Identità e mito. Intervista a Dmytro Sucholytkyj-Sobčuk

Intervista a cura di Viktor Toth

Traduzione dall’inglese di Viktor Toth

 

VT: In Pamfir è centrale la festa della Malanka, che è stata già il soggetto del suo documentario Krasna Malanka. In che modo ritiene che la Malanka contribuisca all’identità ucraina, e come si è evoluta la sua importanza nei suoi film?

DS: La storia di Pamfir è quella di una persona che vuole partecipare a questo carnevale – celebrazione enorme del giorno sacro della vita – , che cerca un ruolo centrale, ma che deve diventare l’opposto, collocarsi alla “periferia”. Ho scoperto l’esistenza della Malanka quando ero uno studente. Mi ero recato nel territorio per girare il documentario che era anche il mio progetto per il diploma, un lavoro più etnografico, che mostrava la multiculturalità del nostro paese. Non potevo includere molte delle cose che accadevano fuori dell’inquadratura, erano il mio piccolo tesoro dal quale potevo costruire Pamfir. Questa festività mostra come l’Ucraina sia multiculturale, data la vasta diversità di tradizioni appartenenti a regioni diverse. Nel nostro film abbiamo costruito la nostra versione della Malanka, assemblata dalle tradizioni di quattro villaggi diversi. Il villaggio del film non esiste, ma esiste la tradizione, quel tipo di costumi, la tradizione del combattimento in costume, di dipingersi il volto per nascondersi nel buio (che non è una forma di trasformazione del colore della pelle ma una forma di mimetizzazione). Tutto ciò che abbiamo capito da questi villaggi lo abbiamo incluso nel film. Abbiamo creato una simbiosi di queste celebrazioni in cui le persone preparano questi costumi per quello che è uno degli eventi più importanti: questa filosofia dell’uomo che diventa animale, le radici pagane dell’animalesco al giorno d’oggi, l’istinto che porta al livello dell’animale quando accade qualcosa alla propria famiglia. La Malanka unisce questi aspetti.

VT: Ha descritto in passato l’apparenza fisica di Leonid a quella di un cosacco modernizzato. Pamfir-Leonid è in qualche modo l’incarnazione di un cosacco antico che vive nella vita moderna? Si può interpretare Pamfir come una sorta di poema eroico o una sovversione del genere?

DS: L’apparenza di Leonid è un nesso con i cosacchi antichi e con suo padre, da cui eredita un comportamento tradizionale. Pur non avendo avuto un buon rapporto con il padre, Leonid vuole assomigliargli. In Leonid c’è un dualismo tra l’essere un padre e un figlio, dato che oltre ad essere il figlio di Pamfir è il padre di Nazar. Il film può essere visto come un poema eroico o una fiaba per adulti, un mito. Tuttavia, per me tratta anche la metafisica della nascita del personaggio mitico, originario di un piccolo luogo. Può essere visto come una ballata che nasce tra le montagne ucraine, ma è più una novella sui rapporti all’interno di una famiglia, gli effetti collaterali dell’amore incondizionato. Se descriviamo la storia in modo molto arido si tratta di una storia triste, in cui però notiamo un’atmosfera calorosa, l’equilibrio nella vita umana della gioia con il dolore.

VT: L’uso di droghe da parte di Leonid ha un aspetto rituale? Ad esempio, prima della scena del contrabbando?

DS: Quando decide di coinvolgere il fratello e i due gemelli ne è responsabile, quello che vediamo è più un anti-rituale, perché qui diventano criminali ed è un punto di non ritorno. Mi piace pensarlo come il momento delle favole in cui il personaggio entra nella foresta buia. Prendere delle droghe per gli altri tre è come entrare in quest’oscurità, è il primo passo.

VT: Spesso nel cinema ucraino si riscontrano piani sequenza lunghi ma anche molto statici, mentre in Pamfir c’è una dinamicità continua del movimento. Così anche la palette di colori è molto vivace, invece spesso in altri film come, ad esempio, in Valentyn Vasjanovyč i colori sono desaturati e sottotono. Si è trattato di una rottura intenzionale con queste forme di cinema?

DS: Valentyn Vasjanovyč o anche The Tribe di Myroslav Slabošpyc’kyj sono grandi esempi di interpretazioni della realtà concentrati su questioni diverse. Non direi che quello stile sia una norma in Ucraina, sono un paio di buoni esempi che hanno avuto un successo internazionale. Nel mio caso pensavo all’idea di rendere un film simile a un dipinto. Nel mio cortometraggio Štanhist (Weightlifter, 2018) abbiamo optato per un film statico, con bassi livelli di colore per trasmettere la monotonia e la semplicità del personaggio. In Pamfir c’è l’opposto, la vita molto vivace di un personaggio, ci sono molte tonalità. Eccetto per alcune scene di dialogo, ho immaginato di dover muovere la macchina da presa di continuo con il personaggio. Nel film ci sono solo tre inquadrature statiche. È stata una sfida per la troupe, ma il direttore della fotografia Mykyta Kuz’menko e i produttori hanno capito cosa volessi fare, per quanto ciò fosse qualcosa di inusuale. È stata necessaria tanta preparazione, potevamo riprendere solo due o tre scene al giorno lungo i trentasette giorni di lavorazione. L’idea era di essere dentro questo tunnel attraverso tutte queste situazioni, incarnando quasi un altro partecipante della storia.

VT: Nel cast di Pamfir ci sono professionisti e non professionisti, com’è avvenuta la preparazione e quali difficoltà ci sono state?

DS: Il cast principale era professionista. Nazar era l’unico non professionista dei protagonisti. È stato un piacere lavorare con loro perché abbiamo potuto costruire insieme i personaggi. Nel caso dei non professionisti si trattava di ruoli secondari ed era facile lavorare con loro, mi bastava sapere cosa aspettarmi da loro. Per i professionisti, la persona poteva essere molto diversa da come mi immaginavo il personaggio, ma la chimica ha permesso di creare tutto ciò di cui avevo bisogno. Per la preparazione abbiamo trascorso due mesi in montagna, insieme, per ventiquattr’ore e sette giorni su sette. Ogni cena o passeggiata era una prova, creavamo la famiglia, gli attori imparavano il dialetto.

VT: Che elementi stilistici di Pamfir vuole mantenere per i suoi futuri film?

DS: Ritengo che l’estetica sia stata importante per questo progetto nello specifico, per mostrare la storia attraverso dei piani sequenza, attraverso una progressione di episodi, in cui ogni episodio è una tappa viaggio come una tessera del domino, passo dopo passo. Manterrò sicuramente qualcosa per altri progetti, mi piace ancora il piano sequenza, ma probabilmente non farei un altro film composto solo da piani sequenza. In Pamfir la componente estetica è stata necessaria per la drammaturgia. Secondo me la drammaturgia non deve mai essere schiava dell’estetica. Devo ancora vedere che storia racconterò, sto pensando sia al soggetto che alla sfida artistica che ne nascerà.

VT: Sta già girando per i festival un successivo cortometraggio,Liturhija protytankovych pereškod” (Liturgy of Anti-Tank Obstacles, 2022), su scultori di figure sacre che costruiscono ostacoli contro i carri armati. Può spiegare come ha collegato la spiritualità agli eventi attuali?

DS: Si tratta di un progetto speciale iniziato durante la guerra. Quando ho trovato la storia ho subito visto le statue nelle officine e ho notato che gli ostacoli per i carri, visti da una certa angolazione, assomigliavano a croci. Il paradosso che vedevo in queste persone era che costruivano due tipi di protezione: le statue che proteggono nella vita spirituale e le protezioni in metallo che difendono da una minaccia più concreta. Quando ho visto il paradosso e fatto il film ho ricevuto supporto da New York perché era un progetto molto sperimentale, privo di parole e dialoghi. Attraverso l’osservazione abbiamo creato questa storia universale a livello nazionale, in quanto ciò che facevano loro è quello che cerca di fare chiunque nello stato, di aiutare. Quindi quello che ho potuto fare è stato un contributo minimo, una goccia che potevo dare attraverso il mio lavoro: raccontare questa storia, di come siamo uniti contro il nostro nemico in questa guerra e in che modo quest’unione ci può permettere di vincere il prima possibile.