo, ovvero che la melancolia come malattia mortale si può combattere attraverso l’accettazione della vita come dominio dell’eros.

 

EMS: Passiamo adesso al tema della morte. Nella sua monografia Melancolia occidentale (Carocci, 2011), lei spiega come Hans Castorp, durante il suo soggiorno al Berghof, impari a “vedere la morte”. Potrebbe approfondire cosa significa, nel contesto del romanzo, “imparare a vedere la morte”? In che modo le esperienze vissute da Hans nella sua infanzia preparano e influenzano il suo percorso di comprensione e confronto con la morte al Berghof?

LC: Riprendendo il discorso dell’infanzia di Hans Castorp, troviamo quasi la risposta a questa domanda. Hans, toccato più volte dalla morte dei genitori e del nonno, dimentica queste sue esperienze iniziali, ma le dimentica solo in apparenza.

A dimostrarlo c’è nel romanzo un espediente che dimostra anche la raffinatezza geniale con cui Thomas Mann sviluppa le sue allegorie. Per spiegarlo si può partire dallo stranissimo nome della governante di Hans quando, dopo la morte del nonno, si trasferisce in casa dagli zii: si chiama Schalleen. A quest’epoca Hans è diventato un giovane vitale e sportivo, destinato ad una brillante carriera e non ricorda più (o sembra non ricordare più) quello che gli è capitato in precedenza, la morte di entrambi i genitori e del nonno. Ma il nome della governante è una spia della vicinanza della morte a Hans. Lo si capisce se si fa caso a un piccolissimo motivo che in questo enorme romanzo sfugge facilmente: è il motivo dell’argento. Nel romanzo si parla di un argento vivo, che è il mercurio, il quale serve a misurare la febbre, (in realtà, come vedremo, misura l’eros); ma si parla anche di un argento morto, magari dorato, che appare stranamente in tutti quegli elementi che richiamano la morte all’interno del romanzo. Questi oggetti sono accomunati dai nomi che presentano precise somiglianze fonetiche: l’argento (morto) appare infatti sulle fibbie d’argento delle scarpe del nonno (“fibbie” in tedesco si dice Schnallen); compare sulla vaschetta battesimale (Schale) che viene utilizzata tradizionalmente dai Castorp per battezzare i propri discendenti (e che per Thomas Mann, come dice espressamente nei suoi diari, rappresenta un simbolo della morte e del tempo che scorre); compare ancora in una fantasia del cugino di Hans Castorp, il quale, vedendo portare una croce al piccolo corteo che accompagna il prete che reca l’estrema unzione ad un personaggio, dice che i lumini su di essa somigliano alle campanelle (Schellen) di un certo strumento musicale. Schnallen – Schale – Schellen: una casualità non ha gran valore , due casualità costituiscono un indizio, tre, come si sa, fanno una prova, ma quattro sono un dato di fatto. Schalleen, nel cui nome ricorrono tutti questi nomi di oggetti fatti d’argento è un’altra espressione allegorica della morte. Non per nulla Schalleen è la figlia di un orafo ed è quindi l’espressione allegorica del fatto che la morte continua a stare vicina a Hans anche quando il pensiero di essa sembra averlo abbandonato. E quando Hans arriva al Berghof, il medico del sanatorio, il dottor Behrens, lo capisce subito e lo accoglie come un paziente ideale: perché Hans è come tutti gli altri ospiti del sanatorio Berghof colui che ha già concepito il pensiero della morte come un qualcosa di desiderabile, come una lunga vacanza dalle difficoltà della vita. In questo senso, è chiaro che si può configurare il percorso di Hans Castorp, come dicevo, alla stregua di un percorso di iniziazione alla vita, così come quello di tutti gli altri pazienti, solo che il suo è un percorso di successo: egli riesce almeno ad avere la visione del superamento della sua condizione di partenza. La sua genialità consiste in questo.

 

EMS: Un tema importante sembra essere “imparare a vedere”. Clawdia Chauchat è una figura ambigua, a metà strada tra l’oggetto del desiderio e la personificazione di una forza distruttiva, della pulsione di morte. In che modo la relazione tra Hans Castorp e Clawdia può essere vista come un dialogo tra Eros e Thanatos? Che conseguenze ha nell’opera di Mann il confronto fra le due pulsioni freudiane?

LC: È davvero molto interessante questa prospettiva. Io la vedo in maniera solo leggermente diversa: Clawdia Chauchat è in fondo importante nel suo ruolo passivo, cioè, sono gli altri che si innamorano di lei. 

Bisogna quindi fare una premessa: come si impara a vedere la morte? Ci sono tanti esempi attraverso cui Hans la vede: la vede nella scena in cui vede le ossa della propria mano ai raggi X, la scorge nel ritratto di Clawdia Chauchat, che scompone in varie parti, la vede, ancora, nella scena di seduzione della Notte di Valpurga, quando comincia a descriverne le parti interne del corpo. Hans Castorp, dunque, capisce le cose della vita a partire dalle cose della morte. 

Tuttavia, naturalmente, deve imparare anche a vedere la vita, che vede effettivamente nel capitolo Ricerche, quando, studiando biologia e varie altre scienze, impara a riconoscere la vita come un qualcosa che si forma – o che prende forma – al di là e al di sopra della materia mortale. Allora, era necessaria una Clawdia Chauchat che fosse oggetto del desiderio di Hans Castorp, altrimenti l’eros sarebbe rimasto una dimensione non affrontata dal romanzo. 

Anche qui c’è un dettaglio allegorico molto interessante: nei suoi diari, Thomas Mann parla del capitolo sul termometro, definendolo “segretamente osceno”, perché in effetti il termometro sale e scende, e, naturalmente – e questo è evidente nel romanzo –, sale ogni qual volta Hans Castorp si sente guardato o viene interpellato da Clawdia Chauchat, o comunque avverte un contatto anche solo visivo con lei; e poi, improvvisamente, scende quando lei lo ignora o finge di farlo; ecco che, in tal caso, la febbre scompare, o comunque questo termometro non misura più effettivamente la febbre. È una delle più evidenti forme di ironia di Thomas Mann, posta in maniera di per sé ingiustificata, ma in realtà perfettamente giustificata all’interno del romanzo, poiché al Berghof tutto funziona al contrario: chi avverte la vicinanza della vita ha temperatura alta, chi, invece, quella della morte la ha bassa, ha freddo. E se noi seguiamo questo indizio vediamo che tutti i pazienti del Berghof e anche Behrens fanno di tutto per stimolare in sé stessi il desiderio erotico. Ci sono incontri notturni, ad esempio, oppure coppie clandestine che si formano, Behrens ha persino un servizio da tè con motivi osceni. Il perché di tutto questo si deve alla volontà di stimolare il desiderio di vita, e tutto viene misurato dal termometro erotico. La temperatura nelle stanze del Berghof è bassissima, ma per sentire la vita bisogna sentirsi al caldo. Questi sono i momenti in cui il romanzo sviluppa al meglio i suoi motivi allegorici.

Quindi, Clawdia Chauchat è sì una donna molto malata e dunque – dice Thomas Mann – inadatta alla riproduzione, ma è chiaramente connotata in senso erotico, e quindi è lei, per forza, il veicolo che – almeno nella prima parte del romanzo, e poi, in altro modo, nella seconda – avvia la ricerca o il desiderio di vita di Hans Castorp.

 

EMS: Grazie per la risposta, abbiamo in effetti sfiorato il tema della prossima domanda. Nel sogno di Hans Castorp, Clawdia Chauchat assume i tratti di Pribislav Hippe, il compagno di scuola per cui Hans provava un’attrazione omoerotica. I due hanno, difatti, gli stessi occhi. Come interpreta questa sovrapposizione di identità? Perché essa si manifesta in sogno? Infine, in che modo il desiderio omoerotico è, per Mann, collegato al tema della morte?

LC: Qui bisogna fare una premessa: Thomas Mann – lo scrive in molti luoghi – distingue due tipi di eros, quello produttivo e quello improduttivo, ossia quello che genera ed estende il dominio della vita, e quello spirituale, quello omoerotico, che si prova per persone che non possono riprodursi: Clawdia Chauchat è collegata a Hippe in questa dimensione, poiché lei, malata, non può avere figli, ma, su questo piano possiede la natura sublime dell’amore omoerotico, che non può generare vita, ma può generare spirito, ossia eleva lo spirito di chi lo coltiva; dunque, l’eros omoerotico è spirituale tanto quanto l’amore di Hans Castorp per Clawdia Chauchat.

Per quanto riguarda il sogno: naturalmente, ogni conquista spirituale di Hans Castorp avviene in sogno, e in sogno lui scorge il collegamento fra le due persone, che è anche il valore che queste due persone hanno in relazione alla sua vita, poiché sono esseri che potenziano le sue capacità spirituali e intellettuali. E, infatti, solo attraverso l’amore per Clawdia che Hans afferra pienamente il valore della vita, come afferma in quel lungo e bellissimo dialogo in francese nel quinto capitolo, in cui Hans fa una specie di poema sull’eros come fonte della vita.

 

EMS: Rimaniamo sul tema onirico: parliamo di un altro sogno particolarmente significativo all’interno del romanzo, quello sotto la neve, il celebre “Schneetraum”, anch’esso un momento chiave nel percorso di Hans Castorp. Come si relaziona questo sogno con la sua esperienza dell’eros e della morte, e in che relazione sta con le teorie freudiane?

LC: Hans Castorp fa sempre la stessa esperienza, cioè, fa l’esperienza dell’eros che nasce dalla morte e in contrapposizione alla morte. Quello che abbiamo detto su Clawdia Chauchat e Pribislav Hippe è un esempio. Quello che Hans sperimenta quando fa i suoi studi di anatomia è studiare il rapporto che c’è fra la materia organica che compone l’insieme della vita e la vita nel suo insieme: per meglio dire, dai pezzi della vita nel cosmo vede apparire la grande immagine della vita che lo abbraccia quando si addormenta. Fa la stessa esperienza con il quadro di Clawdia Chauchat, che Behrens gli spiega nei dettagli anatomici e questi dettagli si rappresentano per lui nella bellezza di Clawdia, e fa, infine, la stessa esperienza nella Notte di Walpurga, quando, per dichiarare il suo amore a Clawdia Chauchat, fa una specie di anatomia del suo corpo: le vene, i nervi, i muscoli, la pelle, e così via. Questo naturalmente fa da premessa al grande motivo, al grande messaggio, del romanzo: dalla morte deve nascere la vita proprio come reazione alla morte, e questo è precisamente quello che Hans sogna sotto la neve, nell’episodio che Thomas Mann considerava il centro del centro del romanzo. Cerchiamo quindi di vedere insieme perché. 

Dunque, Hans Castorp sta per morire: è stato sorpreso da una tempesta di neve e rischia di morire assiderato. Comincia a sognare, e, siccome si è addormentato vicino ad una capanna di legno, sogna un paesaggio meridionale. Qui fa due esperienze fondamentali: vede una società di uomini solari che vivono in armonia tra loro e fa, per converso, l’esperienza spaventosa di entrare in un tempio e di vedere due streghe che dilaniano il corpo di un neonato: questo incubo lo risveglia, ma – va notato il paradosso – lo risveglia alla vita, cioè gli permette di sfuggire all’assideramento a cui sta soccombendo. Qui va spiegato il sogno e, secondo me, si può spiegare solo in un modo. Anche se è sempre stato visto come un incubo spaventoso e terribile in realtà Thomas Mann sa bene, grazie a Freud, che anche il sogno più spaventoso è la realizzazione di un desiderio. Hans Castorp sogna dunque situazioni simboliche che Mann spiega altrove, per esempio nella conferenza Della Repubblica tedesca, contemporanea alla Montagna magica. Qui spiega, attraverso Novalis – che è un maestro della psicologia – che il corpo umano è da considerarsi come un tempio e per l’appunto in un tempio Hans scopre le due streghe. Da Novalis Thomas Mann riprende anche l’idea che nell’eros echeggi l’originario desiderio antropofagico di divorare la carne altrui. Combinando queste due idee tratte da Novalis si capisce allora che quanto ha sognato è l’ingresso nella realtà del corpo come veicolo erotico, come strumento dell’eros. In quel tempio le streghe mangiano il bambino perché ne desiderano la carne – questo è il simbolo. L’improvviso rivelarsi dell’origine dell’eros nel sogno risveglia Hans Castorp, che si riscuote dal torpore mortale che lo ha quasi vinto, e torna a vivere. In questa condizione di coscienza ancora incerta formula allora pensieri che spiegano ulteriormente il sogno. Hans capisce che non la ragione del suo mentore Settembrini, non la celebrazione intellettualizzata dalla vita si contrappone efficacemente alla morte, ma solo l’eros, e allora pronuncia nei suoi pensieri l’unica frase in corsivo dell’intero romanzo, che a Thomas Mann, come lui stesso afferma, costò tantissimo in termini di superamento della propria romantica concezione precedente: “In nome della bontà e dell’amore non devi concedere alla morte di dominare sui tuoi pensieri”.

Questa frase, in realtà, risponde a una domanda che Freud aveva posto alla fine del suo saggio del 1915 Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, che Thomas Mann aveva certamente letto, il quale si concludeva con la domanda: “Non faremmo bene ad assegnare alla morte, nella realtà e nei nostri pensieri, il posto che le si addice ed a prestare un’attenzione sempre maggiore al nostro atteggiamento inconscio nei confronti della morte, che invece siamo sempre occupati a reprimere con tanta accuratezza?”. Eccola lì la risposta di Thomas Mann. Sarebbe una risposta quasi banale, se non fosse che “bontà” per Mann significa avere buoni pensieri e il migliore di questi pensieri è l’obbedienza all’eros come fonte di ogni vita ed estensione del suo dominio.

 

EMS: Passiamo adesso ad un tema che abbiamo evocato, fortemente collegato a quello della morte: la guerra. La Prima Guerra Mondiale segna un punto di svolta cruciale nel romanzo. Come interpreta il ruolo della guerra nella trasformazione di Hans Castorp? Crede che il suo coinvolgimento nel conflitto rifletta un’inevitabile conclusione del suo percorso esistenziale o una nuova fase di consapevolezza?

LC: Ecco, qui tocchiamo un punto decisivo: dobbiamo decidere che cos’è lo Zauberberg. Se, come io penso, è un romanzo onirico, ossia un solo sogno di un soldato che noi conosciamo come Hans Castorp, che si addormenta sul campo della Prima guerra mondiale, e sogna tutte le avventure che gli occorrono al Berghof, allora la guerra sta all’inizio del romanzo e lo provoca, lo produce. Allora, il sogno della morte, l’esperienza della vicinanza alla morte, di un mondo prossimo a disfarsi e dominato da una melancolia autodistruttiva, provoca il sogno dell’eros o, meglio, il sogno dell’educazione erotica alla vita cui facevamo cenno prima. Che le cose stiano così si può provare in molti modi, ad esempio citando una conferenza di Thomas Mann del 1942, in cui, citando Nietzsche, spiega come funziona lo Zauberberg, ossia spiega che va letto al contrario: la guerra è posta all’inizio di tutti i sogni di Hans Castorp, è la causa di quei sogni, e nei sogni si trasforma in simboli molto chiari, benché nella sua brutale violenza essa appaia soltanto alla fine. 

Se infatti si considerano i dettagli del paesaggio che Hans Castorp ha attorno nel momento in cui si trova in guerra, si vede che richiamano uno per uno tutti i dettagli che poi ritroveremo trasfigurati nella Montagna magica. C’è, inoltre, un’interpretazione del nome Castorp che è sempre stata scarsamente considerata – e che io stesso ho scarsamente considerato – che alla luce di tutto questo diventa interessante: perché Hans Castorp si chiama così? Perché il “Castorp” era nel gergo dei soldati il tascapane, dunque il soldato che sogna la storia di Hans avrebbe attribuito a sé stesso, nel sogno, il nome del suo tascapane. Se così stanno le cose noi non sappiamo nemmeno come si chiami questo soldato e infatti nel finale Thomas Mann lo dice; dice che noi lo conosciamo come Hans Castorp, ma chissà se è quello il suo nome.

 

EMS: Parliamo adesso di due personaggi chiave nel cammino di Hans: Settembrini e Naphta. Il confronto ideologico tra i due oppone due visioni del mondo: l’umanesimo progressista da un lato e il misticismo reazionario dall’altro. In che modo questo conflitto ideologico rispecchia le tensioni politiche e sociali dell’Europa pre-bellica? Quale, fra le due posizioni espresse da Naphta e Settembrini, pensa che Mann intenda privilegiare, se mai lo fa? Infine, in riferimento, più in generale, a tutti i pazienti del sanatorio, pensa che Mann voglia suggerire una critica alla neutralità e all’immobilismo di fronte al conflitto politico?

LC: Intanto, diciamo che Settembrini e Naphta hanno alle loro spalle due letture di Thomas Mann: un’antologia di scritti di Mazzini, che fornisce argomenti a Settembrini, e un libro sulla visione del mondo del Medioevo, che fornisce moltissimi spunti alla figura di Naphta. Sono libri ottocenteschi, quindi in realtà Thomas Mann non dà alcun valore di attualità alle chiacchiere di Naphta e Settembrini, servono principalmente a mostrare un conflitto di idee, anche paradossale nella sua natura, che attraversa la cultura occidentale e che trova il suo centro più nel conflitto che genera che non nella reale consistenza delle idee (salvo per il fatto che, naturalmente, quell’antagonismo fra progressismo e regressione, fra umanesimo e anti-umanesimo, fra retorica della vita e retorica della morte, è un conflitto centrale nella cultura europea). Per questo il richiamo al Medioevo e il Rinascimento dall’altro: quell’antagonismo è il conflitto su cui la totalità della cultura europea si orienta sin dalle origini dell’età moderna. 

Dunque, di per sé, Thomas Mann non privilegerebbe nessuno dei due punti di vista, e all’inizio, effettivamente sia Naphta che Settembrini sono figure ambigue, anche pericolose; Hans si sente, quando passeggia con loro, fra un diavolo e un altro. Tuttavia, diversi anni dopo l’edizione della Montagna Magica che ho curato, mi è capitato di sentire a Parigi la conferenza di uno studioso francese che ha avuto un’idea molto intelligente: secondo lui Settembrini non viene visto sempre allo stesso modo da Thomas Mann, il giudizio dell’autore sul suo personaggio muta nel tempo. Effettivamente, non sarei certo quanto lui che questo giudizio muti man mano che Thomas Mann si avvicina alle posizioni democratiche e repubblicane; è però sicuramente vero, che più ci addentriamo nel romanzo, più l’aspirazione alla vita di Settembrini incontra la simpatia di Mann. Quando Hans sta per partire per l’avventura sotto la neve, che lo porterà vicino alla morte e al sogno di cui abbiamo parlato, Settembrini lo invita a fare un qualcosa che lui non può fare, a vivere pienamente quell’avventura: l’umanesimo di Settembrini è un’energia vitale nei confronti della quale Thomas Mann, nel corso del romanzo, prova sempre più simpatia proprio perché è vitale. Il suo razionalismo, il suo umanesimo non possono contrapporsi efficacemente alla morte, dice Hans Castorp, ma il suo ottimismo e la sua vitalità – il suo afflato umano – sono comunque energie positive e vitali che indicano un’evoluzione del personaggio nell’evoluzione manniana. Naphta al contrario non evolve mai, è prigioniero del suo antiumanesimo devoto, ed è la sua fede nella morte a fare di lui la necessaria vittima sacrificale del romanzo.

 

EMS: Facendo ancora riferimento a Settembrini e Naphta, nella sua monografia Melancolia occidentale, lei descrive i due personaggi del romanzo come rappresentazioni della “morte e del diavolo, i seduttori infernali di Hans Castorp”, definendoli inoltre “maschere dell’apollineo e del dionisiaco nietzschiani”. Potrebbe approfondire questa interpretazione e spiegare in che modo queste figure incarnano le due forze contrapposte nella visione nietzschiana?

LC: Quasi quasi mi pento di aver scritto questa cosa! Si tratta di una semplificazione: l’ho scritto per esemplificare la natura di una contrapposizione. Avrei potuto dire “apollineo e dionisiaco”, “anima e spirito” o tante altre cose. I due rappresentano, nel loro insieme, una di quelle polarità attraverso cui la cultura tedesca ha da sempre cercato di descrivere e rappresentare qualcosa di sostanziale del mondo e della realtà in cui viviamo. Quindi, direi di sì, possiamo dire anche “apollineo e dionisiaco” in questo senso: certamente, Settembrini parla in maniera plastica, ama la figura umana, ama le forme della vita, i suoi progetti sono sempre legati ad una esaltazione della forma umana, in questo senso è apollineo. Mentre Naphta è un eversore, è un distruttore, distruggerebbe volentieri tutte le forme purché lo spirito prevalesse su quella cosa che a lui sembra futile e che è, semplicemente, la vita. 

Quindi, Naphta incarna sicuramente la morte; Settembrini, per parte sua, incarna il diavolo e lo dice anche esplicitamente nel romanzo: è un ammiratore di Carducci, in particolare del suo Inno a Satana, dunque è, diciamo così, un diavolo comme il faut. Tra l’altro, durante la notte di Valpurga apostrofa Hans con le parole di Mefistofele nel Faust. Questo è un altro dei dettagli che avvicina il romanzo al mondo düreriano nella chiave della contrapposizione che domina tutta la storia del mondo occidentale moderno. Se poi ricordiamo che Il cavaliere, la morte il diavolo di Dürer è stato realizzato quasi contemporaneamente a Melancolia I, ecco che siamo ricondotti a quella dimensione medievale e umanistica che scorre al di sotto delle idee del romanzo.

 

EMS: Nel romanzo, è interessante notare come Naphta venga spesso associato alla dimensione della fisicità, a partire dal suo nome in yiddish, “Leib”, che significa “corpo” nel senso più concreto del termine. In che modo, secondo lei, questo legame con il corpo si riflette nell’esperienza della morte e nella sua fine? E in che modo Naphta si differenzia da Hans Castorp proprio per questa connessione con la fisicità e con la morte?

LC: Allora, qui dobbiamo ricordarci che le genealogie nella Montagna magica contano, e Naphta è uno di quei pochi personaggi, come Hans, di cui si racconta il passato in maniera più dettagliata. Di lui sappiamo che è figlio di un macellaio, di uno che distrugge i corpi, che li dissangua, perché opera in ambiente ebraico, e dunque è un macellaio kosher. Questa genealogia si rispecchia nella sua visione delle cose: Naphta disprezza il corpo, disprezza la fisicità e arriva a distruggere il proprio corpo affinché prevalga su di esso la dimensione spirituale che da esso prescinde. Dunque, il forte legame con la fisicità che lei giustamente nota, è in realtà un legame strumentale alla liberazione dello spirito dalla tirannia del corpo. Per questo Naphta è un distruttore, uno che vorrebbe far saltare il mondo e revocare tutta la civiltà, pur di tornare alla pura spiritualità che vede tutta votata all’altro mondo e non a questo, una spiritualità medievale.

 

EMS: La ringrazio di cuore per averci dedicato il suo tempo. Per concludere questa intervista, ci sono ancora temi poco esplorati nell’opera di Thomas Mann che, a suo avviso, meritano maggiore attenzione all’interno del contesto accademico, sia italiano che internazionale?

LC: Ma questa è la domanda da cento miliardi! 

Le posso dire quello che a me piacerebbe: a me piacerebbe che l’equivoco del Thomas Mann realista sparisse dall’interpretazione di Thomas Mann, ma temo che questo non lo vedrò mai. E vorrei che si desse maggior rilievo a queste dimensioni allegoriche dei suoi scritti, che spiegano tantissime cose, e che Thomas Mann venisse riconosciuto nella sua importanza di grandissimo scrittore allegorico, come ho detto all’inizio: certamente il maggiore scrittore allegorico del Novecento. Credo che per questa via noi troveremmo molte cose nuove; dire quali è adesso impossibile, anche perché Mann muta spesso il proprio punto di vista, gioca coi narratori, coi suoi personaggi, con il rapporto con la storia e chi la legge, è un grande scrittore modernista perché fa del romanzo una grande macchina sperimentale. Dunque, io credo, in quello che ho fatto, di aver tracciato una delle tante possibili strade che si possono percorrere per comprendere il funzionamento della narrativa manniana.

 

 

Apparato iconografico:

Immagine 1 e immagine di copertina: https://zero.eu/it/eventi/168032-thomas-mann-in-amerika,zurich/