“Impressioni di viaggio” di Maria Konopnicka. Verona, un frammento

Traduzione di Laura Pillon

Revisione di Katarzyna Woźniak-Shukur

 

La scrittrice polacca Maria Konopnicka (1842–1910) era profondamente affascinata dall’Italia, come testimoniano i suoi ripetuti soggiorni nella nostra penisola tra il 1882 e il 1907, la conoscenza della lingua e della letteratura italiana, alcune sue opere in prosa e in poesia, prima fra tutte l’antologia Italia (1901), nonché la sua attività di traduttrice. Infatti a lei dobbiamo le traduzioni in polacco delle sillogi Fatalità e Tempeste di Ada Negri, di cinque componimenti del poeta e giornalista fiorentino Angiolo Orvieto, del romanzo per ragazzi Cuore di Edmondo De Amicis e della tragedia pastorale La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio.

Frutto del primo viaggio di Konopnicka nel Bel Paese è il reportage letterario Wrażenia z podróży (Impressioni di viaggio): nell’estate del 1882 la poetessa raggiunse l’Austria, in particolare il noto centro termale di Bad Ischl (allora nota come Ischl), per poi allungare l’itinerario nell’Italia settentrionale. Si tratta, inoltre, del primo lavoro in prosa di Konopnicka e, pur fornendo una testimonianza diretta della sua trasferta in terra straniera, si distingue per tratti più narrativi, se non poetici, che giornalistici.

L’opera venne inizialmente data alle stampe in rivista: la prima parte dedicata al soggiorno in Austria apparve, con qualche interruzione, sul settimanale “Kłosy” (“Le Spighe”) tra il 1882 e il 1883, mentre la seconda parte, incentrata soprattutto sul suo passaggio a Venezia, a Verona e a Rovereto, venne pubblicata su “Tygodnik Powszechny” (“Il Settimanale Generale”) nel corso del 1883. Al 1884 risale l’edizione in volume a cura della casa editrice varsaviana Lesman i Świszczowski, che tuttavia non riscosse i favori della critica del tempo.

Si propone in traduzione, per la prima volta in italiano, un brano incentrato sulle avventure da lei vissute nella città scaligera. Qui la viaggiatrice Konopnicka assistette, infatti, alla devastante inondazione che colpì Verona proprio nel 1882 e immortalò questo episodio di cronaca locale in un vivace racconto.

Particolare attenzione è stata data alla resa della prosa poetica nelle parti descrittive e ai commenti pervasi di ironia che suscitano alla narratrice i contatti con i personaggi della veronesità. Si è cercato di mantenere e spiegare in nota i riferimenti alla cultura polacca inseriti dalla scrittrice per avvicinare e divertire il lettore polacco. Infine è stato scelto di riprodurre senza alterazioni i termini in lingua straniera inclusi da Konopnicka stessa per rendere ancora più vivida la propria narrazione; in particolare, sono stati conservati quelli che appaiono refusi grammaticali e ortografici in quanto importante traccia della spontaneità di lavoro della scrittrice.

Konopnicka Maria

 

L’originale dell’estratto tradotto si trova in: Maria Konopnicka, Wrażenia z podróży. Warszawa, Lesman i Świszczowski, 1884, pp. 128–136. Disponibile in: https://polona.pl/item/wrazenia-z-podrozy-maryi-konopnickiej,OTY4ODMwMzM/5/#info:metadata 

 


 

Notte a Verona — La barca municipale — Nel cortile — La conversazione con il greco — Ce ne andiamo— Il caretto[1] — Al banhof — Torniamo indietro — Alla Colomba d’oro — Cosa l’Adige permette ancora di vedere a Verona — La partenza.

La prima notte trascorsa a Verona fu cupa e sinistra. Fin dalla sera il vento aveva gonfiato le nuvole cariche di pioggia che, sottile, incessante e paziente, avvolse di noia e di ansia le vecchie mura del Due Torri, dove eravamo prigioniere.

L’ininterrotto scroscio della pioggia si unì al sordo fragore sprigionatosi dalle profondità del fiume che era venuto a prostrarsi dinanzi alla scalinata di pietra della chiesa. In mezzo a quei cupi rumori di tanto in tanto risuonavano stridule richieste, il colpo di remi, le strilla di voci terrorizzate. E io ogni volta balzavo da sotto le tende di mussola del grande letto a baldacchino antiquato e mi precipitavo alla finestra inondata dai bagliori rossi delle torce che brillavano dalle barche dei soccorritori.

Solo verso le prime ore del mattino caddi in un sonno profondo e, al mio risveglio, il giorno si era fatto appena più chiaro della notte, ma non meno cupo. La pioggia non cessava, l’acqua continuava a salire. Da San Nicolo suonavano le campane, annunciando terrore alla città; dalla soglia della chiesa la folla di gente rimasta chiusa là dentro tutta la notte chiamava: «La barca! La barca!».

Erano i residenti dei quartieri allagati di Verona, che già dal giorno prima avevano trovato là un riparo. Dopo poco sopraggiunse una enorme cannoniera a remi con a bordo un funzionario municipale, che distribuì pane e vino ai poveretti assediati dall’Adige. Dato che non poteva raggiungere le scale, fu arrangiata una passerella con dei mobili vecchi e rotti provenienti dalla chiesa, lungo la quale gli uomini andavano avanti e indietro a prendere il cibo in mezzo alle grida delle donne spaventate. Dopo che ebbero portato via il pane e le damigiane con il vino, l’uomo che stava sulla barca si chinò e prese in braccio un bimbo addormentato, di cui si vedano solo le sottili gambette penzoloni da sotto lo spesso fazzolettone che lo avvolgeva. Presero con sé anche quel poverino ignaro di cosa gli stesse succedendo.

Intanto nel cortile andava in scena una vera e propria commedia.

Nonostante ci fosse un lago d’acqua, la sua profondità era sottile come quella di una lastra perché la grande chiatta cannoniera vi ci potesse navigare. Di conseguenza, tutti gli abitanti dell’albergo provarono ad arrangiare un modo per arrivare dalle scale al cancello, dove il livello del terreno si faceva decisamente più basso e l’acqua più profonda. Un veneziano o, addirittura, un misero abitante della nostra Polesia[2] già da tempo se la sarebbero in qualche modo cavata, ma un veronese si paralizza di fronte all’acqua e la sua goffaggine si impadronisce di ogni sua idea.

Per un’asse, che avrebbero potuto sollevare agilmente due ragazzi, si fecero fatti avanti in cinque e, dopo averla afferrata, tre di loro si ribaltarono in acqua e uno mollò l’asse dalla paura, mentre gli altri si misero a bestemmiare come scaricatori di porto, non riuscendo ad andare né avanti né indietro. Bisogna conoscere bene gli italiani e sapere di quante parole inutili, gesti e grida abusino alla minima occasione per riuscire a immaginare la baraonda e gli schiamazzi di quegli attimi. Tutti gli ospiti erano corsi nella loggetta, senza necessariamente fare attenzione a come gli altri fossero vestiti. Alcuni invocavano le barche, altri i carri, altri ancora la colazione, mentre tutti all’unisono urlavano, discutevano, davano ordini. Intanto il padrone era seduto nascosto da qualche parte, occupato a calcolare il contributo che, ai prezzi da cliente amatore degli appartamenti e dei pasti, tutti quei prigionieri per caso dell’albergo Delle due Torri gli avrebbero dovuto pagare. Avevo il grande sospetto che anche il nostro caro greco avrebbe gioito insieme a lui, calcolando la commissione pro capite che gli avrebbe dovuto versare ogni ospite da lui accompagnato al Due Torri.

Pensavo che quel giorno non avrebbe mai avuto fine e, invece, si concluse, lasciando il posto a una notte senza stelle, senza sonno, senza pace.

Al mattino mi assalì una certa disperazione tanto che dissi tra me e me che avrei o strappato la cordicella del campanello o chiamato il nostro greco con la forza della mia sola voce.

Alla fine arrivò.

Aveva gli occhi meditabondi e una faccia triste. Sembrava un innamorato tradito.

«Vogliamo una barca, un carro, una mongolfiera!», urlai impaziente. «Vogliamo il conto!».

Il greco fece un inchino.

«Mie signore, oggi avrete cioccolata all’acqua», disse in tono serio. «Non ci hanno consegnato il latte».

«Ma noi non vogliamo la cioccolata! Vogliamo andarcene».

«State scherzando, mia signora. La colazione vi sarà subito servita».

Scomparse oltre la porta. La cordicella si era salvata, ma nulla del nostro destino si era raddrizzato.

Per un attimo rimasi al centro della stanza come incantata, ma all’improvviso mi venne in mente una magnifica idea. Corsi alla finestra e, quando la barca municipale trasportò di nuovo del cibo a chi aveva trovato riparo dentro la chiesa, mi sporsi e iniziai a gridare: «La barca! La barca!». Il funzionario in piedi sulla barca guardò verso la finestra, mi vide, fece un cenno con la testa e, congiunte entrambe le mani alla bocca per rafforzare la sua voce attutita dal fragore dell’acqua, gridò forte: «In mezz’ora!».

E subito dopo tornò indietro alla volta della chiesa, diede il pane e il vino a chi lo aspettava, prese a bordo con sé forse una decina di uomini e, fattomi un altro cenno col capo, prese il largo senza indugiare oltre. Provai una pazza gioia, quasi infantile.

Iniziai a battere le mani e a correre avanti e indietro per la stanza, mettendo a rischio il pavimento malandato e terrorizzando i topi là residenti ancora dai tempi di Mercucio[3]. Dopodiché, non appena udii tintinnare le tazze con la nostra cioccolata dal ragazzetto in corridoio, assunsi un’espressione indifferente e chiesi immediatamente il conto.

A quanto pare riferì tutto al nostro caro greco, che comparve subito dopo con un sorrisetto di superiorità sulle labbra, eppure non senza un lieve sconcerto.

«Tra mezz’ora ce ne andiamo», gli dissi con molta calma, nonostante la mia voce mi tremasse un po’. «Voglio il conto».

«Posso chiedere come ve ne andrete, mie signore?».

«Certo che può. Ce ne andiamo in barca».

«Oh, in tal caso, non oggi».

«Esigo il conto subito», ripetei con fermezza e, voltatami verso la finestra, mi allontanai lentamente.

Paparigopulos rimase per un attimo alla porta, momentaneamente dimentico di tutte le lingue europee e non solo che conosceva; alla vista poi che nessuno gli dava bado, uscì, chiudendo la porta pensieroso.

Ben presto in tutto l’albergo si diffuse la notizia che due signori avevano deciso di rimettersi in viaggio. Evidentemente non se lo aspettava nessuno. Il proprietario stesso corse da noi per calmarci, temendo che quella dimostrazione di coraggio femminile gli traviasse anche il resto degli ospiti.

In effetti il nostro esempio risultò contagioso.

L’ “onesto” proprietario Barbesi non era ancora uscito, quando bussarono piano alla nostra porta. Era il vicino grassone della camera accanto, non ricordo ora di quale nazionalità, che per le due notti precedenti aveva russato peggio di un abitante della Masuria[4] tanto da sovrastare lo scroscio dell’acqua.

«Le signore se ne vanno veramente?», domandò quell’uomo così rispettabile.

«Si, signor, tra mezz’ora».

«Ah, allora me ne vado anch’io!».

Gli si gettò addosso il proprietario con lo stesso affanno di uno che ha dissipato tutti i più bei sogni della sua vita, ma il tono di voce categorico del grassone non lasciò presagire alcun lieto fine in quella faccenda.

Nel frattempo, dalla stradina che portava alla piazza riecheggiò lo sciabordio della nostra barca, il cui capitano era il funzionario municipale. Sembrava particolarmente coinvolto da tutta quella nostra impresa.

Non appena fu a una distanza tale da riuscire a farsi sentire, ci salutò a gran voce; dopodiché ci aiutò a scendere da una scaletta che aveva appoggiato fino alla finestra, sicché la nostra fuga à la Romeo avvenne con un certo successo, anche se non senza paura. Ci eravamo appena sistemate in quella barca un po’ sporca e allagata per bene d’acqua, quando davanti ai nostri occhi si parò una vista che avrebbe fatto ridere persino un monaco trappista.

Sulle spalle di due facchini corpulenti, che camminavano con l’acqua fino al petto, si reggeva il nostro vicino grassone in modo tale da aver affidato ciascuna delle sue enormi gambe a ognuno dei due uomini. Il cavaliere tutto sudato e ansimante, con il cappello scivolato via dalla fronte, teneva a sua volta in una mano un ombrello gigantesco e nell’altra la sua borsa da viaggio.

La nostra barca gemette sotto quel nuovo carico e si abbassò di livello, quando a un tratto si unì a noi ancora un altro compagno di viaggio. Era un giovane inglese, che si era accontentato delle spalle di un solo facchino, mentre l’altro portava sulla testa una valigia e un cavalletto ripiegato.

In un primo tempo navigammo con un certo successo, tra le case completamente asserragliate, spingendoci via con i remi dagli angoli, dove si formavano mulinelli che facevano vorticare la nostra enorme barca come il guscio di una zucca vuota. Non si vedeva gente da nessuna parte: la città sembrava morta. Ben presto i remi cominciarono a sbattere sempre più forte contro dei sassi finché il fondo stesso della barca non scricchiolò sul selciato; non c’era, dunque, verso di navigare oltre.

Sarebbe stato possibile trascinare una barchetta leggera pure qui, ma la nostra cannoniera aveva bisogno di acque ben più profonde.

Allora due soldati sollevarono di peso il nostro grassone come prima e io, alla vista di tutto ciò, non riuscii a trattenere le risate, nonostante la situazione spiacevole; successivamente uno dei rematori si caricò sulla schiena anche la signora T. Sulla barca rimanemmo solo in due: il pittore, intento a scrutare quella serie di operazioni con impassibile serietà, e io tutta intimorita dall’idea di essere portata in braccio.

«Come bambino, sapete», sussurrai all’italiano che mi aveva offerto le sue braccia muscolose. Mi strinse a sé come si fa con i più piccoli e, dopo aver guadato un paio di strade, mi lasciò in una piazza abbastanza asciutta, ma circondata d’acqua come fosse un’isola.

Si trattava, seppi poi, della piazza delle poste, il che, però, non migliorò la nostra situazione nemmeno un po’.

Là mi stavano già aspettando. Il grassone si scrollava di dosso l’acqua come un cagnone bagnato, mentre il pittore era arrivato per ultimo in groppa a un facchino e con la stessa espressione seria di prima.

Qui c’era qualche persona in più: ci osservavano dalle finestre e dai balconi, anche se la nostra condizione non aveva nulla da invidiare, anzi, dirò pure che dovevamo sembrare piuttosto ridicoli.

Cosa stessimo aspettando lì, io stessa non lo so – probabilmente la misericordia divina. Non ne rimanemmo delusi.

In strada si presentò un uomo che trascinava nell’acqua un alto carretto a due ruote con la particolarità che, quando la stanga si alzava, l’intelaiatura di assi che serviva da superficie di carico si abbassava violentemente all’indietro; quando, invece, l’uomo lasciava andare la stanga, le assi del piano si sollevavano altrettanto violentemente.

Ora non affermo io che un caretto simile garantisse le migliori condizioni di trasporto da un luogo all’altro: tanto non si veniva sbalzati fuori – posizione del tutto illusoria – quanto ci si poteva immaginare di essere una di quelle splendide verdure consegnate di solito al mercato su tali carri. Naturalmente feci quest’osservazione mentre eravamo per strada, volando all’indietro o sobbalzando all’improvviso ogni volta che l’italiano dava uno strattone alla stanga; eppure, all’inizio tutti avevano gridato senza pensarci: «Caretto! Caretto!».

L’italiano all’inizio era restio, poi però per sei lire si decise a portarci alla stazione, solo che del grassone non volle neanche sentir parlare, mentre al pittore ordinò di scendere, dopo aver provato a mettersi in marcia invano.

La parte della città che percorrevamo in quel momento aveva sofferto molto meno per l’acqua: qui la gente si era radunata per discutere, guardare, sospirare.

Fuori dall’Erberia[5], dove c’erano solo poche bancarelle di verdura, trovammo un fiacchere libero, il cui vetturino col cappello laccato e la trombetta ci salvò dalla volubilità della sorte del nostro carretto e ci portò alla stazione tra una gran sfilata e lo schioccare della frusta.

Lungo la strada notai, tuttavia, che tutto qui era cambiato rispetto a quando eravamo passati, mentre ci dirigevamo verso la città a bordo della memorabile carozza in compagnia del greco. Siccome dopo la catastrofe vissuta da Verona nessun cambiamento avrebbe dovuto sorprendere, smisi di prestare attenzione alle due fila di bellissimi alberi che crescevano là dove prima non c’erano, nonché alla differenza di dimensioni della stazione stessa che ora mi sembrava molto più stretta.

«Facchino N. 2», chiamammo ancora a bordo della carrozza, felici di poter finalmente andarcene da quel diluvio. All’improvviso dalla fila degli inservienti comparve un ragazzino mingherlino, che il gigante che aveva preso in custodia i nostri bauli avrebbe potuto portare in tasca.

Protestammo contro quella sua minutezza, volevamo un altro facchino N. 2, più grande. Il povero ragazzo assicurò di non essere mai stato più grande di così e di rispondere solo lui a quel numero fra gli altri tuttofare.

«Dov’è il capo di stazzione?».

Si dava il caso che il capo di stazzione si stesse divertendo con qualche dama. Quindi aspettammo, un po’ chiedendoci come mai il nostro piccolo vecchietto fosse così galante, quando all’improvviso si avvicinò un bell’uomo slanciato e dai capelli scuri, il quale, presentatosi come capostazione, rimase stupito dalla nostra richiesta tanto quanto noi da quel suo cambiamento improvviso[6].

Chiedemmo, infine, le nostre cose, descrivemmo i nostri bauli.

«Le vostre cose? Non ce ne sono nel deposito. Signore, siete sicure che questo sia il bahnhof dove li hanno lasciati?».

«Ce ne sarebbe un altro?».

«Certamente. C’è ancora il bahnhof centrale. Solo che ora la comunicazione con la città è completamente interrotta. A Ponte Navi è stata schierata l’artiglieria, non fanno passare né carri né pedoni».

«Cosa possiamo fare allora?».

«Credo che dobbiate tornare in città, signore».

Al che seguì uno degli inchini più belli dello stimabile capo.


Note:

[1] Il testo originale polacco è disseminato di termini, spesso ortograficamente errati, in lingua italiana. Si è deciso di mantenerli invariati nella traduzione, segnalandoli in corsivo. Lo stesso vale per la parola banhof (stazione dei treni), in tedesco nell’originale.

[2] La Polesia (Polesie in polacco) è una regione prevalentemente paludosa e boschiva che divide Bielorussia e Ucraina, estendendosi fino al confine occidentale della Polonia.

[3] In polacco la lettera “c” si legge come l’italiana “z”. Qui Konopnicka unisce le grafie del nome del personaggio shakesperiano nelle due lingue: Merkucjo (in polacco) e Mercuzio (in italiano).

[4] La Masuria (in polacco Mazury) è una regione della Polonia nord-orientale famosa per i suoi numerosi laghi. Non è chiaro il perché Konopnicka ricorra a questo paragone.

[5] Si tratta di un’inesattezza: Campo Erberia si trova a Venezia, non a Verona. Konopnicka intendeva Piazza delle Erbe.

[6] Appena arrivata a Verona, Konopnicka incontra un capostazione piccolo e minuto, ma molto gentile e previdente («[…] Capo di stazione w Weronie jest małym wprawdzie, ale przewidującym, bardzo uprzejmym człowieczkiem. […]», p. 122).


Bibliografia:

Alessandro Amenta, Sulla ricezione e le traduzioni italiane di Italia di Maria Konopnicka, in “Kwartalnik Neofilologiczny”, Vol. LXVIII, No. 1, 2021, pp. 43–56.

Tadeusz Budrewicz, Konopnicka. Szkice historycznoliterackie, Kraków, Wydawnictwo Naukowe Akademii Pedagogicznej, 2000.

Lena Magnone, Maria Konopnicka. Lustra i symptomy, Gdańsk, Słowo/obraz terytoria, 2011.

Wiesław Ratajczak, Sztuka bycia nieprzygotowanym. O relacji z pierwszej podróży, in Maria Jolanta Olszewska (Ed.), Konopnicka – raz jeszcze, Warszawa, Narodowe Centrum Kultury, 2022, pp. 251–265.

 

Apparato iconografico:

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