Il caso Sandormoch: la memoria mutevole

Maria Castorani

Gli anniversari assumono una funzione per due ragioni tra loro apparentemente discordanti: per necessità di convezione e per l’urgenza dell’umanizzazione. La sensibilità storica e personale di un popolo ritrova sopra le targhe commemorative, le ghirlande e i canti intonati in coro la capacità di conservare il passato in logica retrospettiva, solitamente prendendolo a esempio o di monito rispetto alla contemporaneità. Su questa stessa linea c’è la strada che porta fino a Sandormoch, una radura boschiva nei pressi di Medvež’egorsk, centro amministrativo della Carelia. 

È qui che, nell’estate del 1997, gli studiosi e attivisti Venjamin Iofe e Irina Flege di Memorial San Pietroburgo, insieme a Jurij Dmitriev di Memorial Carelia, furono portati dai risultati delle proprie ricerche. I primi erano sulle tracce di un convoglio di 1111 prigionieri trasferiti dalle isole Solovki dopo le direttive promulgate dal regime per il decongestionamento di quello che era uno dei più noti lager sovietici a carattere speciale. Dmitriev, invece, cercava il luogo di sepoltura dei migliaia di prigionieri col cui lavoro forzato si era messo in piedi il Belomorsko-Baltijskij Kanal, il canale tra il Mar Baltico e il Mar Bianco, lungo più di 200 chilometri, costruito per volere di Stalin in soli due anni. 

Dmitriev, Iofe e Flege localizzarono e rinvennero le fosse comuni in cui erano finite le vittime del Terrore staliniano del ‘37-’38 in Carelia.

Ne Il caso Sandormoch: la Russia e la persecuzione della memoria, edito da Stilo per la collana Pagine di Russia nella traduzione di Giulia de Florio e con la cura di Andrea Gullotta, Irina Flege ripercorre le circostanze e le ricerche pregresse all’arrivo a Sandormoch, poi la parabola evolutiva di risemantizzazione a cui la radura boschiva, dopo aver assunto i connotati di luogo della memoria, è andata incontro fino agli ultimi anni, tra arresti e agenti stranieri.

Link al libro: https://www.stiloeditrice.it/scheda-libro/irina-flige/il-caso-sandormoch-9788864792682-215.html


A far ordine tra le stratificazioni delle vicissitudini storiche del regime staliniano e le vicende di Memorial è l’introduzione del presidente di Memorial Italia, Andrea Gullotta. L’organizzazione, insieme all’attivista bielorusso Ales Bialiatski e all’ONG ucraina Center for Civil Liberties, è stata insignita nell’ottobre 2022 del Premio Nobel per la Pace, dopo che la procura ne aveva confiscato la sede nella capitale russa.

Lo sceneggiato sugli eventi che orbitano attorno a Sandormoch segue il lavoro dei ricercatori negli archivi, tra le lettere e le testimonianze dei familiari dei prigionieri delle Solovki e i telegrammi del commissario del popolo Ežov, capo dell’NKVD, la polizia segreta sovietica.  Approda fino all’inaugurazione del cimitero commemorativo e la creazione di una memoria storica e regionale del Terrore, che aveva finalmente trovato un luogo universale in cui riversare le storie personali dei cari uccisi. 

Ogni 5 agosto, nel giorno in cui nel 1937 il decreto 00447 sancì la fase più violenta delle purghe, a Sandormoch confluivano i familiari delle vittime, le delegazioni ufficiali internazionali e dei diversi gruppi etnici a cui apparteneva chi nelle fosse comuni – e non solo – aveva perso la vita.  Durante gli anni vennero piazzate pietre commemorative ed eretti monumenti a musulmani, ebrei, ucraini, estoni, lituani, polacchi, vainachi, moldavi e tatari, georgiani, mari e agli azeri ammazzati.

L’universalità di Sandormoch divenne una forma di rielaborazione congiunta del passato. Una rielaborazione che, nonostante rimanesse sostanzialmente estranea rispetto alle tendenze nazionali, era opera di una collettività, di un processo concreto di costruzione della memoria, efficace proprio perché aveva le fattezze dell’umano.

Sessant’anni fa una grande potenza mondiale volle distruggere un migliaio di persone in modo che non ne rimanesse traccia. Lei aveva tutti i mezzi di cui dispone uno Stato, loro soltanto la forza di essere individui, unici e irripetibili. Oggi conosciamo i nomi di tutte le vittime, di tutti i condannati, di tutti gli esecutori […] Questo vuol dire che quel migliaio di persone ha vinto […]” (p.124)

Ma da simulacro della memoria del Terrore, in Carelia e fuori dai suoi confini, Sandormoch si è più volte trasformato. Si è arrivati allo svuotamento di senso dei monumenti, ad esempio di quello eretto nel 2013 in onore dei russi uccisi, non tanto come simbolo commemorativo per i propri cari ma contro la memoria degli altri gruppi etnici, una memoria per contrapposizione. 

Il 2014 ha cambiato ulteriormente il corso delle cose, la delegazione ucraina ha smesso di prender parte alle cerimonie del 5 agosto e si sono allontanate anche le autorità della Carelia. Poi la diffusione della versione finlandese, campata in aria senza troppe prove scientifiche da due storici di Petrozavodsk, secondo la quale i corpi rinvenuti all’interno delle fosse a Sandormoch sono in realtà dei soldati sovietici giustiziati dai finlandesi tra il ‘41 e il ‘44. 

E l’arresto di Jurij Dmitriev con le false accuse per pedopornografia. Quello di Sergej Koltyrin, direttore del complesso museale in cui è incluso anche Sandormoch, morto poi in carcere nel 2020. Fino alle perquisizioni e agli arresti degli attivisti di Memorial a Mosca. Jan Račinskij, che è a capo di Memorial, alla BBC ha affermato che la memoria delle repressioni non è soltanto memoria e che i metodi del passato non sono scomparsi. Sandormoch oggi è un luogo di memoria e protesta, simbolo di un passato dal quale non si possono prendere le distanze.

Apparato iconografico: 

Immagine 1: copertina del libro edito Stilo
Immagine 2: https://www.bbc.com/russian/features-45359643