Corpicini di linguaggio… “Lettere a Gaustìn e altre poesie” di Georgi Gospodinov

Bianca Dal Bo

“Tutta la mia vita è cucita con vite altrui.”
(Tutti i nostri corpi. Storie superbrevi, Georgi Gospodinov)

Nel 2007 si intrufola nel panorama letterario italiano grazie a Voland Romanzo naturale (“Естествен роман”, 1999), impazzito frammentario romanzo ad alto substrato poetico e particolarmente simpatizzante per i cessi. Il prosatore bulgaro nato a Jambol nel 1968, Georgi Gospodinov – o i suoi empatici sguardi meticciati di multiple voci – ne è l’autore. Amante di pagine ancora non del tutto esplorate, la casa editrice Voland inizia a prendersi profondamente cura dell’opera dello scrittore: pubblica altri suoi due romanzi e tre raccolte di racconti. Ma i corpi di linguaggio di Georgi Gospodinov nascono, in realtà, sottoforma di briciole di pane: poesie. La sua opera d’esordio Lapidarium (“Лапидариум”, 1992) è, infatti, una raccolta di versi “scritti sul retro di biglietti e foglietti”, racconta il poeta. Dalla collaborativa e amichevole revisione di testi passati grazie alle quattro mani di autore e del traduttore, nonché curatore dell’edizione, Giuseppe Dell’Agata, nasce per la prima volta un’antologia in italiano di settantun poesie e quattro prose poetiche: Lettere a Gaustìn e altre poesie (Voland, 2022). Insomma, settantacinque corpicini di linguaggio grandi quanto una formica impregnati di polifonico lirismo.

Link al libro: http://www.voland.it.kirk.frequenze.it/libro/9788862435130 

 


Nonostante sia conosciuto in Italia per la sua penna da romanziere, è con i versi che il poeta ha iniziato a porre con delicata attenzione i mattoncini delle fondamenta della sua casa di parole tuttora in costruzione. In Tutti i nostri corpi. Storie superbrevi (“Всичките наши тела”, 2018), Georgi Gospodinov rivela in un chiacchierato capitolo finale, successivo ai centotre minuscoli essenziali racconti protagonisti del libro, di essere un anarchico amante della brevità, proposta valida ed eversiva, contro la pericolosa epicità dell’oggi. E, in effetti, varie sono le opere di poesia pubblicate in lingua bulgara, a cui l’estero ha dedicato meno attenzione. In seguito al già citato Lapidarium, Gospodinov edita con Žanet45, casa editrice ormai fedele al poeta, Il ciliegio di un popolo (“Черешата на един народ”, 1996), nel 2003 Lettere a Gaustìn (“Писма до Гаустин”), l’antologia Ballate e disgregazioni (“Балади и разпади”) nel 2007 e, infine, nel 2016, Là, dove non siamo (“Там, където не сме”). È da questo sostanzioso – strabordante, sconfinante – paniere di briciole poetiche che si compone l’antologia italiana dei versi di Georgi Gospodinov, occasione, per poeta e traduttore, di rigirare lo sguardo all’indietro, di revisionare parole già scritte e ricomporle in una nuova camera accogliente.

La raccolta di poesie Lettere a Gaustìn e altre poesie si rivela essere, insomma, già al momento della creazione, un anarchico sconfinamento: la ricerca di una composizione armonica a più mani, di Gospodinov e Dell’Agata; la sua nascita nel localizzato contesto italiano, straniero alla lingua madre dello scrittore; la presenza di entrambe le lingue poste in testo a fronte; lo sguardo rivolto all’indietro sconfinando in opere già tracciate e raggruppate, ora, sotto logiche diverse. In realtà, questo guardare all’indietro, ripercorrere le impronte impresse sulla carta o sulla terra, è un’operazione molto cara al poeta bulgaro: la domanda sul tempo attraversa tutti i suoi corpi letterari, investigatrice di parole mal interpretate, di tempi lasciati sotto lo zerbino, punzecchia ogni tipo di nazionalismo o di inconsapevole assodato fraintendimento. Una pratica che indaga e riattiva non solo il passato, ma anche il presente, una scrittura ibrida e frammentata, spazietti in cui fermarsi a conversare coi ricordi di parenti ormai mancati, con prospettive introiettate nel nostro modo di vedere, ripensare a parole date per scontato, spazietti come brevi pause in cui sedersi. Nell’intervista condotta da Kim Skotte in occasione del Louisiana Literature Festival nell’agosto del 2018, il poeta riflette sull’abitudine tipica delle tribù dei Beduini di fermarsi a sostare ogni tanto, dopo aver camminato nel deserto con i loro cammelli, per attendere che la loro anima li raggiunga: l’anima ha un’altra velocità rispetto al corpo, è più lenta, e i Beduini ne sono a conoscenza. Continua Gospodinov:

In a world like ours today, literature is doing something similar: it makes things slow down, it gives us these “places to stop” – where the soul or the meaning, whatever you like to call this institution, can catch up with it.”

I corpi di linguaggio di Lettere a Gaustin e altre poesie, sono empatici “places to stop” in cui scrutare il cammino percorso e scorgervi la propria anima in arrivo.

L’inconclusa riflessione sulla questione del tempo si proietta all’interno di tutta la raccolta. La durata di ogni inutile poesia in Poesia al posto di un portafrutta; la necessità di chiudere le porte del passato dopo essersi avventurati nella casa della memoria in Cammina delicatamente nella casa di ieri; il maturare del tempo e di ogni cosa, a eccezione dei corpi umani, brevi, in Il tempo è una bomba ai neutroni; il suono del rinsecchirsi delle foglie, non ancora morte (sono, seppur anziane accasciate a terra, labbra che ancora stormiscono) in Vento di autunno… I versi di L’arte del pomeriggio, proiettati come ombre sulla pagina bianco crema, giocano con le luci che il tempo crea nelle ore pomeridiane rendendo ogni elemento così vero: Sono qui e guardo come/ la luce del pomeriggio/ conquista la stanza/ striscia sui libri/ sulle cartoline di Natale/ sul rametto di abete, sui giocattoli/ sul verde mela della parete/ e si ritira in ordine inverso (p. 123). Rende tutto così vero che, al passare di una nuvola, al cancellarsi dell’ombra che determina l’esistenza di ogni corpo, questo, non più proiettato, muore. Conclude il poeta, senza inserire punti al termine del verso finale: “sono così leggero/ e proiettato/ passa una nuvola/ e muoio”.

L’indagine del tempo diventa qui curiosa osservazione del suo movimento e dei suoi effetti, del suo modo di attraversare il nostro quotidiano e le nostre azioni e di come noi lo concepiamo. A riguardo, ogni “place to stop” di questa raccolta apre lo sguardo del lettore a un’altra consistenza del tempo, che non è quella ruota ingannatrice, enorme e piena di abissi per chi non vi si adatta, che di anno in anno si volge a un progresso di dimensioni da elefante. In Fotografia III, nella consapevolezza della propria “mosca-vita” (p. 75), Gospodinov si ribella alla comune e grossolana misurazione del tempo in anni:

Voglio dire che la misurazione in anni è un paniere davvero troppo grande per noi. Tutto scivola via, Gaustìn, attraverso i suoi buchi. Ti dico, è imperdonabile perdere così tante cose, che sconsideratamente noi definiamo sciocchezze. Ecco allora la mia modesta proposta: passare ai panieri più piccoli dei giorni e, se è il caso, a quelli ancora più piccoli delle ore e dei minuti.” (p. 75)

Le quattro prose liriche dal titolo Fotografie, seguite ognuna da una corrispettiva poesia, sono luoghi, come ogni altro componimento, di riflessione su temi importanti per l’autore. Oltre alla tematica del tempo e la proposta di una sua misurazione sovversiva, Gospodinov si concentra, per esempio, in Fotografia I, su un altro filo rosso della sua poetica, quale il rapporto indefinibile tra natura e divino:

Non capiremo mai chi ci ha messo lì, perché ci ha riuniti qui e quando ha scattato la foto. Non abbiamo mai prestato sufficiente attenzione al fatto che il Fotografo rimane sempre al di fuori dell’inquadratura.”  (p. 63)

Mentre in Notizie è un prepotente burlone che restituisce le palle perse a golf sottoforma di tempeste ben riuscite, Quello va sempre in buca (p. 55), in un’altra breve lirica Dio (dio?) è rosso/ turgido e perfetto/ Dio è un pomodoro (p. 15). Nell’iniziale e inconcludente poesia Undici tentativi di definizione entra nella vita come un questo/ così minuscolo con la “q” minuscola (p. 7), invece in Nonno e i fulmini il nonno pensa che i fulmini siano i flash con cui un piccioncino ci fotografa: Chi è questo Piccioncino/ che si scrive con la maiuscola/ di Fotografo ci si scrive/ tutto vede tutto fotografa (p. 47). L’entrare e l’uscire del divino inafferrabile e tanto concreto, il suo movimento oscillante, è qualità di ogni altro motivo del libro. Il corpus dell’antologia s’inclina – sconfina – e si mette in relazione, si meticcia di voci altre: poesie sull’amore riguardano sempre una cambiamento di stato, il proseguire di un rapporto, il duro lavoro di pulire la polvere lasciata da una storia terminata, una smobilitazione, un movimento; lo scrittore riflette sulle vite che lo circondano, sul suo stretto legame con la famiglia, i semplici concreti miracoli del padre nell’etico lavoro della terra, le ricette della madre, autentica gustosa poesia che il poeta non riesce a riprodurre se non con intangibili parole… Un grande numero di poesie si mette in dialogo, invece, con le voci di altri scrittori e poeti, in costante apertura a un intimo gioco intertestuale in cui si mescolano penne e vite diverse, e qualcuno viene addirittura considerato “nonno Eliot” o “nonna Emily”.

Manca una voce, in particolare, su cui soffermarsi, la voce di colui che si è meritato addirittura il titolo del libro: Gaustìn, l’alter ego di uno scrittore la cui identità è una miscela di vite altrui. Gaustìn appare per la prima volta nell’epigrafe di Sulla creazione, poesia in cui osa sostenere che il Creatore è, in realtà, anche lui nato da una creatrice a lui precedente. Gaustìn inizia a gironzolare tra le mani di Gospodinov e si aggiudica, dopo varie e sempre più frequenti apparizioni, un ruolo da protagonista nel romanzo Cronorifugio (“Времеубежище”, 2020). In Lettere a Gaustìn e altre poesie, Gaustìn non è solo il mittente delle quattro fotografie (tratte dall’edizione bulgara del 2003 Lettere a Gaustìn), ma si infilano nel testo alcune citazioni prese da libri di cui Gaustìn è l’autore. La baklavà del giorno inizia, per esempio con una citazione dall’opera Piccoli trattati orientali di Gaustìn: I Pentagoni dell’Occidente non capiranno mai/ la geometria/ dell’Oriente (p. 65).

Lettere a Gaustìn e altre poesie è un corpo ibrido alla nascita (come tutti i corpi che nascono ed esistono, del resto) e gioca, infine, mettendosi del tutto in discussione, anche con la propria materia prima: il linguaggio. L’etico tentativo mai del tutto completo che attraversa speranzoso ogni verso dell’antologia, è una legittimazione di una pacifica polifonia di voci altre e corpi brevi che è il testo stesso e che è, secondo Gospodinov, il mondo stesso. Come agire? Forse proprio continuando a diliscare in modo giocoso il testo del mondo dalle dure rumorose gerarchie di una struttura immobilizzante. Le parole di Tecnica per diliscare i testi mostrano come fare:

Sostengo che la primitiva morbidezza della lingua può ancora essere conservata nella poesia./ – SONO SAPORITO, CARA?/ Le parole sono pesciolini/ con molte lische-consonanti/ permettimi di pulirle un attimo/ prima di sciogliermi nella tua bocca/ OO AOIO AA?” (p. 39).

Molti corpicini poetici scivolano via nel tentativo di osservare la raccolta in ogni sua sfaccettatura. In un’intervista rilasciata per il programma “Il cavallo e la torre” (Rai Play, 09/12/2022) viene chiesto a Georgi Gospodinov come vede il futuro: Noi, in questo momento, dobbiamo adoperarci per preservare la cameretta del mondo, la stanza dell’infanzia del mondo.” Impegnarsi a preservare la cameretta di un mondo sempre in nascita, con la faccia di bambino. Ecco, nel tentativo di afferrare il sapore delle briciole di pane di Gospodinov, resta l’essenza di una pratica: il poeta nella vita continua a costruire libere camerette di attenzione e di speranza e, a quanto pare, Lettere a Gaustìn e altre poesie è l’ultima arrivata. Nel frattempo, il lettore resta in attesa di altri prossimi corpicini di linguaggio…

 

Apparato iconografico

Immagine copertina: https://venezianews.it/who/georgi-gospodinov/ 

Immagine 2: 4_GeorgiGospodinov | Numéro Cinq (numerocinqmagazine.com)