“Il passato può essere propaganda.” Intervista a Georgi Gospodinov

Intervista a cura di
Paolo Ciocci
Bianca Dal Bo
Sara Deon
Martina Mecco 

 

Nato a Jambol nel 1968, lo scrittore bulgaro Georgi Gospodinov è una delle voci più originali del panorama letterario europeo contemporaneo, e in Italia si è conquistato una notevole fama letteraria grazie al lavoro e alla cura della sua casa editrice, Voland Edizioni, che l’ha introdotto per la prima volta nel 2007. La produzione di Gospodinov annovera romanzi, poesie e raccolte di racconti; tra le sue opere più famose vi sono Fisica della malinconia (2013) e Cronorifugio (2021), quest’ultimo vincitore del Premio Strega Europeo 2021, mentre la sua pubblicazione più recente in Italia è la raccolta  Lettere a Gaustìn e altre poesie.

Lo scorso 13 marzo, lo scrittore ha accettato l’invito della LibrOsteria di Padova a tenere una presentazione nella nostra città. Prima dell’incontro e grazie alla titolare della LibrOsteria, Marianna Bonelli, Andergraund Rivista ha avuto la possibilità di intervistarlo a proposito della sua produzione e della sua visione della storia e del tempo e di come si traducano in materia letteraria. L’intervista che segue non sarebbe stata possibile senza il contributo di Giorgia Spadoni, interprete dal bulgaro in occasione di quest’ultima e durante l’evento, che ringraziamo di cuore per il prezioso aiuto.

 


AR: Prima di tutto volevamo ringraziarla per la sua disponibilità e per avere accettato l’intervista.  La sua produzione ha la peculiarità di spaziare in diversi generi: la poesia, il romanzo, il racconto. Come vede, all’interno della sua opera, l’intrecciarsi e il differenziarsi di queste forme? E, soprattutto, come descriverebbe il suo percorso di avvicinamento all’arte della scrittura?

GG: La mia arte è abbastanza schizofrenica. Ho iniziato da bambino raccontando un incubo, lo facevo tutte le notti e lo volevo raccontare a mia nonna, ma lei puntualmente mi fermava perché in Bulgaria c’è questa superstizione che se racconti un incubo poi succede veramente. L’unico modo allora era scriverlo, era un’idea molto furba. Dopo averlo scritto, però, non l’ho più fatto, quindi questa cosa mi ha davvero aiutato. Ma non l’ho mai dimenticato. 

Così ho iniziato a scrivere poesia, prima di nascosto e poi alla luce del sole. La prima volta che ho letto una mia poesia davanti a un grande poeta, lui si è arrabbiato molto con me perché era una poesia sulla morte. Allora avevo dieci anni ed ero interessato all’invecchiamento e alla morte, forse ero influenzato dalle poesie che avevo letto dei grandi classici bulgari. Così ho stabilito il mio approccio e ho fatto il mio primo debutto letterario. Quindi prima di scrivere il mio primo romanzo ero già affermato come poeta in Bulgaria, e mi sono detto perché non scrivere un romanzo, se dovesse rivelarsi un fallimento tornerò indietro a scrivere poesie. Il mio primo romanzo era un po’ folle, è andato bene e così ho iniziato a scrivere in prosa. Come autore di romanzi sono un po’ pigro, tra un romanzo e l’altro è trascorso tempo e quindi ci sono altre opere in mezzo: ho scritto un libretto d’opera, ho preso l’abilitazione all’insegnamento accademico, ho scritto altre cose, insomma. E così ho iniziato. Io non credo ci sia molta differenza tra i generi perché alla fine dei conti raccontiamo sempre una storia.

 

AR: Nelle sue opere si evince una grande affinità ed empatia con chi “è rimasto in Bulgaria”. Questa immagine ritorna in alcuni suoi racconti contenuti in E tutto divenne luna, dove le diverse voci narranti si confrontano anche dopo anni con vecchi amanti, figli o amici che si sono lasciati la Bulgaria alle spalle, mi viene in mente un passaggio in Fantasmi in cui scrive: “Allora succedeva così: i migliori in matematica andavano all’estero e i migliori in campo letterario rimanevano qui, peculiarità del mercato internazionale”. Nel racconto Il rituale, una coppia si sposa in Canada mentre nel loro paesino d’origine i familiari si ritrovano per festeggiare con un grande pranzo un matrimonio senza sposi: figli e nipoti dei presenti al matrimonio non tornano da tempo, sono ormai “dispersi all’estero”, tra l’Inghilterra, l’Italia, Nord-America ecc. Che ruolo e importanza hanno le storie di chi è rimasto nelle sue opere? 

GG: Il filo conduttore nelle mie opere è piuttosto interessarsi a coloro che non sono usciti a vedere il mondo fuori, ad andare fuori dalla Bulgaria. La Bulgaria è stata a lungo un Paese molto chiuso e molti dei miei parenti non sono mai usciti dai confini nazionali non hanno mai visto l’Occidente. L’80% dei bulgari durante il periodo socialista non ha mai viaggiato all’estero. In molte delle mie opere questo tema viene affrontato estensivamente, quindi ogni viaggio è speciale, quando viaggio all’estero vedo il mondo con gli occhi di quelle persone che non ci sono mai state. È un viaggio compensatorio, un viaggio per loro. È per questo che sono importanti per me queste persone rimaste in Bulgaria, anch’io ho viaggiato molto ma alla fine ho deciso di rimanere in Bulgaria. Ogni anno penso che lascerò il Paese e mi trasferirò all’estero e ogni anno, alla fine, decido di restare.

 

AR: Cronorifugio ci mostra come rifugiarsi nel passato sia tutt’altro che innocente. Allo stesso tempo, sembra però quasi inevitabile, specie a causa di quella malinconia universale che ci rende umani. Come può la letteratura evitare la trasformazione di questo bisogno in un nazionalismo nostalgico?

GG: È una domanda molto seria e importante, a cui ho cercato di dare una risposta con tutto il libro. In poche parole, per me il passato è come una stanza dove puoi entrare e lasciare la porta aperta, ti siedi, stai lì per un po’ e poi torni al presente. La cosa molto importante è non chiudersi a chiave dentro questa stanza. Il ritorno nel passato è una questione personale, che anch’io faccio spesso. Ognuno ha il suo passato personale, ma quando qualcuno prova a portare un popolo o una nazione intera in uno stesso passato comune, ecco che quello è molto pericoloso. E il nazionalismo e il populismo si nutrono proprio di questo passato collettivo. Il passato può essere propaganda.

 

AR: Dalla collaborazione con Giuseppe Dell’Agata, traduttore e curatore dell’opera, è nata una raccolta di Sue poesie in italiano, pubblicata da Voland nel 2022: Lettere a Gaustìn e altre poesie. Parlando di corpi piccoli, volevamo sostare su una delle prose poetiche dell’antologia, Fotografia III, in cui lei si sofferma sulla nostra concezione del tempo. È giusto, si chiede Lei, misurare il tempo in anni? Non è forse un paniere troppo grande e superficiale per dei corpicini brevi come quelli umani? Ne cadrebbero troppe briciole, invece importanti. La sua proposta è, dunque, passare ai panieri più piccoli dei giorni, delle ore o dei minuti. Cosa cambierebbe nel nostro sguardo rispetto alla nostra mosca-vita, se adottassimo la prospettiva da lei proposta?

GG: Io amo molto i pomeriggi e vivo nei pomeriggi. Oggi per esempio abbiamo passeggiato molto per Padova, ho fotografato le nuvole alle quattro e quarantasette e mi sono reso conto che citavo Borges e una sua opera dove si dice che un cane dalle tre e trenta alle tre e  quaranta, insomma nel giro di pochi minuti, cambia, e che lui vuole conservare il ricordo delle nuvole a una determinata ora del pomeriggio delle tre e qualcosa del 31 aprile 1988. Se potessimo misurare quindi la vita in base a come sono le nuvole alle quattro e quarantasette sarebbe un modo per cogliere e prendere coscienza delle cose momentanee e che non sono durevoli, è una cosa molto difficile ma che dovremmo provare a fare, ovvero misurare la vita in base a quelle. Quante cose non durevoli riusciamo a ricordare? Se misurassimo in minuti, invece che anni, avremmo gli occhi per cogliere anche i dettagli più piccoli. È una cosa ben diversa dire di avere vissuto cinquemila minuti piuttosto che ottantotto anni.

 

AR: Lei sin da subito ha pubblicato su Facebook alcune considerazioni sull’invasione su larga scala dell’Ucraina, parte delle quali sono state poi raccolte da “Deutsche Welle” e tradotte in italiano da Giorgia Spadoni per “Meridiano 13” (https://www.meridiano13.it/georgi-gospodinov-guerra-in-ucraina/). Lei si sofferma spesso sulla questione della “memoria”, su come il “passato” diventi di nuovo “presente” e su come la “distopia” diventi “documentario”. Lei parla anche di “crepa della memoria”, di come si possa “spiegare ai nostri figli” la guerra. Spesso nelle sue opere si ripresenta il tema della memoria, della caducità del tempo e dell’esistenza. Crede nella letteratura in termini di uno strumento di conservazione della nostra memoria collettiva? E che funzione ha la letteratura oggi che il nostro mondo sembra essere diventato quello di ieri?

GG: Lo scopo della letteratura è sempre stato quello di creare memoria, già ai tempi di Omero e dell’Iliade. Quando crea memoria, la letteratura, mantiene il passato nel passato. La memoria si crea ogni giorno, non è qualcosa di pronto e sempre valido. Noi in fin dei conti abbiamo dimenticato la Seconda Guerra Mondiale, i soldati durante quella guerra sono quasi tutti morti. Quindi ci troviamo con un vuoto di memoria, dove manca la memoria di chi ha vissuto in prima persona quelle vicende ed è la situazione in cui ci troviamo oggi. Questo è comodo per i nazionalisti e populisti, come Putin, e di coloro che possono approfittare di questo vuoto per creare una nuova memoria. La sua idea è quella di muovere una guerra come se fosse il 1941 o 1942. Quindi in questo momento c’è una lotta tra tempi, tra passato e presente. È una guerra molto particolare, credo non ci sia mai stata una guerra simile prima, dove cioè ci sono due tempi diversi che combattono tra loro. E quando anche finirà la guerra concreta e fattuale, continuerà quella a parole, e allora la letteratura diventerà ancora più necessaria, perché rappresenta l’opposto della propaganda. Per la propaganda, infatti, il simbolo non ha importanza, mentre la letteratura funziona su singole persone, e lì ci sarà lo scontro, una guerra per il singolo.

 

AR: Un’altra immagine che ricompare nelle sue opere è quella del mausoleo di Georgi Dimitrov, presente sia in E tutto divenne luna che in Cronorifugio e che lei definisce “un cimitero per un solo uomo”. Nella raccolta di racconti, il mausoleo diventa il luogo designato per un appuntamento da parte di un expat che non ricordava fosse stato abbattuto, a cui fa eco la voce narrante, che gli dice: “Macchè abbattuto, ma non vedi che sta sempre lì”; mentre in Cronorifugio il mausoleo viene ricostruito nel centro della capitale. Ad oggi, la natura simbolica di monumenti e statue è sempre più centrale nel dibattito pubblico, tra chi vorrebbe mantenerle e chi invece ne problematizza la presenza. Lei cosa ne pensa? 

GG: Proprio in queste settimane c’è un aspro dibattito sul Monumento all’Armata Sovietica in centro a Sofia. Io in realtà avrei voluto che il mausoleo fosse rimasto, per questo ci sono molte pagine a esso dedicato in Cronorifugio.  Quando ero piccolo, il mio primo incontro con la morte è stato con la morte di Georgi Dimitrov, e non è una cosa molto naturale, anzi, fu spaventoso. In realtà io vorrei che questo monumento diventasse il protagonista di alcune performance, perché in passato è stato dipinto e ridipinto più volte, vandalizzato, non so se l’avete visto. Possiamo anche togliere il monumento ma rimarrà nella testa delle persone che credono nell’ideologia dietro a quel monumento, la stessa per cui oggi lo difendono. Secondo me lo sforzo dovrebbe essere diretto piuttosto per fare sì che la gente studi e comprenda il passato, perché la rimozione del monumento non porterà alla rimozione di ciò che c’è intorno a esso nella testa della gente, continuerebbe ad abitare lì.

 

AR: Gli animali compaiono spesso, tanto nei suoi racconti quanto nei suoi romanzi, in particolar modo insetti e altri invertebrati. Da dove viene questa fascinazione, e come influenzano la rete di simboli nei suoi libri?

GG: Gli insetti sono collegati ai minuti e all’idea di non durevolezza: gli insetti sono i minuti dei secoli. Le mosche sono apparse prima nelle mie poesie e poi in Romanzo naturale, perché volevo scrivere di quelle cose che non fanno mai la loro comparsa nelle poesie. Per questo nelle mie opere ho dedicato spazio alla storia delle mosche, dei cessi, e in Fisica della malinconia c’è un capitolo in cui si parla del fatto che Dio sia un insetto, perché Dio è dappertutto, così come gli insetti. Solo le cose piccole possono essere ovunque e in modo invisibili, stanno sempre da qualche parte a osservarci; un elefante lo noteremmo. Quindi Dio è semmai una formica o una mosca, piuttosto che un elefante.