Reportage dalla Cecenia. Strategie e forme in Wojciech Jagielski, Anna Politkovskaja e Irena Brežná

 Martina Mecco

 

Abstract

Reportages from Chechnya. Strategies and forms in Wojciech Jagielski, Anna Politkovskaya and Irena Brežná

The aim of this paper is to investigate the heterogeneity of the forms of war reportage written during the First (1994-1996) and the Second Chechnyan War (1999-2009). The article starts from some considerations about the condition of Caucasian people after the collapse of the USSR written by the Polish reporters Ryszard Kapuściński and Wojciech Jagielski. Then, through the analysis of the activity of two different reporters – the Russian Anna Politkovskaya and the Slovak Irena Brežná – will be pointed out how the conflict was covered employing different perspectives, styles, and linguistic approaches. Moreover, through a comparative perspective, it is possible to observe the evident fluid character of reportages produced between the end of the 20th century and the beginning of the 21st.

 

“E anche le luci a terra, sotto di noi, si stanno allontanando…
Dove sei, Cecenia?”

(Anna Politkovskaja, Siamo vivi ancora una volta)

 

Le guerre cecene hanno segnato in modo fugace e silenzioso l’attenzione occidentale, palesando in questo modo l’atteggiamento di coloro che la scrittrice ucraina Oksana Zabužko in Najdovša podorož (“Il viaggio più lungo”, 2022) definisce popoli fortunati che non hanno conosciuto una denazionalizzazione sistematica (p. 26), attribuendo così all’Occidente l’accusa di essere portatore di una cecità dilagante. Collocato nella zona settentrionale del Caucaso e incastrato tra il Caspio e il Mar Nero, tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI il territorio ceceno è stato sfondo di due sanguinose fasi belliche: la Prima Guerra Cecena del 1994-1996 e la Seconda Guerra Cecena, combattuta tra il 1999 e il 2009. Per comprendere cosa si intende quando si parla di Caucaso, è utile allacciarsi alle parole del reporter polacco Ryszard Kapuściński (1932-2007) che in Imperium (1993), durante il suo periodo in Georgia, scrive:

Penso che ogni georgiano, ogni abitante del Caucaso abbia una mappa del genere codificata nella sua memoria. Ne ha imparato ogni dettaglio da piccolo, a casa sua, nel suo villaggio, nella sua strada. È una mappa-momento, la mappa dei pericoli. […] Il Caucaso è un ricchissimo mosaico etnico costellato da un numero infinito di piccoli, spesso microscopici gruppi, clan, tribù, raramente popoli.” (pp. 125-126)

L’opera Imperium si potrebbe definire in termini di un magistrale nonché appassionante reportage che racchiude osservazioni e riflessioni elaborate da Kapuściński durante il suo viaggio attraverso quelle terre che avevano appena esperito il crollo del gigante sovietico. Un evento che, come sottolineato qualche anno più tardi da Wojciech Jagielski (1960 -) nella sua opera di reportage dedicata alla Cecenia Wieże z kamienia (“Le torri di pietra” 2004), fu particolarmente drammatico per le genti caucasiche. Mentre si trova ad Ansalta, in Daghestan, Jagielski riflette ampiamente sul disorientamento delle popolazioni del Caucaso e mette in luce la complessità del passaggio dal sistema sovietico a un nuovo assetto sociopolitico in cui la libertà sembra invadere ogni singolo aspetto della vita quotidiana, producendo delle conseguenze talvolta catastrofiche:

La libertà che era scesa su di loro, in quello stato di profonda inquietudine spirituale, coi cuori lacerati e le teste piene di dubbi, aveva significato anche la liquidazione di tutto ciò che costituiva la loro vita di allora. […] L’inaspettata libertà si rivelò per molti una sfida troppo difficile. Non avevano più Dio, perché era stato loro imposto di rinnegarlo. In cambio era stata loro suggerita la fede nello stato. Ed ecco che l’impero, nella cui grandezza ed eternità avevano dovuto credere, era crollato davanti ai loro occhi come un colosso d’argilla, riducendosi in macerie.” (pp. 31-32)

Il Caucaso raccontato da Kapuściński non è ancora quello macchiato dal sangue dei due conflitti ceceni, ben diverso dall’immagine che ne dà Jagielski nella sua opera. Quando in un’intervista del 2004 curata da Marcin Górka a Jagielski viene chiesto il perché egli abbia deciso di redigere un libro sulla Cecenia, la risposta del giornalista sottolinea la necessità di fare chiarezza: “[i]n quanto giornalista cerco di porre l’attenzione sul fatto che l’immagine in bianco e nero di tutto ciò che viene mostrato alla televisione non è la verità.” Una motivazione, quella del reporter polacco, in cui in un certo senso risuona quella lotta alla cecità dello spettatore esterno di cui parla giustamente Zabužko.

L’opera di reportage di Jagielski si fa in una certa misura erede della tradizione iniziata da Kapuściński. Tuttavia, come affermato in un’intervista rilasciata a “L’Internazionale”, Jagielski non crede nell’esistenza di una “scuola polacca” del reportage, bensì in uno stile che contraddistingue il “reportage polacco” in termini di prospettiva e approccio. Nel reportage polacco delineato da Jagielski viene prestata attenzione alle storie e agli eventi che si scelgono di raccontare e viene elaborato un modo peculiare di raccontarle: esporre fatti reali in una costruzione narrativa accattivante e coinvolgente per il lettore. Non è affatto causale che nel corso dell’intervista il nome del reporter pakistano Ahmed Rashid venga citato accanto a quello dello scrittore Joseph Conrad, l’autore di Cuore di tenebra. Il genere a cui Jagielski aderisce è quello, dunque, del reportage letterario. Tuttavia, questa componente di letterarietà è più evidente in un’opera successiva del reporter polacco, Nocni wędrowcy (“Vagabondi notturni”, 2009) dove l’uso cosciente della finzione diventa la struttura dominante. In Wieże z kamienia sono piuttosto due gli elementi che alternandosi danno forma all’opera: la dimensione descrittiva del conflitto in cui Jagielski ricostruisce, anche attraverso l’uso della prima persona, lo svolgersi degli eventi a cui assiste e quella meditativa intorno a questioni che caratterizzano i popoli caucasici, in una prospettiva non solo sincronica. Alla creazione di una narrazione delle guerre cecene hanno contributo diverse voci di reporter, di cui Jagielski è solo un dei rappresentanti. Tuttavia, analizzando la vasta gamma di testi prodotti ci si imbatte in un’eterogeneità di stili, approcci e prospettive che rende particolarmente complesso anche il solo tentativo di rintracciare una sorta di sistematizzazione. Abbandonando la questione del reportage letterario, emergono due esempi particolarmente interessanti all’interno di questo contesto. Si tratta di due voci femminili, quello di Anna Politkovskaja (1958-2006) e quella di Irena Brežná (1950 -), legate da un incontro fortuito nella Mosca del 1996.

Il nome che si ricollega immediatamente alla questione dei reportage prodotti in relazione alle guerre in Cecenia è quello di Anna Politkovskaja, la cui personalità fu strettamente legata alla testata russa “Novaja Gazeta”, fondata nel 1993 e diretta da Dmitrij Muratov a partire dal 1995. Il 7 ottobre 2006, la giornalista russa viene trovata morta nell’ascensore del suo palazzo moscovita: una Makarov, quattro colpi, uno centrato in piena testa. L’attività di Politkovskaja in relazione alla questione cecena è stata fondamentale, non solo per la creazione di uno spazio giornalistico in cui fruire concretamente di informazioni che facessero chiarezza sugli avvenimenti, ma anche per il modo in cui queste sono state elaborate, ovvero per lo stile che è stato impiegato. Visto lo scarso spazio a disposizione, si rivela forse inutile ripercorrere in modo puntiglioso i lavori pubblicati dalla reporter russa, che meriterebbero invece uno studio approfondito e che, forse, ancora manca. La sua opera è stata ampiamente pubblicata in Italia, si ricordano i tre volumi editi da Adelphi nella traduzione di Claudia Zonghetti: Putinskaja Rossija (“La Russia di Putin”, 2004), Russkij Dnevnik (“Diario Russo”, 2007) e Za čto (“Per questo”, 2007). L’attività di Politkovskaja, inoltre, ha ripreso a essere percepita da un pubblico più ampio come particolarmente attuale all’indomani dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, Adelphi ha non a caso deciso di ristampare i tre volumi in edizione economica. Inoltre, l’attività dei reporter russi si è rivelata ancora una volta particolarmente preziosa. Si ricordano, ad esempio, i quattro reportage dall’Ucraina redatti da Elena Kostjučenko che, per molti aspetti, rivela profonde ed evidenti affinità con Politkovskaja. Sembrerebbe dunque più sensato riflettere sulla concezione che la reporter aveva dell’attività da lei svolta e sullo stile da lei impiegato. Innanzitutto, il giornalismo viene concepito da Politkovskaja come un’attività che deve avere uno scopo ben preciso, essere al servizio della verità. Una professione tutt’altro che semplice in un sistema governativo fortemente coercitivo come quello russo. La verità a cui si rifà Politkovskaja è quella di cui si è testimoni in prima persona, gli eventi osservati devono essere fedelmente riportati, ricordando l’“opportunità [del giornalista] di fare qualcosa di necessario. La testimonianza giornalistica viene concepita come necessaria al fine di produrre un’informazione pulita e non epurata. L’informazione schietta e onesta viene dunque concepita come l’unica forma di lotta possibile. A tal proposito, Politkovskaja si mostra spesso particolarmente critica nei confronti di tutto quel giornalismo da lei stessa definito “da circo”, becero, che non si pone come obiettivi quelli appena delineati.

Chiarita la funzione del reportage, occorre dunque osservare in che modo essa si concretizzi a livello stilistico e formale. Nei reportage di Politkovskaja si rivela l’impiego di uno stile lucido, chiaro e al tempo stesso particolarmente tagliente da un punto di vista retorico, dunque intriso di un atteggiamento espressamente provocatorio. Tutto l’impianto stilistico, asciutto e conciso, è finalizzato a riportare con chiarezza gli avvenimenti di cui la reporter è testimone. Questo avviene secondo modalità differenti. Innanzitutto, attraverso una narrazione in prima persona, in cui viene ripercorso lo svolgersi degli eventi – in questi rientrano, banalmente, anche tutte quelle informazioni circa spostamenti dell’esercito – e vengono espresse delle considerazioni a essi direttamente connesse che, talvolta, sfociano in discorsi più ampi di carattere sociopolitico sulla situazione russa contemporanea. In secondo luogo, viene ritagliato ampio spazio per le voci di coloro che sono direttamente coinvolti. In questo modo Politkovskaja costruisce un sistema corale diversificato, dove la realtà passa attraverso le testimonianze dei suoi protagonisti che vengono “registrate” in tempo reale, portando il reportage su un altro livello comunicativo. Da questo punto di vista, interessante sarebbe operare un confronto con la coralità costruita da Svjatlana Aleksevič nel suo ciclo di opere documentali che si presentano in termini di un “monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo”. Nelle descrizioni della reporter ampio spazio viene dato ai dettagli, il rapporto tra individuo e massa viene bilanciato, prestando particolare attenzione alla testimonianza del singolo. A tal proposito, in La Cecenia è parte della Russia, i ceceni no, il 31 gennaio del 2000 scrive:

Odio i quadri che raffigurano grandi scene di guerra. Nella vita ciò che conta sono i dettagli. Sono loro la cartina di tornasole della nostra umanità. La tragedia di un singolo uomo e quella di un intero popolo dovrebbero scatenare la stessa reazione. Non è il numero a fare la differenza. I dettagli della storia recente di Liana Šamsudinova – anno di nascita 1994, luogo di nascita MartanČu, Urus-Martan – sono la norma per la Cecenia di oggi. (p. 26)

Il reportage continua, spostando il discorso sul suo ultimo viaggio nel Caucaso, che viene definito in termini di una “immersione nel dolore della gente e nel cinismo spudorato di chi sta al fronte”. Introducendo alla questione del genocidio, sui cui Politkovskaja si esprime scevra da qualunque tipo di dubbio, si palesa un altro elemento della sua scrittura, ovvero il rivolgersi direttamente ai lettori:

Ma – mi direte – il genocidio è giustificabile perché i criminali che commerciavano in ostaggi e petrolio di contrabbando sono stati tutti eliminati… Nossignori. Niente di tutto questo. I sequestri sono ricominciati. In forma diversa, alla chetichella. Ma sono ricominciati. […] E i cosiddetti wahhabiti? Pensate si siano dissolti al calore dei bazooka o che siano si siano rintanati nelle caverne dei monti? Figurarsi…” (pp. 32-33)

Una questione che ulteriormente occorre chiarire consiste nella possibilità di manovra che il governo russo dava effettivamente ai reporter che si occupavano del conflitto, anche a fronte della particolare importanza delle informazioni che venivano fatte circolare. Nel 2004, nel bel mezzo della seconda guerra cecena che il Cremlino identificava in termini di “operazione antiterroristica nel Caucaso del Nord” – un’espressione che riecheggia in modo evidente nell’odierna propaganda a favore dell’invasione su larga scala dell’Ucraina –, Politkovskaja riflette in un lucido bilancio sugli avvenimenti del conflitto e sul ruolo delle parti coinvolte. In questo discorso tre sono le tipologie di personaggi evidenziati: i civili, i giornalisti e, naturalmente, la classe politica. Parlando dei ceceni Politkovskaja sottolinea ciò di cui si parlava inizialmente, ovvero l’indifferenza rivolta nei loro confronti, e il fatto che essi fossero stati declassati a essere considerati nulla di più che dei soggetti biologici privi di qualunque diritto. Ad aggravare il disinteresse nei confronti del popolo ceceno concorre anche l’impossibilità, di fatto, per i giornalisti di documentare gli eventi. Difatti, nella Russia del dopo El’cin viene impedita una fruizione delle informazioni e un accesso diretto ad esse:

Il Cremlino ha tagliato fuori dalla Cecenia senza tanti complimenti tutti i testimoni superflui. In primo luogo, ha escluso i rappresentanti delle organizzazioni internazionali, che potevano lavorare nella regione solo sotto lo stretto controllo dei militari, parlando esclusivamente con le persone a cui era permesso di avvicinarsi. In secondo luogo, ha proibito ai mezzi di comunicazione l’accesso alla regione.”

Nel riflettere sulle sorti del territorio ceceno, Politkovskaja riesce nel portare avanti la riflessione su due piani tra loro convergenti: la questione bellica e la nascita di un nuovo sistema governativo, che si identifica con la rapida presa del potere da parte del giovane Vladimir Putin, eletto per la prima volta alle elezioni del 2000, a circa un anno dallo scoppio del secondo conflitto ceceno. Affermando che “la Cecenia è lo strumento con cui Putin ha conquistato il Cremlino”, la giornalista suggerisce una sorta di parallelismo tra la questione cecena e lo svilupparsi del putinismo, nelle parole di Jagielski in Wieże z kamienia: la Cecenia fu la sua catapulta per il potere (p. 22).  Si tratta di una nuova era in termini politico-sociali che, tuttavia, conserva uno dei principi cardine dell’epoca sovietica, ovvero la tendenza a celare la verità, appannarla agli occhi dei civili – usando le parole di Politkovskaja “nascondere la verità dietro una montagna di menzogne”. Nella sua analisi, particolarmente acuta nell’evidenziare le soluzioni becere della strategia politica putiniana, la reporter conclude senza troppe allusioni alla miopia del leader russo e prefigurando, in modo che oggigiorno potrebbe parere profetico, lo scivolare del paese in un abisso da cui non sembra esserci possibilità di risalita.

Riguardo all’impossibilità dei giornalisti di coprire il conflitto, è interessante osservare un incontro che, nel 1996, coinvolge la reporter russa e la slovacca Irena Brežná, giunta in Russia dalla Germania per una conferenza dedicata per l’appunto alla questione cecena. Nel suo intervento Brežná assume un atteggiamento tagliente e non risparmia le critiche nei confronti dell’inattività dei giornalisti russi nel coprire ampiamente gli avvenimenti del conflitto. Accanto allo sconvolgimento per le condizioni di vita in cui la popolazione cecena, in particolare le donne, erano costrette a vivere, la reporter afferma che ad averla sconvolta fu: “[…] l’assenza dei media internazionali. […] Un vero peccato anche che non ci fossero gli intellettuali russi, i quali avevano dichiarato che sarebbero venuti a dire net a questa guerra efferata e senza regole. Per come la vedo io, se non vanno in Cecenia e non protestano, sono complici. […] Perché gli intellettuali russi non dicono ora quello che pensano? (p. 10). Politkovskaja riporta parte dell’intervento e commenta l’incontro all’interno di un articolo uscito per “Obščaja Gazeta” il 28 marzo dello stesso anno. La giornalista russa risponde alle parole pronunciate da Brežná e lo fa sottolineando il fatto che in Russia sia in atto un progressivo abbandono del giornalismo a un’“autoipnosi collettiva”. Parole dure che risuonano accanto a un provocativo e sincero “my ustali” – “siamo stanchi”. Una “stagnazione morale” dilagante tra i giornalisti russi, che viene evidenziata anche in un articolo pubblicato per “Sojuz žurnalistov” (“L’unione dei giornalisti”) il 26 ottobre del 2006. Questo incontro tra Politkovskaja e Brežná risulta essere un ottimo espediente per osservare la differenza tra il lavoro delle due reporter. Alcuni dei testi redatti da Brežná, pubblicati nel corso del tempo in versioni diverse, sono stati tradotti in italiano e raccolti da Keller in un volumetto dal titolo Le lupe di Sernovodsk. Reportage sulla Cecenia all’interno della collana Redazione K nel 2016.

Ivana Brežná nasce nel 1950 a Bratislava, capitale dell’odierna Slovacchia. Brežná esperisce l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia nel 1968. All’indomani dell’invasione la giovane, all’epoca diciottenne, si trasferisce in Svizzera, paese di cui adotta la lingua e in cui inizia la sua carriera di scrittrice e giornalista. Difatti, sin dagli anni Ottanta collabora attivamente con importanti testate tedesche e svizzere, tra cui “Die Zeit”, “Neue Zürcher”, “Süddeutsche Zeitung” o “Basler Zeitung”. Brežná appartiene a un ampio spettro di scrittrici emigrate durante la seconda metà del secolo scorso che hanno scelto di adottare la lingua tedesca come lingua letteraria costruendosi così un proprio spazio in un ambiente letterario “altro”. Accanto al nome dell’autrice di origini slovacche si potrebbero, ad esempio, citare quelli di Katja Petrowskaja, Emine Sevgi Özdamar o Libuše Moníková. La rinuncia della propria lingua madre si identifica in un atto consapevole, politico e sociale. Nel caso di Brežná, la decisione di divincolarsi dalla “naturalezza” linguistica dello slovacco riguarda la sua prosa romanzesca, in cui spicca l’opera Die undankbare Fremde (“Straniera ingrata”, 2012), ma soprattutto la sua attività giornalistica. Per Brežná l’atto del riportare quando visto in Cecenia diventa un gesto non solo di trasposizione della realtà osservata nella dimensione testuale a livello contenutistico, ma un vero e proprio atto linguistico:

Desidero una lingua che sappia descrivere in modo preciso tutte queste cose, che non sono più cose nel senso originario del termine, nella nuova natura morta della guerra. Perché senza una lingua cadono di nuovo a pezzi, la percezione ne impedisce il passaggio alla memoria. […] Nello scrivere della guerra in Cecenia desidero ardentemente che alla distruzione sia attribuita un’esistenza giusta, linguistica […].” (pp. 39-40)

La realizzazione di un reportage per Brežná diviene dunque un lungo processo di rielaborazione linguistica degli eventi, dove la scelta di impiegare il tedesco è legata non solo allo status di emigrata, ma alle caratteristiche intrinseche della lingua adottata. Spiegando le fasi del suo percorso in un continuo groviglio semantico di scelte espressive che corrisponde al suo divenire reporter di guerra, associa al tedesco la peculiarità di essere una lingua atta – quasi in senso naturale – a narrare atrocità belliche. Brežná ritiene particolarmente adatto l’uso di “parole petrose”, dove il termine “petroso” non presenta alcun parallelismo la tradizionale accezione dantesca. Non manca, inoltre, un riferimento diretto alla stagione letteraria tedesca della Trümmerliteratur, la letteratura delle macerie: Mormoro in russo oksolki, oblomki, schegge, frammenti; chiamo in causa lo slovacco: črepiny, prach, cocci, polvere; aggiungo la parola tedesca Trümmer, detriti.” (p. 39) La decisione di partire per la Cecenia e di diventare reporter di guerra viene presa osservando alcune immagini che vengono trasmesse alla televisione nel 1994:

Nata dopo la guerra, cresciuta in una società socialista e nutrita con storie di guerre e di eroi, nel dicembre del 1994 vidi alla televisione le donne cecene, i loro volti ovali incorniciati da spessi foulard di lana, formare una catena umana contro i carri armati che avanzavano vero Groznyj. Lì, nel Caucaso sconosciuto, scorgevo l’eroina dei nostri tempi.” (p. 43)

Per Brežná indagare il ruolo delle donne nel conflitto diventa una necessità di primo ordine. Nel discorso impostato dalla reporter e il suo comprendere come l’attenzione nei confronti delle donne possa portare a una narrazione diversa del conflitto è possibile scorgere il pensiero espresso da Aleksievič nel capitolo introduttivo alla sua celebre opera U vojny ne ženskoe lico (“La guerra non ha volto di donna”, 1985): La guerra ‘al femminile’ ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti (p.12). Un parallelismo di questo genere, per quanto felice, parrebbe dissolversi se si mettono a confronto le parole che chiudono l’ultimo passaggio citato da Treue den Details (“Fedeltà ai dettagli”) di Brežná e il discorso di Aleksievič, che afferma: “[…] non ci sono eroi o strabilianti imprese (p. 12). Tuttavia, l’utilizzo del concetto di “eroina” – “Heldin” – in Brežná non aderisce a un intendo mitologizzante o celebrativo della guerra, ma viene piuttosto impiegata col fine di mettere in luce la centralità donna, il valore del gesto racchiuso in quelle immagini trasmesse via cavo. L’attenzione per la condizione delle donne cecene viene condivisa dalla reporter con Zajnap Gašaeva, attivista cecena impegnata nella difesa dei diritti umani, la cui collaborazione fu fondamentale per la realizzazione del documentario COCA. Die Taube aus Tschetschenien (“COCA. The dove from Chechnya”), girato da Eric Bergkraut nel 2005. Il documentario, in cui a intervenire sono anche figure di giornalisti – tra cui la stessa Politkovskaja – è uno spaccato in cui il tentativo è di mostrare la situazione politica dietro al conflitto e le condizioni del popolo ceceno in tempo di guerra. Qualche anno prima, il 2 agosto del 2001, Brežná scrive in una lettera aperta a Gašaeva: L’atteggiamento del mondo nei confronti del potentato russo è criminale, miope, intollerabile, se lo tollero è solo perché ne scrivo e perché ci sono persone che con il cuore e con la ragione avvertono il vostro grido e sono passati dal turbamento all’azione. (p. 140) I reportage realizzati da Ivana Brežná si basano, in sintesi, su due assunti fondamentali. Il primo è quello linguistico, il secondo è invece legato alle modalità della reporter di interfacciarsi con la realtà che ha di fronte. Fondamentale è partecipare in modo attivo alla quotidianità di chi vive il conflitto, in questo caso le comunità delle donne cecene, in modo tale da riuscirne a cogliere ogni sfaccettatura. Ciò, naturalmente, si presenta in primo luogo come una necessità dovuta al fatto che Brežná dovette mimetizzarsi tra le donne locali per ragioni di sicurezza, celando la propria identità. Tuttavia, nell’elaborazione dei suoi scritti questa necessità diventa la chiave attraverso cui costruire un resoconto che, per quanto crudo, è particolarmente efficacie. Inoltre, Brežná concepisce il suo ruolo di reporter come uno status in acquisizione, non avendo avuto esperienze simili in precedenza, e non manca di evidenziare l’essere cosciente della funzione da lei ricoperta. Uno stile che, tuttavia, si differenzia molto dalla chiarezza espositiva di Politkovskaja, preferendo una narrazione che, tutt’altro che edulcorata o smorzata nelle atrocità che vengono testimoniate, si rivela essere più coinvolgente nei confronti del lettore, senza però sfociare nel reportage letterario jagielksiano, ponendosi in una posizione mezzana.

In conclusione, il reportage presenta un’ampia possibilità di approcci, prospettive e stili. Tanto nelle sue forme più tradizioni quanto in quelle più ibride veicola l’elaborazione del discorso a un unico fine condiviso: quello di essere portatore di memoria e di quelle verità che vengono disvelate all’autore le esperisce. In una contemporaneità dove la libertà è oggetto di continua coercizione è evidente la necessità del linguaggio lucido di Politkovskaja e delle parole petrose di Brežná. Il genere del reportage, dunque, non ha in alcun modo perso la sua essenzialità, riconfermandosi così uno strumento al servizio di una verità appannata dal potere e della cecità dello spettatore esterno.

 

Bibliografia:

Anna Politkovskaja, Diario Russo, Torino, Adelphi, 2022.

Anna Politkovskaja, La Russia di Putin, Torino, Adelphi, 2022.

Anna Politkovskaja, Per Questo, Torino, Adelphi, 2022.

Ivana Brežná, Die undankbare Fremde, Berlin, Galiani Verlag, 2012.

Ivana Brežná, Le lupe di Sernovodosk. Reportage sulla Cecenia, Rovereto, Keller Editore, 2016.

Oksana Zabužko, Il viaggio più lungo. La cecità dell’Occidente e l’imperialismo russo nel racconto di una scrittrice ucraina, Torino, Einaudi, 2022.

Ryszard Kapuściński, Imperium, Milano, Feltrinelli, 2020.

Svjatlana Aleksievič, La guerra non ha volto di donna, Milano, Bompiani, 2015.

Wojciech Jagielski, Le torri di pietra, Milano, Mondadori, 2007.

Wojciech Jagielski, Vagabondi notturni, Milano, Nottetempo, 2014.

Sitografia:

Anna Politkovskaja, La maledizione della Cecenia, in “L’Internazionale”, 09/09/2004 https://www.internazionale.it/opinione/anna-politkovskaja/2004/09/09/la-maledizione-della-cecenia (ultima consultazione: 26/12/2022).

Marcin Górka, Spotaknie z Wojciechem Jagielskim, in “Szczecin Wyborcza”, 17/11/2004 https://szczecin.wyborcza.pl/szczecin/7,34939,2396719.html (ultima consultazione: 26/12/2022).

Andrea Pipino, Le storie nascono da piccoli dettagli nelle notizie. Intervista a Wojciech Jagielski, in “L’Internazionale”, 15/10/2015 https://www.internazionale.it/video/2015/10/15/wojciech-jagielski-polonia (ultima consultazione: 26/12/2022).

Materiale multimediale:

Eric Bergkraut, COCA. Die Taube aus Tschetschenien: https://www.youtube.com/watch?v=wB3IxBMl9yY.

 

Apparato iconografico:

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