Tra poesia e prosa. Una conversazione con Katarína Kucbelová

Intervista a cura di
Alexandra Dunčková
Martina Mecco

 

Katarína Kucbelová è una delle voci più autorevoli e sperimentali della letteratura slovacca contemporanea. Concluso il liceo, ha studiato drammaturgia e scenografia alla Facoltà di Cinema dell’Accademia delle arti dello spettacolo di Bratislava (VŠMU). Poetessa e prosatrice, ha alle spalle numerose pubblicazioni letterarie che le sono valse diversi riconoscimenti prestigiosi. Le sue poesie sono state tradotte in più di dieci lingue straniere e sono comparse in numerose antologie. Al suo debutto, avvenuto nel 2003 con Duály (“Duali”), sono seguite altre quattro raccolte poetiche, tra cui la più recente edita nel 2022 con il titolo K bielej (“Verso il bianco”). Accanto alla sua produzione poetica, Kucbelová ha pubblicato anche Čepiec (2019), romanzo permeato di elementi propri del reportage dedicato all’eterogeneità delle comunità presenti nella Slovacchia rurale. Particolarmente attiva nella scena culturale slovacca, ha co-fondato il premio letterario Anasoft Litera, di cui è stata presidente fino al 2012.

Si ringrazia l’autrice per la sua disponibilità nel rilasciare questa intervista. L’idea è nata in seguito al Festival “Mappe Letterarie“, dedicato alla letteratura slovacca contemporanea, svoltosi a Catania lo scorso ottobre. Si ringrazia, inoltre, la Prof.ssa Zuzana Nemčiková per la revisione della traduzione italiana.


AR: Innanzitutto, vogliamo ringraziarla per aver accettato di rispondere alle nostre domande. Quando ha iniziato a scrive poesie? E che significato ha per Lei?

KK: Da giovane, forse a quindici, sedici anni. Ora che ne ho quarantatré, ho la sensazione che in ogni fase della mia vita ha significato qualcosa di diverso. Prima dei vent’anni ho avuto la possibilità di raccontare i traumi attraverso delle immagini senza esserne consapevole. Dopo i vent’anni l’entrata nel mondo che è diventato il mio nuovo spazio sicuro, ricco di stimoli e relazioni. Dopo i trent’anni mi è giunto un senso di accettazione e apprezzamento, e a quarant’anni la libertà.

 

AR: A proposito di esordi poetici: ha qualche modello o poeta che le piace particolarmente?

KK: Nell’ambito della poesia slovacca probabilmente mi sono soprattutto ispirata alla poetica degli Osamelí bežci [I corridori solitari, gruppo nato nel 1963, composto originariamente da Ivan Laučík, Peter Repka e Ivan Štrpka, N.d.T.]. Tendo a essere prolissa. Mi piace la poesia che richiede molto tempo e su cui occorre ritornare, mi piacciono unità più lunghe, e la composizione è un processo che trovo molto stimolante.

 

AR: E la prosa? Lei ritiene che la scrittura in prosa costruisca una forma espressiva diversa da quella poetica? In che modo il processo creativo nella scrittura in prosa differisce da quello della scrittura in versi? Scrivere un libro in prosa ha influenzato in qualche modo il suo processo di scrittura e come è cambiato il suo rapporto con la scrittura passando alla prosa?

KK: La prosa è uno spazio letterario completamente diverso, è un mondo di situazioni che i personaggi affrontano. La modalità con cui raccontiamo una può assumere forme diverse, ma il fatto che si tratti azioni di persone in situazioni è inevitabile.

 

AR: Leggendo e traducendo alcune delle sue poesie, ho notato che spesso ricorra l’elemento del bosco. Che cosa significa per lei? Quali altri motivi considera essenziali nella sua poetica?

KK: C’è anche nel mio ultimo libro, uscito poche settimane fa [K bielej, “Verso il bianco” N.d.T.]. Un altro motivo ricorrente sono le preghiere, sebbene io non sia credente. Le preghiere sono testi letterari spontanei o connessi e carichi in modo diverso, hanno scopi diversi e hanno anche un diverso valore narrativo. Mi affascinano, qualunque sia il destinatario e qualunque sia lo scopo: che siano intime o che aderiscano, al contrario, alla tradizione e chi prega cerchino quasi un percorso per comprenderle.

 

AR: Come descriverebbe il processo di creazione poetica? In altre parole, come nasce una sua raccolta?

KK: Scrivo delle cose, prendo appunti, probabilmente come ogni autore. Se emerge un insieme di testi in cui cominciano ad affiorare temi che mi interessano, continuo a scrivere. Spesso si tratta di una fase in cui trascrivo le poesie dai miei fogli o dai quaderni sul computer. Nel momento in cui comunicano con me divengono una sorta di specchio. Suona un po’ esoterico, e non era questo il punto… Quindi cerco di dirlo in un altro modo. Se, a un certo punto, trovo dei miei testi che possono avere un significato anche per un altro lettore, vado avanti in direzione di un libro. Mi sono rimaste anche alcune poesie che non hanno portato a nessun libro.

 

AR: Lei scrive di argomenti molto complessi, come esempio cito il modo in cui rappresenta la morte nella poesia Emmaus (Terzo sermone). Ma vedo un elemento di speranza nella tragedia. Per usare la Sua metafora, “la foresta assorbe tutto”, ma rimane qualcosa, un po’ di luce. Lei è d’accordo con questa interpretazione?

KK: Non so se ho mai aspirato a essere una persona che dà speranza, mi sentirei un po’ una ciarlatana. Ma ammetto che, al di là di ogni intenzione dell’autore, il lettore può fare questa esperienza. Forse la speranza emerge dopo essere sopravvissuti a un’esperienza tragica. È un modo positivo di affrontarla. Ma, ovviamente, esistono anche scenari negativi.

 

AR: Cosa pensa della letteratura slovacca contemporanea? Come descriverebbe l’attuale scena poetica slovacca?

KK: Queste sono le domande più difficili, alle quali di solito viene data una risposta molto semplicistica. Se dovessi citare delle caratteristiche comuni con altre letterature, anche nella letteratura slovacca negli ultimi anni si è assisto a un’ascesa delle, ma non si tratta solo di una rivolta marginale in una scena prevalentemente maschile, ma un fenomeno ormai comunemente diffuso. Un altro fattore, che probabilmente troveremmo altrove, è la natura di un certo tipo di letteratura che si fa strada nelle traduzioni. I testi più innovativi da un punto di vista formale o i testi di autori che non sono del tutto disposti a svolgere il ruolo che ci si aspetterebbe, come fare apparizioni sociali, alimentare i social network e così via, sono lasciati a casa per i fajnšmekri [dal tedesco Feinschmecker, un “connoisseur” N.d.T.]. Con questo non intendo dire che ciò che viene tradotto sia di scarsa qualità, ma solo che le letterature sono più variegate all’interno di quanto non appaiano dall’esterno. Inoltre, credo che, non solo in Slovacchia, ci sia una carenza di persone impegnate nella trasposizione e nella riflessione letteraria. Considero la predilezione per i testi brevi, i racconti, una peculiarità slovacca: capita che solo i racconti o i testi più brevi entrino nella shortlist dei candidati del più famoso premio letterario.

Se esiste una scena poetica, non posso dire di seguire ciò che vi accade: non ho più l’età per interessarmici a far parte di comunità letterarie. Leggo, ma creo i miei contesti personali.

 

AR: Lei è una poetessa rinomata in Slovacchia e all’estero, che ha pubblicato diverse raccolte di poesie e il cui talento è stato riconosciuto da tempo. Vorrei però soffermarmi sul suo ultimo libro, Čepiec. Come è nata l’idea di scrivere questa opera in prosa e come si è evoluto il processo creativo?

KK: Da una crisi creativa, da una nuova situazione della vita, mi è nato un figlio e la mia vita è cambiata, la struttura del tempo è cambiata. Ho avuto un po’ un blocco e ho dovuto cercare un modo per uscirne. Così ho iniziato a fare brevi viaggi psico-igienici nella regione dell’Horehronie (Alto Hron) e ho conosciuto una signora che sarebbe a poco a poco diventata la protagonista o il soggetto del mio libro.

 

AR: Alcuni lettori hanno definito il suo libro “una combinazione di romanzo documentario e reportage letterario”, una definizione che ricorda la produzione di Svetlana Aleksievič, il suo genere particolare. Sente un qualche legame con l’autrice bielorussa?

KK: Sì, la cito anche nel libro e la ammiro. Nel mio lavoro, tuttavia, non c’è un metodo sistematico come quello che si riscontra nelle opere di Svetlana Aleksievič, ma piuttosto un approccio casuale, anche se mi piacerebbe tornare agli elementi del reportage nel mio lavoro. Il secondo libro che ho in programma adotta una strategia leggermente diversa e, nonostante possa sembrare anch’esso un romanzo documentario, si tratta di fiction.

 

AR: Čepiec è un libro che probabilmente rientra nel genere della non-fiction, che potremmo associare a un approccio giornalistico, ma nel caso di questo libro, per quanto ricordo, Lei ha scritto tutto a posteriori, senza registrazioni, appunti e persino senza nessuna fotografia, mentre si trovava a Šumiac con la sua protagonista, Iľka. Com’è andata di preciso? E come definirebbe Lei questo modo di scrivere?

KK: Il mio approccio è stato allo stesso tempo giornalistico e non. Ho seguito il mio soggetto, come ammetto anche nel libro, ma d’altro lato l’ho fatto senza alcun dispositivo e non ho neanche fatto domande. Il mio unico strumento è stato l’ago da cucito, ho lavorato con ciò che è emerso mentre svolgevo un’attività che non era un’intervista giornalistica, cioè il ricamo. Stavo anche documentando qualcosa che è diventato un’esperienza condivisa. Le testimonianze più preziose sono state quelle che sono emerse dal silenzio e nel libro c’è solo quello che sono riuscita a ricordare, cioè ciò che ha toccato delle corde intime in relazione alle mie esperienze di vita, in particolare alle esperienze della mia famiglia e soprattutto della parte femminile, ed è così che sono finite anch’esse nel libro.

 

AR: Come nel primo libro di Svetlana Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna (1985), Čepiec si focalizza sulla visione del mondo e della vita di una donna, la signora Iľka, con tutto ciò che comporta. In che modo questo particolare punto di vista ha influenzato la Sua comprensione della vita quotidiana e del folklore, e in che modo il punto di vista femminile, e quindi casalingo, ha contribuito alla narrazione?

KK: Sostanzialmente perché finora quando parlavamo di storia dal punto di vista femminile, accettavamo automaticamente l’ottica della non libertà, dell’obbedienza, dell’adattamento, della sopportazione e della cura degli altri come forma di virtù indiscussa. In Čepiec tutto ciò non viene più considerato una virtù femminile, nonostante l’eroina non sia riuscita a ribellarsi al suo , ossia al fatto di essere nata in un ambiente poco stimolante, relativamente isolato, in povertà come donna e, per di più, la più giovane della sua famiglia.

 

AR: Cosa Le ha insegnato di importante questo progetto e il periodo trascorso a Šumiac, oltre al ricamo?

KK: Ho riflettuto molto sulla convivenza nella diversità e sulle comunità spontanee. Su come la penuria crei comunità e allo stesso tempo porti a estraniarsi da altre comunità. Mi riferisco alla convivenza della maggioranza slovacca e della minoranza rom.

 

AR: In quali lingue sono state tradotte le sue opere e in che modo potrebbero essere interessanti per il pubblico italiano? Mi riferisco in particolare al libro Čepiec.

KK: Čepiec è stato finora pubblicato in Paesi confinanti con la Slovacchia: in Polonia, in Repubblica Ceca e in Ungheria. I diritti sono stati venduti e il libro sarà probabilmente pubblicato nei prossimi mesi in tedesco da un editore svizzero, in inglese per il mercato britannico, e in lettone, mentre le pubblicazioni in francese e in arabo sono in fase di negoziazione iniziale.

 

AR: Infine, per quanto riguarda i Suoi progetti per il futuro, prevede di scrivere ancora romanzi documentari o libri a sfondo sociale?

KK: Il romanzo che ho in cantiere e che sarà pubblicato quest’anno, ha alcuni tratti comuni con Čepiec, ma non è un romanzo documentario, anche se può sembrarlo all’apparenza. È, in un certo senso, un saggio sul passato e sulla libertà, ma i personaggi sono di fantasia. È più che altro un libro di Bratislava e allo stesso tempo, come Čepiec, è un mosaico frammentato. Mi piacerebbe però tornare ancora all’approccio del reportage.

 

Apparato iconografico:

L’immagine di copertina, concessaci dalla scrittrice, è stata scattata da Dirk Skiba.

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