“Lo sterro” di Andrej Platonov o il diritto di piangere

Martina Greco

 

Leggere Platonov è sempre un’esperienza. Un’esperienza unica, intensa e totalizzante.
Chi prende in mano un suo scritto senza sapere a cosa sta andando incontro si trova immerso in una realtà paradossale, abitata da filosofi illetterati, vittime inconsapevoli e inconsapevoli carnefici, proletari esistenzialisti e burocrati tormentati. Quello che Andrej Platonov ha consegnato alla storia col titolo Lo Sterro (“Kotlovan”) è un documento preziosissimo delle contraddizioni dell’essere umano e del suo movimento instancabile verso l’inafferrabile senso dell’esistenza. Un documento che, nonostante la censura subita, è riuscito in sordina ad attraversare le barriere politiche, spaziali e temporali fino ad approdare nelle mani dei lettori italiani contemporanei.

Ripubblicato in Italia nel 2022 dalla casa Editrice Minimum Fax, Lo Sterro si inserisce all’interno di un’ambiziosa collana, “Introvabili”, il cui scopo è quello di superare le logiche astruse del mercato editoriale, dando priorità alla qualità dell’opera. Si è deciso così di rendere fruibili quei libri “introvabili” che hanno giocato un ruolo fondamentale, nella storia della letteratura, in generale, e nell’immaginario culturale degli editori, in particolare. La traduzione e la curatela de Lo Sterro appartengono a Ivan Verč, professore di lingua e letteratura russa all’Università di Trieste, che dalla prefazione alle note finali offre al lettore i necessari strumenti interpretativi del testo, favorendone una fruizione più consapevole e godibile.

Lo sterro di Andrej Platonov

Link al libro: https://www.minimumfax.com/shop/product/lo-sterro-2525


Scritto e ambientato nel 1929, Lo Sterro si potrebbe definire come un resoconto mistico della costruzione del socialismo nelle campagne sovietiche. Il protagonista dell’opera è l’ingenuo Voščev, un alter-ego dell’autore dall’anima travagliata, incapace di arrendersi di fronte alla mancanza di senso dell’esistenza. Attorno a Voščev ruotano una serie di altri personaggi, che rappresentano diversi tipi umani: il deciso Safronov, l’opportunista Kozlov, l’aspro Žačev, il tormentato Pruševskij e il più complesso Čiklin, corrispettivo pragmatico e meno sognatore di Voščev. L’opera è divisibile in due parti: la prima riguarda l’operazione di sterro che coinvolge una brigata d’assalto, il cui obiettivo consiste nella creazione di un’enorme casa comune per il popolo, mentre la seconda prende in considerazione il fenomeno di collettivizzazione delle campagne, che passa per la fondazione dei kolchoz (fattorie collettive). In questo modo, l’autore traccia un quadro dei tre rappresentanti della nuova società sovietica –il proletario, il contadino e l’attivista– destinato a superare per complessità e ingegno le stilizzazioni bidimensionali volute dalla retorica di partito.  

Come specificato da Verč nella prefazione, il 1929 è il secondo anno del primo piano quinquennale, un blocco temporale di cinque anni entro il quale lo Stato imponeva ai lavoratori il raggiungimento di una serie di obiettivi, per camminare a passo spedito in direzione del radioso avvenire comunista. Le parole-chiave della propaganda sono lavoro, entusiasmo, fatica, fede nella causa. Il linguaggio comunista è un linguaggio che non ammette dubbi, perentorio, deciso e chiaro. I personaggi di Platonov, immersi in questa cappa linguistica e ideologica, sono, al contrario, irrimediabilmente tormentati, sofferenti, insoddisfatti e confusi. Da questo insanabile contrasto risulta il carattere paradossale dell’opera: lo skaz di Platonov, il suo modo di narrare e i dialoghi dei suoi personaggi appaiono del tutto colonizzati dal linguaggio propagandistico, da cui traggono le espressioni ideologiche, i termini burocratici, i riferimenti culturali, ma l’applicazione di questa lingua a un mondo che non si piega alle sue descrizioni, a una sfera, come quella umana, che necessita di un codice più ricco e flessibile, finisce per smascherare la vacuità e la fallacia degli slogan socialisti. Eloquente, da questo punto di vista, l’incipit stesso del romanzo:

“Il giorno in cui compiva trent’anni di vita personale Voščev fu licenziato dalla piccola officina meccanica, dove si procurava i mezzi che gli assicuravano l’esistenza. Nella lettera di licenziamento avevano scritto: riscontrata crescita di debolezza e meditazione nel pieno dei ritmi generali di lavoro e di conseguenza tolto dalla produzione.” (p. 45)

Platonov gioca con la mania sovietica di esortare i lavoratori alla crescita dei ritmi di produzione, usando gli stessi termini per illustrare un concetto diametralmente opposto: il rallentamento del lavoro in favore della meditazione. Quella tra attività fisica e pensiero è una delle contrapposizioni fondative del romanzo, per cui Voščev si troverà spesso a dire che “Chi non pensa agisce senza senso!” (p. 49) o ancora a spiegare che “Finché ero privo di coscienza, vivevo con il lavoro delle mie mani, poi però non sono più riuscito a vedere il senso della vita e mi sono indebolito” (p. 62). Al contrasto pensiero/azione corrisponde la più difficile lotta tra vita privata e vita lavorativa, che costringe la prima a scavarsi una propria nicchia all’interno della quale il pensiero possa trovare conforto, per svilupparsi serenamente, libero dalle catene del lavoro e dello sforzo fisico. Così si spiega la stranezza della frase iniziale, dovuta alla specifica che segue l’annuncio dell’età del protagonista: dire trent’anni non basta, bisogna sottolineare che si tratta di trent’anni di vita personale. Consapevole dell’importanza di custodire la propria sfera privata di fronte all’ossessione per lo sradicamento dell’individualismo borghese, Voščev guarda con ammirazione il gestore della birreria che all’ora di chiusura cacciava senza remore i clienti, “non permetteva che il servizio gli logorasse le forze, le risparmiava per la vita personale e non si prestava a discussioni” (p. 47). Una volta arrivato nel luogo dello sterro e venuto a contatto con i lavoratori indefessi della brigata d’assalto, Voščev proverà a piegarsi all’inflessibilità (apparente) delle loro convinzioni, illudendosi di poter vivere come loro, di poter trovare nello scavo ininterrotto il senso della vita. L’esperimento si rivela presto fallimentare e il protagonista annuncia la propria decisione di abbandonare nuovamente il lavoro:

“«Safronov», disse Voščev, ormai al limite della pazienza, «è meglio che io pensi senza lavorare, tanto il mondo intero non lo scavi fino in fondo.»” (p. 69).

Ma a questo punto Voščev ha ormai stretto dei legami con i compagni lavoratori e non riuscirà più a separarsi da loro. Lasciando lo sterro si dirigerà assieme ad alcuni di essi in un paese vicino, dove il partito ha imposto il sequestro dei beni privati e la creazione di una fattoria collettiva. La parte legata al kolchoz supera per profondità di descrizioni degli stati d’animo e assurdità dei tropi la sezione ambientata nello sterro, attraverso un climax che tende fino ai limiti delle sue capacità descrittive le corde della lingua comunista e dell’estetica realista. Il realismo viene continuamente intorbidito nel romanzo dalla scarsa verosimiglianza di alcuni episodi ad alto contenuto metaforico, come, ad esempio, quello in cui il popolo stremato chiede il diritto di abbandonarsi alle lacrime:

“«Compagno attivista, senti, compagno!…»
«Parla chiaro.», propose l’attivista al serednjak senza interrompere il lavoro.
«Concedici un’altra notte per piangere sulle nostre disgrazie, tanto poi gioiremo con te in eterno!.»
L’attivista rifletté brevemente.
«Dura troppo una notte. Intorno a noi nel circondario il ritmo incalza; potete piangere finché la zattera non sarà pronta.»”
(p. 167)

Ma il momento in cui saltano definitivamente gli argini del discorso realista coincide con l’introduzione nella storia di un orso-fabbro, del tutto inserito nei ritmi lavorativi degli esseri umani e vittima delle loro convinzioni ideologiche. La sottomissione degli “elementi spontanei”, la sottrazione di spazio alla natura, indifferente all’uomo ma sempre in grado di offrirgli un rifugio, sono altre riflessioni centrali ne Lo sterro. L’unico indicatore del passare del tempo sembra essere l’alternarsi delle stagioni, che funge da sfondo all’insensato e confuso avvicendarsi delle miserie umane.

Angosciati, tristi e malinconici, i personaggi platonoviani lanciano un ultimo grido di aiuto prima di essere soppiantati dai protagonisti ovattati e plastificati del realismo socialista di poco successivo. In un mondo sempre più irrimediabilmente colonizzato dall’ideologia, Voščev e i suoi compagni riescono a resistere cercando di mantenere un contatto con quel piccolo spazio libero e indomabile che si trova dentro di loro e che continua a trasmettere impulsi opposti rispetto a quelli provenienti dall’esterno, impulsi che rappresentano l’unica via di fuga dalla brutale burocratizzazione dell’esistenza.

Come sostenuto da Pruševskij in un passaggio che rappresenta l’unica risposta alla morbosa ricerca di senso che permea l’intero romanzo: “Se non ci sono le emozioni che fanno perdere memoria di sé, da dove mai la vita trae il suo turbamento e s’erge a tendere le braccia in avanti verso la propria speranza?” (p. 206)