Erika Maria Sottile
Abstract:
“But he who knows the body, life, knows death.” The Meaning of the Chapter “Snow” in “The Magic Mountain”
Hans Castorp’s dream in the Snow chapter of The Magic Mountain represents a pivotal moment in his inner journey. What begins as a simple ski excursion turns into an enigmatic experience, revealing profound psychological and existential insights. This paper explores the dream’s significance through the lens of Freud’s theories, particularly those expressed in Thoughts for the Times on War and Death (1915) and Beyond the Pleasure Principle (1920). Castorp’s vision, culminating in a Blutmahl (“blood feast”), echoes the primal violence Freud associates with the Todestrieb (death drive). The dream transcends personal experience, embodying a universal conflict between Eros and Thanatos, which finds its most extreme expression in war. Furthermore, Castorp’s recollections of Clawdia Chauchat and Pribislav Hippe intertwine with his dream, suggesting an unconscious repetition of past desires and traumas. By analysing these elements, this study sheds light on the broader psychological and philosophical dimensions of Mann’s novel.
Nell’ultima fase del suo soggiorno al Berghof, Hans Castorp, protagonista del celebre romanzo manniano Der Zauberberg (“La montagna magica”, 1924), colto da un’irrefrenabile spinta verso l’attività sportiva, decide di dedicarsi allo sci. Una semplice escursione si trasforma così in un’esperienza enigmatica: in seguito a una caduta nella neve, il protagonista entra in uno stato onirico che segna profondamente il suo percorso interiore. Il sogno, che si configura come un momento di crisi e rivelazione interiore, costituisce il fulcro della presente analisi, il cui obiettivo è esplorare il legame tra l’esperienza onirica, la dimensione psichica del protagonista e le sue esperienze passate, con particolare attenzione alla tematica della guerra, intesa come manifestazione estrema della pulsione di morte.
In merito alla relazione tra psicoanalisi e il sogno di Castorp, Manfred Dierks nella sua monografia Studien zu Mythos und Psychologie bei Thomas Mann (“Studi sul mito e sulla psicologia in Thomas Mann”, 1972) ha osservato che tale esperienza “vuole essere intesa come una realtà psichica, […] come una citazione dell’inconscio”. (Dierks 1972: 123). È altresì innegabile l’esistenza di un’affinità profonda tra Der Zauberberg di Thomas Mann e le teorie psicoanalitiche di Sigmund Freud, tanto che lo stesso Mann, nel saggio Mein Verhältnis zur Psychoanalyse (“Il mio rapporto con la psicoanalisi”) del 1922, riconosce come Der Zauberberg sarebbe stata inconcepibile senza il contributo della psicoanalisi (Dierks 1982: 127).
L’interpretazione del sogno, collocato nel capitolo Schnee (“Neve”), viene esaminata in relazione a due opere fondamentali di Sigmund Freud, ovvero Zeitgemäßes über Krieg und Tod (“Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte”) del 1915 e Jenseits des Lustprinzips (“Al di là del principio di piacere”) del 1920. Questi testi consentono di mettere in luce come la visione di Castorp non rappresenti un’astrazione onirica isolata, bensì l’emergere di una violenza latente che trova la sua massima espressione nel contesto bellico. La guerra, infatti, diventa il terreno su cui si scontrano le pulsioni di vita (Eros) e quelle autodistruttive (Thanatos), offrendo una chiave di lettura fondamentale per comprendere l’eco distruttiva e collettiva presente nel sogno.
Il sogno di Castorp in rapporto a “Zeitgemäßes über Krieg und Tod” (1915)
Fin dalle prime pagine, Thomas Mann sottolinea come Hans, pur non essendo particolarmente incline agli sport invernali, ami la neve, poiché gli ricorda la “monotonia primordiale dello spettacolo naturale” (Mann 2010: 696), la “quiete primordiale” (Mann 2010: 702) e “il mistero stesso della morte” (Mann 2010: 708). Queste espressioni non sono casuali, poiché evocano quella stessa “atmosfera primitiva” che costituisce un elemento centrale dell’analisi freudiana nelle Zeitgemäßes über Krieg und Tod del 1915, in cui Freud riflette sul rapporto dell’uomo primitivo con la guerra e la morte, ponendo particolare attenzione a quest’ultima, sottolineando come la brutalità del conflitto bellico costringa gli uomini a confrontarsi con la morte in modo più diretto e consapevole.
Analizzando il rapporto tra l’uomo primitivo e la morte, Freud evidenzia come, per l’uomo primitivo, la propria morte fosse “altrettanto irrappresentabile e irreale di quanto lo è oggi” (Freud 1915: 54), mentre la morte di uno sconosciuto veniva assimilata a un evento naturale; la sola morte di una persona cara poteva, invece, essere motivo di dolore. Queste peculiarità si incarna nel concetto di Todestrieb (“pulsione di morte”), che postula la violenza come componente intrinseca della psiche umana.
Particolarmente rilevante per l’interpretazione del capitolo Neve è la riflessione di Freud sulla tendenza naturale dell’uomo primitivo ad uccidere e divorare esseri della propria specie. In effetti, il sogno di Castorp culmina con un Blutmahl, un “banchetto di sangue” (Mann 2010: 731) segnato dall’atroce sacrificio di un bambino, che sembra confermare la persistenza di un’originaria violenza insita nell’essere umano. La scena onirica si configura dunque come manifestazione della stessa aggressività latente che alberga in Castorp. Tuttavia, il ruolo simbolico di questo sacrificio all’interno del sogno e, più in generale, nell’economia del romanzo, è estremamente complesso e merita un’analisi più approfondita.
Un ulteriore spunto tratto dal saggio freudiano riguarda il modo in cui la società moderna ha trasformato la morte in un tabù, accettandola solo attraverso forme di sublimazione estetica. Il contesto bellico rappresenta così una circostanza eccezionale in cui l’aggressività, normalmente repressa dalla vita civile, trova una via di sfogo, rivelando così la natura primitiva e atavica che continua a caratterizzare l’uomo.
Nel risvegliarsi, Castorp si chiede dove abbia già visto il golfo dell’isola e il santuario visti in sogno. La risposta viene fornita dal romanzo stesso: “Mi verrebbe da dire che non sogniamo soltanto con la nostra anima, sogniamo in modo anonimo e collettivo” (Mann 2010: 731). Questo suggerisce che il sogno di Castorp non sia esclusivamente personale, ma rappresenti piuttosto un’esperienza universale: secondo Freud, infatti, la pulsione aggressiva è presente in tutti gli esseri umani. Il “banchetto di sangue”, di cui Castorp è testimone, diviene così il simbolo del primordiale istinto di distruzione insito nell’umanità, un impulso represso dalla cultura e dall’educazione, ma mai del tutto estinto. La “grande anima”, a cui si fa cenno nel capitolo – ovvero l’umanità nel suo complesso – racchiude in sé tanto le aspirazioni più nobili, come la speranza, la giovinezza e la felicità, quanto la violenza e la brutalità. Essa rappresenta, in ultima analisi, l’essere umano nella sua totalità.
Il sogno di Castorp in rapporto a “Jenseits des Lustprinzips” (1920)
In Jenseits des Lustprinzips, Freud delinea una visione dualistica delle forze che governano la vita psichica dell’uomo. Da un lato, Eros, che comprende la libido e l’istinto di autoconservazione; dall’altro, Thanatos, responsabile delle tendenze autodistruttive e aggressive. Il termine Eros rimanda alla divinità greca dell’amore e della passione, suggerendo dunque il ruolo fondamentale della sessualità nell’esperienza umana. Thanatos, invece, fa riferimento al dio greco della morte, sebbene Freud non utilizzi mai questo termine nelle sue opere ufficiali.
Al centro della sua teoria della pulsione di morte vi è il concetto di “coazione a ripetere”, ossia il meccanismo attraverso cui l’individuo tende inconsciamente a rivivere esperienze traumatiche. Questo processo risponde a un bisogno interiore ineludibile, di cui spesso il soggetto non è nemmeno consapevole.
L’idea che esista una pulsione volta alla distruzione e che la vita psichica sia segnata dall’interazione tra Eros e Thanatos può apparire controintuitiva e, a buon diritto, si può affermare che Freud, con la sua teoria, abbia profondamente scosso il pensiero occidentale. Tuttavia, egli stesso afferma:
“È come se la vita dell’organismo procedesse con un ritmo incerto; un gruppo di pulsioni si precipita a raggiungere lo scopo finale della vita il più rapidamente possibile; ma, una volta raggiunta una certa tappa di questo cammino, l’altro gruppo torna indietro sino a un certo limite per ripartire di nuovo e prolungare, di conseguenza, il viaggio.” (Freud 1920: 95)
Si tratta, dunque, di una dinamica dalla natura contraddittoria, e tuttavia intrinseca alla natura umana. Tale teoria spiega, tra l’altro, la componente aggressiva presente nell’atto sessuale (ad esempio nelle dinamiche di sadismo e masochismo), tema che Freud approfondisce in altri scritti.
Da ciò emerge chiaramente che la pulsione di morte, ossia l’aggressività e l’istinto distruttivo insiti in ogni individuo, non può essere semplicemente ignorata o repressa. Già in Zeitgäßes über Krieg und Tod Freud affermava che “in realtà non vi è per nulla una ‘estirpazione’ del male” (Freud 1915: 43), ossia che la tendenza alla distruzione è parte integrante della natura umana e merita dunque un’attenzione particolare.
Tutti questi elementi si rivelano essenziali per l’interpretazione dell’esperienza del sogno sotto la neve, poiché ciò con cui Castorp si confronta non è soltanto un pensiero sulla condizione umana in senso generale, ma anche un’eco della pulsione di morte che pervade l’intera umanità. Dopo la visione angosciante del banchetto di sangue, infatti, il protagonista pensa a Clawdia Chauchat e alla matita che avrebbe dovuto restituirle nella notte di Valpurga. Questo dettaglio, apparentemente slegato dall’esperienza onirica, è tuttavia di enorme importanza, poiché rimanda alla matita che, anni prima, Castorp aveva ricevuto in prestito dal compagno di scuola Pribislav Hippe, con l’intento di restituirgliela a fine giornata. Quella stessa scena si ripete nella notte di Valpurga, ma con una differenza significativa: è Clawdia, e non Hippe, a chiedergli di restituirle la matita. Questa sovrapposizione suggerisce un legame profondo tra i due episodi, nonostante la distanza temporale e il coinvolgimento di persone diverse.
Nel corso di Der Zauberberg si sottolinea ripetutamente la corrispondenza tra Clawdia e Hippe, evidenziata persino attraverso un ulteriore sogno, che si configura come un filo conduttore in tutto il romanzo. L’elemento che unisce maggiormente le due figure è rappresentato dagli occhi:
“[g]li occhi di Clawdia che l’avevano osservato senza riguardi e un po’ cupi così da vicino e che per posizione, colore ed espressione assomigliavano in modo tanto sorprendente e spaventoso quelli di Pribislav Hippe! E ‘assomigliavano’ non è neanche la parola giusta; erano proprio gli stessi occhi […].” (Mann 2010: 213)
Durante l’intero romanzo si continua dunque a fare riferimento agli occhi di Hippe e di Clawdia, i quali, essendo identici, simboleggiano per Castorp un’unica entità: egli ha, in ogni aspetto, proiettato l’immagine di Hippe su Clawdia, fondendoli in un’unica rappresentazione. Di particolare rilievo è anche il fatto che gli occhi di Pribislav vengono descritti come di seguito: “tra il grigio e ‘‘azzurro o tra l’azzurro e il grigio – avevano un colore indistinto e ambiguo, simile a quello di una montagna lontana” (Mann, 2010: 175). Tale descrizione, fortemente evocativa e in stretta connessione con il titolo stesso del romanzo, suggerisce che Hippe (e, di riflesso, Clawdia) rappresenti il fulcro attorno al quale ruota l’intera opera, e combacia con la descrizione del colore della montagna che Hans si trova di fronte: “una luce tra l’azzurro e il verdino, limpida come ghiaccio se pur ombrata, e misteriosa e attraente” (Mann 2010: 705). Difatti, proprio durante questa esperienza, Castorp ricorda in modo particolarmente vivido quegli occhi, enfatizzandone il legame cromatico con le montagne:
“Gli ricordava la luce e il colore di certi occhi, occhi obliqui dello sguardo fatale, che il signor Settembrini dalla prospettiva umanistica aveva definito con disprezzo ‘fessure tartare’ e ‘occhi da lupo della steppa’ … occhi osservati tempo addietro e inesorabilmente ritrovati, gli occhi di Hippe e di Clawdia Chauchat.” (Mann 2010: 705-706)
Clawdia Chauchat/Pribislav Hippe: il sintomo di Thanatos
Nel corso del romanzo, Hans non si limita a pensare agli occhi dei due personaggi, ma rievoca anche episodi della sua infanzia, come la scena della matita, qui precedentemente menzionata. Durante l’esperienza onirica legata alla neve, quella scena riemerge – si potrebbe addirittura dire che viene vissuta nuovamente – e la sua ripetizione, pur declinata in forme differenti, evidenzia una certa rilevanza a livello inconscio per il protagonista. Per questo motivo, nel seguito si tenterà un’analisi più approfondita di tale episodio.
L’immensa gioia, che il protagonista percepisce di fronte ai paesaggi bucolici del suo sogno, non è un dettaglio trascurabile, bensì un sentimento intenso che Hans ha già provato in diverse occasioni nel corso del romanzo. Al momento in cui ricevette la matita da Hippe, Castorp visse un’esperienza di estrema gioia: “Ma in vita sua Hans Castorp non era mai stato più contento che in quell’ora di disegno durante la quale aveva lavorato con la matita di Pribislav Hippe…” (Mann 2010: 178) Tale rivelazione di immensa felicità potrebbe dunque rappresentare un segno dell’inconscio, che mette in relazione l’esperienza della neve con il ricordo di Pribislav Hippe – e, per estensione, di Clawdia Chauchat. È altresì significativo constatare che si tratta di un autentico déjà-vu, un sentimento già sperimentato in passato; così come il “riconoscersi” dei luoghi, Hans evoca le emozioni provate durante la giovinezza quando utilizzava la matita di Hippe.
La scena possiede altresì una valenza erotica: la ricerca attribuisce infatti alla restituzione della matita una specifica simbologia fallica e ciò suggerisce che, attraverso questo gesto e la sua reiterazione, Castorp sublimi il desiderio sessuale represso nei confronti di Hippe/Clawdia. L’episodio della matita rappresenta, dunque, il culmine dei ricordi soppressi e l’apice delle pulsioni sessuali dell’adolescenza di Castorp. È evidente, pertanto, che il potenziale erotico di Pribislav Hippe e di Clawdia Chauchat sia intimamente legato non solo all’intero romanzo, ma soprattutto all’esperienza onirica della neve, nella quale la scena della matita riemerge. Il fatto che il ricordo della matita di Hippe appaia immediatamente dopo il banchetto di sangue sottolinea anche il legame tra la componente violenta, intrinseca a ogni essere umano, e la sfera della sessualità.
Tutto ciò si intreccia strettamente con il saggio pubblicato da Thomas Mann nel 1925, Über die Ehe (“Sul matrimonio”), nel quale egli descrive l’omoerotismo – pur non assumendo nei confronti di questo tema una posizione critica – come una pulsione sterile e priva di radici. Nel suo saggio, Mann si riferisce al matrimonio quale istituzione solida e borghese, capace di preservare la famiglia e i valori della Kultur tedesca. In tale contesto, ogni fenomeno individuale che si oppone ai principi di stabilità e comunità familiare risulta essere nocivo. È proprio il caso dell’omosessualità – spesso identificata dallo stesso Mann con la pederastia –, che egli propone come unica alternativa al matrimonio. Tuttavia, essa viene concepita come un Eros sterile, una tendenza “nociva”; in riferimento al ruolo dell’artista nella società, Thomas Mann paragona l’omosessuale a un artista sterile, attribuendogli tutte le colpe dell’esteta o del dilettante – un archetipo che, secondo lui, contrasta con gli ideali della comunità. Tale artista o, meglio, tale forma di amore omosessuale, risulta essere infruttuosa, in quanto mira esclusivamente alla soddisfazione di desideri individuali, senza contribuire al benessere collettivo. L’individualismo, pertanto, appare dannoso per la comunità e, secondo queste premesse, l’omosessualità si connette al dominio della morte in senso sociale. Mann parla così di una morte sociale e, di conseguenza, si può affermare che l’omosessualità sia strettamente connessa alla sfera della morte. In questo contesto, l’autore osserva:
“Questo rifiuto dell’idea della famiglia e della perpetuazione attraverso la prole, questa fuga nella metafisica è l’espressione del medesimo processo di dissoluzione della disciplina vitale di ritorno all’orgiastica libertà dell’individualismo che ho rappresentato una seconda volta nella ‘Morte a Venezia’ sotto forma di pederastia. I concetti di dualismo e di morte si sono sempre, ai miei occhi fusi, insieme.” (Mann 1925: 27)
Nell’ambito di questa analisi, si è scelto di non approfondire ulteriormente i temi già ampiamente trattati nel saggio Über die Ehe. È invece di fondamentale importanza, per seguire le tracce del rapporto tra omosessualità, sterilità e pulsione di morte, osservare come l’elemento della sterilità si rifletta anche nella descrizione di Clawdia: essa viene infatti descritta con “fianchi non larghi” mentre il suo seno “non era alto e rigoglioso [,] bensì piccolo, da ragazza” (Mann 2010: 312), ossia presenta delle caratteristiche fisiche quasi androgine. Dal punto di vista corporeo, Clawdia appare quindi paragonabile a un uomo e, proprio per la sua androginia, risulta affine a Hippe. Inoltre, la sua condizione di malattia – che quasi certamente implica l’impossibilità di concepire – la collega più alla sfera della morte che a quella della vita, ossia al Thanatos freudiano (Crescenzi 2011: 142). Secondo la logica del saggio, Clawdia dovrebbe essere considerata, in un certo senso, un uomo, poiché l’incapacità di procreare e la connessione con la morte sono tratti tipicamente associati all’erotismo maschile. Se, dunque, Clawdia assume, nella mente di Hans, le caratteristiche di un uomo e si presenta come sterile, essa incarna inevitabilmente una passione orientata verso la morte. Naturalmente, anche Hippe è intimamente connesso a questo concetto, come suggerisce persino il suo nome (“Hippe”, significa difatti “falce”, la tipica arma con cui viene rappresentata la Morte). Di conseguenza, questa passione erotica risulta strettamente legata al banchetto di sangue e, per estensione, al principio della morte insito in ogni essere umano – ossia al principio che “ritorna all’anorganico”, in virtù del quale, secondo Mann, l’omosessualità si configura come una forma di passione sterile, incapace di generare vita.
Il “ritmo incerto” di Eros e Thanatos
Thomas Mann conclude il sesto capitolo del suo romanzo – che include il sogno della neve – nel 1921, molto probabilmente dopo aver letto Jenseits des Lustprinzips e per questo motivo il capitolo risulta strettamente connesso alla teoria freudiana. Un’analisi approfondita dello studio di Freud evidenzia come lo studio del sogno rappresenti una via privilegiata per comprendere i meccanismi profondi dell’animo:
“Lo studio dei sogni può essere considerato come il metodo più sicuro per indagare i processi psichici profondi. Ora, i sogni dei malati affetti da nevrosi traumatica hanno la caratteristica di riportare continuamente il paziente alla situazione dell’incidente, situazione dalla quale egli si risveglia con rinnovato terrore. Eppure ciò non suscita la meraviglia che dovrebbe. Ci si vede una prova che l’esperienza traumatica è stata tanto violenta da ripresentarsi al paziente perfino durante il sonno: il paziente sarebbe, come a dire, fissato al trauma.” (Freud 1920: 36)
Nel caso dell’esperienza di Castorp, si può ipotizzare che egli sia fissato nel ricordo di Hippe, percependolo pienamente in Clawdia Chauchat. L’amore omosessuale per quel ragazzo di tredici anni potrebbe rappresentare il trauma che Hans non ha mai saputo elaborare. È proprio sul concetto di “coazione a ripetere” che si concentra l’intero discorso del saggio freudiano, il quale afferma che tale impulso va ben oltre il principio del piacere.
Nel momento più angosciante del sogno – quando Hans medita sulla morte e sulle due figure terrificanti che divorano il bambino – non può che riaffiorare il simbolo della matita di Clawdia e Hippe: “So tutto del genere umano. Ho conosciuto la sua carne e il suo sangue, ho restituito alla malata Clawdia Chauchat la matita di Pribislav Hippe.” (Mann 2010: 731)
Ma perché l’interezza dell’essere umano, o dell’umanità intera, dovrebbe essere collegata a quella matita? La risposta si chiarisce immediatamente: “Ma se uno conosce il corpo e la vita, vuol dire che conosce anche la morte” (Mann, 1924: 731), ossia, come già spiegato, Hippe e Clawdia rappresentano per Hans il principio della pulsione di morte attraverso la loro connessione con l’inorganico. Attraverso il gesto della restituzione della matita – e, soprattutto, rivivendo quella scena dopo l’esperienza della neve – Castorp giunge finalmente al riconoscimento di tale pulsione e, per usare le parole di Thomas Mann, accetta “la vita”, ovvero l’Eros che essa cela. Con questo enunciato, l’autore sottolinea il legame indissolubile tra Eros e Thanatos, tra pulsione di vita e pulsione di morte.
Confrontando quest’ultimo enunciato con la conclusione delle Zeitgäßes über Krieg und Tod di Freud, la connessione diventa ancor più evidente:
“Ricordiamo del vecchio adagio: ‘Si vis pacem, para bellum’. Se vuoi mantenere la pace, prepara la guerra. Sarebbe tempo di modificarlo in: ‘Si vis vitam, para mortem’. Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte.” (Freud 1915: 63)
Il riconoscimento della morte prepara l’uomo ad affrontare la vita, secondo il messaggio freudiano. Trasposto in Der Zauberberg, l’interesse per la malattia e, di conseguenza, per la morte, non è altro che l’espressione dell’interesse per la vita. Pertanto, per Thomas Mann le due forze – vita e morte, Eros e Thanatos – risultano strettamente intrecciate.
È evidente che il conflitto costante tra vita e morte, presente in tutta l’opera manniana, si intrecci strettamente con il binomio freudiano Eros/Thanatos. Subito dopo aver meditato sul tema della morte e della vita, Hans viene investito da un pensiero che, a prima vista, appare in netto contrasto con quanto appena esposto: “L’uomo, in nome della bontà e dell’amore, non deve concedere al pensiero la supremazia della morte” (Mann 2010: 734). Tale enunciato va interpretato come un segno della presenza di Eros, in quanto sembra rappresentare la lotta interiore, in Castorps, tra la forza vitale e quella autodistruttiva. Freud afferma infatti che la battaglia tra queste due pulsioni costituisce il “ritmo incerto” nella vita degli individui a cui si è pocanzi fatto cenno, caratterizzando in maniera intrinseca la psiche umana.
Al termine del capitolo, Thomas Mann stesso osserva che per Castorp “ciò che aveva sognato stava ormai svanendo. E ciò che aveva pensato, già quella sera stessa, cominciava a non capirlo più tanto bene” (Mann 2010: 736). Riconoscendo la coesistenza di due tipi di forze pulsionali – quelle che tendono a condurre la vita verso la morte e quelle, invece, che esprimono i desideri sessuali e mirano continuamente al rinnovamento della vita – diventa subito chiaro perché Hans appaia così smarrito: egli non riesce a distinguere nettamente tra queste pulsioni e una delle due finisce per dominare il suo pensiero, generando così la sua confusione interiore.
Inoltre, al suo risveglio, Castorp riprende immediatamente a pensare a Hippe: “Già da un pezzo ero in cerca di questa sentenza: nel luogo in cui mi è apparso Hippe, sul mio balcone e ovunque. La ricerca mi ha spinto pure sulla montagna innevata. Ora ho la sentenza. Il mio sogno me l’ha svelata in modo chiarissimo, tanto che la saprò per sempre.” (Mann 2010: 734). In verità, il sogno gli ha mostrato qualcosa di diverso: la presenza ineludibile della morte nella vita umana e la sua esigenza di occupare uno spazio ben preciso. Difatti, Thomas Mann insiste ancora, al risveglio di Hans, sul colore della montagna così simile a quello degli occhi di Hippe – e dunque, di Clawdia –, e sulla simbologia del suo nome:
“[S]crollò le spalle gettando sguardi eccitati e stanchi da una parte e dall’altra, e su verso il cielo, dove un pallido blu si mostrava tra nubi grigio azzurro e sottili come veli, che trascorrevano pian piano svelando una sottile falce di luna.” (Mann 2010: 734)
Quello che Hans sperimenta, insomma, non è la realizzazione di un desiderio, bensì l’emergere del principio della pulsione di morte, evidenziato dalla coazione a ripetere, come sottolineato da Freud. La memoria di Hippe, in questo contesto, si configura come la ripetizione della tendenza umana verso l’anorganico; come già detto, Hippe e Clawdia incarnano un amore omoerotico che, secondo il saggio Über die Ehe, risulta sterile. Castorp si convince che il sogno rappresenti una rivelazione illuminante del suo volere di vivere, ma la realtà gli contraddice: il continuo riaffiorare di Hippe – e per estensione di Clawdia – nel sogno è esattamente un esempio della coazione a ripetere, che Freud definisce il fulcro del principio della “morte interiore”.
Successivamente, Freud aggiunge che questa coazione a ripetere mostra un elevato grado di carattere pulsionale, manifestandosi in contrasto con il principio del piacere e assumendo una natura quasi “demoniaca”. Questa forza “demoniaca” – il principio della morte – cela al contempo una “fonte di piacere”, ossia la tendenza innata dell’uomo a ricordare e ripetere esperienze dolorose, perché in esse risiede un certo piacere. Per Hans, il ricordo di Hippe non rappresenta solamente un problema irrisolto, ma incarna in sé il principio della morte, un tratto che si riscontra chiaramente anche nelle esperienze vissute con Clawdia al Berghof.
Si è così dimostrato che, contrariamente all’interpretazione di Castorp, il suo sogno della neve è l’espressione della pulsione di morte insita in ogni essere umano, una pulsione che nel suo caso risulta indissolubilmente legata all’Eros.
Bibliografia:
Luca Crescenzi, Melancolia occidentale. La montagna magica di Thomas Mann, Roma, Carocci, 2011.
Manfred Dierks, Studien zu Mythos und Psychologie bei Thomas Mann, Bern, Francke, 1972.
Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, Milano, Mondadori, 2007. Traduzione di Alfredo Civita.
Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Torino, Bollate Boringhieri, 2012. Traduzione di Sandro Candreva, Cesare L. Musatti, Emilio A. Panaitescu, Ermanno Sagittario e Marilisa Tonin Dogana.
Thomas Mann, Sul matrimonio, Milano, SE, 1999. Traduzione di Italo Alighiero Chiusano.
Thomas Mann, La montagna magica, Milano, Mondadori, 2010. Traduzione di Renata Colorni, a cura di Luca Crescenzi.
Apparato iconografico:
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