Il contributo fondamentale delle agenzie statali. Intervista a Marysja Nikitjuk

Intervista a cura di Massimo Tria

Traduzione dall’ucraino di Francesca Lazzarin

 

MT: Come è nato il tuo interesse per il cinema? È vero che parli l’italiano?

MN: Sì, parlo l’italiano. Quando ero piccola ho vissuto in Italia, imparando la lingua. Ho una mia “famiglia italiana” a Pietramontecorvino, in Puglia: il mio papà italiano Giovanni, la mia mamma italiana Lidia e i miei fratelli italiani Nico e Marianna. Voglio loro molto bene e ci sentiamo ancora. Sono stati di grande supporto a me e alla mia famiglia nei primi terribili mesi dell’invasione russa dell’Ucraina.

Il cinema è stato un caso: sai, le vie tortuose della provvidenza… Da quando avevo tredici anni sognavo di fare la scrittrice, scrivevo prosa e poesia, pubblicavo. Ma mia madre voleva che studiassi qualcosa di “normale”. Ho scelto il giornalismo, la specializzazione più vicina alla scrittura. Dal giornalismo sono passata alla critica teatrale e mi sono laureata a un’ulteriore università: quindi prima all’Università Nazionale “Taras Ševčenko” di Kyїv, e poi all’Università di Teatro, Cinema e Televisione “Karpenko-Karyj”. Ho lavorato sei anni come critica teatrale, viaggiando tra vari festival in tutto il mondo. A suo tempo mi impressionarono i lavori di Romeo Castellucci: il mio preferito era la tragedia esistenziale e minimalista Sul concetto di volto nel figlio di Dio.

Poi ho iniziato a scrivere pièce, e con la regista e drammaturga Natalka Vorožbyt e il regista teatrale Andrij Maj ho organizzato per alcuni anni il festival “La settimana della nuova pièce”. Poi ho lasciato il teatro e sono caduta in depressione, e lì mi ha trovata il regista Volodymyr Tychyj, che formava una squadra di sceneggiatori per girare una silloge di cortometraggi, Ukraїno, Goodbye! (Goodbye Ukraine, 2012) – la situazione degli sceneggiatori era difficile, quasi tutti rovinati dalla produzione di serie. Questa compagnia era una fantastica “società segreta” le cui parole d’ordine erano libertà e creatività: scrivemmo dei corti sul perché gli ucraini emigrassero all’estero. Davvero un anno divertente, e all’epoca sono successe tante cose importanti per il cinema ucraino. Le mie sceneggiature sono piaciute a molti e ho pensato che fosse il posto dove volevo rimanere: diventai regista già tre anni dopo, perché i film basati sulle mie sceneggiature non venivano girati come me li immaginavo. Dopo il primo cortometraggio che ho girato mi sono innamorata del lavoro del regista: indiavolato, estenuante, appassionante e ingrato.

 

MT: Il tuo film Koly padajut’ dereva (When the Trees Fall, 2018) ha avuto un notevole successo alla Berlinale. Dodomu (Homeward, 2019) di Nariman Alijev, di cui sei co-sceneggiatrice, ha avuto un successo analogo a Cannes… dopo, la tua vita e il tuo lavoro sono cambiati?

MN: In Ucraina succedono talmente tante cose, soprattutto negli ultimi tempi, che è difficile dire se la mia vita sia cambiata dopo quei due film, anche se di certo hanno contribuito a rafforzare la mia posizione professionale di sceneggiatrice e di regista. E nel novembre 2022, al festival “Black Nights” di Tallinn, ci sarà la prima del mio secondo lungometraggio Ja, Nina (Lucky girl, 2022), nel concorso principale.

MT: Esiste una “nuova ondata” nel cinema ucraino successivo al 2014? Che ruolo hanno avuto lo Stato, o l’Agenzia Statale Ucraina per il Cinema?

MN: Sono convinta che si tratti davvero di una nuova ondata. I suoi “patriarchi” sono, probabilmente, Slabošpyc’kyj e Vasjanovyč. Noi siamo la generazione più giovane: Kateryna Hornostaj, Filip Sotnyčenko, io, Nariman Alijev, Marina Stepans’ka, Alina Horlova, Dmytro Sucholytkyj-Sobčuk, Antonio Lukič, Iryna Cilyk… Con l’indipendenza dell’Ucraina nel 1991 le istituzioni cinematografiche sovietiche, già boccheggianti, hanno cessato di esistere. L’Ucraina ha vissuto il passaggio dal comunismo, con le sue leggi retrograde, al capitalismo. E questo passaggio è stato spietato, un po’ come il Far West. Anche qui c’erano i nostri sceriffi, gli indiani, i banditi, i cercatori d’oro e i truffatori. Gli anni ’90 sono stati, per l’Ucraina, una sorta di paese delle meraviglie insanguinato. E a quei tempi nessuno pensava a finanziare film: perché farlo, quando puoi rapinare una banca o una diligenza? Anche l’industria cinematografica, dunque, ha di fatto cessato di esistere. Le persone sono passate a quei tipi di contenuti che non portavano utili culturali, ma soldi: pubblicità e serie TV.

Prima del 2011 in Ucraina era un miracolo se giravano un film all’anno. Ma nel 2011 è stato creato il Fondo per il finanziamento del cinema all’interno dell’Agenzia Statale Ucraina per il Cinema, simile ad analoghi fondi statali per il supporto delle cinematografie nazionali europee. Ciò ha spinto Volodymyr Tychyj e i produttori Ihor Savyčenko e Denys Ivanov ad avviare il progetto Goodbye, Ukraine. E io e altri giovani siamo potuti entrare nel mondo del cinema. C’erano possibilità di finanziamento minime, ma questo ha stimolato tutti a cercare due figure che nel cinema sono importantissime: lo sceneggiatore e il regista (allora in Ucraina quelle professioni avevano di fatto cessato di esistere a livello artistico). Presso il Fondo hanno persino creato la voce “Debutto” per i registi appena usciti dalle accademie di cinema. E già verso il 2018 la quantità ha iniziato ad evolversi in qualità. Prima il processo della produzione era piuttosto triviale, nel migliore dei casi ci volevano tre anni per sviluppare un film. Quindi ciò che abbiamo al momento attuale, ovvero dei nomi di registi giovani e maturi che si sono fatti notare in festival di Classe A, è il risultato del lavoro ininterrotto dell’industria cinematografica grazie all’Agenzia Statale Ucraina per il Cinema a partire dal 2011.

Ora, però, sono in corso dei processi assolutamente negativi all’interno dell’Agenzia. Certo, al momento abbiamo un problema più grave, cioè la Russia e i suoi missili nella nostra terra. Ma comunque va detto che le assurde decisioni dirigenziali del governo in ambito cinematografico, le altrettanto assurde decisioni della stessa Agenzia riguardo al Centro Dovženko e altre mosse poco professionali potrebbero distruggere le conquiste dell’ultimo decennio, cioè proprio la nuova ondata ucraina.

 

MT: Dov’eri durante il Majdan… e dov’eri il 24 febbraio 2022? Cos’hai fatto dopo?

MN: Il giorno prima del pestaggio degli studenti sul Majdan ero al mio primo festival internazionale di cinema, il “Black Nights” di Tallinn. Partecipai per la prima volta a degli incontri industry con il mio progetto che sarebbe diventato When the Trees Fall. Sono tornata nel giorno del pestaggio, e con i miei amici sono andata subito sul Majdan, dove era tutto tranquillo. Ma già la mattina dopo ci siamo svegliati in un’altra realtà. Dopo il pestaggio notturno degli studenti pensammo: non si può fare così con noi, con gli ucraini e in generale con delle persone! Sono di Kyїv, così sono andata al Majdan ogni giorno, rientrando a casa solo per dormire. Sul Majdan non avevamo paura: c’erano così tante persone forti, piene di speranza nel cambiamento. Era un isolotto di luce, ma bastava uscire da quel cerchio magico di bontà per sentire fisicamente le tenebre avvicinarsi. Allora non potevo immaginare quanto fossero impenetrabili quelle tenebre. La maggior parte degli ucraini, credo, non ha capito contro quale male ontologico avessimo vinto sul Majdan, e non tutti potevano figurarsi che questo male sarebbe tornato a Mariupol’, Buča o Hostomel’ nel 2022…

La cosa più sorprendente è che nel febbraio del 2014 preparavo con una troupe le riprese del mio primo cortometraggio, V derevach (In Trees, 2014). C’era questa alternanza: alcuni giorni sul Majdan, un giorno di prove, e poi di nuovo in piazza. Le riprese si svolgevano ai Giardini Petrušes’kyj, in provincia di Kyїv, lì accanto c’è un aeroporto e tutto il tempo vedevamo gli aerei militari. Scherzavamo sul fatto che sarebbe stato il mio primo film… e anche il mio film postumo. E quando finalmente abbiamo concluso le riprese, è iniziata la primavera e insieme a lei l’invasione russa di Crimea e Donbas. Dalle preoccupazioni per la guerra sanguinosa appena cominciata è nato il mio successivo corto, Mandragola (Mandrake, 2015), una storia mistico-esistenziale sulla sindrome post-traumatica di una ragazza il cui fidanzato è morto in guerra, anche se lei non ci crede. D’altronde, era davvero difficile anche credere a quello che era successo nel 2014. Come si può attaccare un paese sovrano e indipendente nel XXI secolo? Ma, in realtà, avevo semplicemente dimenticato che la Russia cerca di distruggere l’Ucraina già da 400 anni. In Europa pochi capiscono che si tratta di una guerra con dei nomadi ai confini del mondo civilizzato. L’Ucraina è un paese che costituisce il confine dell’Europa e della civiltà occidentale. È l’erede diretta della democratica Rus’ di Kyїv, mentre la Russia è l’erede dei nomadi delle steppe asiatiche, dell’Orda mongola, e per tutto questo tempo si è solo camuffata con successo. Certo, ciò che ha sempre affascinato gli europei nei russi è la loro produzione artistica, ma si tratta di pure tenebre prive di luce. Dunque, il conflitto tra Russia e Ucraina è uno scontro di civiltà, dove per ironia del destino noi ci siamo ritrovati in prima linea.

Il 24 febbraio alle 4.20 di mattina mi hanno svegliata le esplosioni fuori dalla mia finestra, cosa che non auguro a nessuno. Per alcuni secondi ho pensato che fosse qualche idiota che aveva fatto esplodere dei petardi, ma quegli idioti erano i russi, che ci hanno lanciato addosso i loro “petardi” balistici Cruise, forse per avvisarci, in modo che preparassimo in tempo i fiori per accoglierli. E noi glieli abbiamo preparati: Javelin, Stinger, Stugna, ecco i mazzi di fiori appositamente predisposti per gli invasori e i conquistatori.

Più tardi mi sono riunita con degli amici agli studi cinematografici Dovženko e abbiamo cercato di decidere cosa fare. Siamo usciti dalla città in direzione del villaggio di Smiga, nella regione di Rivne. Lì ho trascorso la parte più orribile di febbraio e marzo. Ho aiutato a cercare equipaggiamento all’estero, perché nel giro della prima settimana in Ucraina avevano già esaurito tutto. Aiutavamo chi fuggiva da Kyїv o da altre città, chi aveva bisogno di un posto dove dormire. Nel primo mese ho scritto molti appelli e post in cui invitavo i russi a fermare i loro leader, o chiedevo a chi mi leggeva dall’estero di aiutare a salvare l’Ucraina. Il primo mese è stato il più brutto.

Le riprese durante la guerra? In larga parte si tratta di documentari. Il corto di Dmytro Sucholytkyj-Sobčuk sugli scultori kieviani che hanno iniziato a fondere barriere anticarro sta circolando ai festival (Sarajevo, Toronto…). Julija Hontaruk, Juryj Hruzinov, Marina Stepans’ka e molti altri adesso girano documentari in diversi luoghi dell’Ucraina e al fronte. Inoltre, molti tra quelli che combattono riprendono loro stessi la realtà che li circonda; questa è la guerra più ricca di testimonianze video nella storia dell’umanità. Anche se è molto pericoloso: un gran numero di cameraman, giornalisti e registi sono già stati uccisi e torturati dai russi. Per esempio, il lituano Mantas Kvedaravičius, che girava a Mariupol’, è morto.

Ma qualcuno riesce anche a girare film di fiction: per ora solo cortometraggi, per esempio Novruz Hikmet e Olena Podoljanko hanno girato Poky tut tycho (It is Quiet Here, 2022). Ma, ovviamente, finché sussiste la minaccia di attacchi missilistici, girare lungometraggi a pieno regime sembra impossibile. Magari passeremo a fare riprese “partigiane”, e allora ci sarà un cinema completamente diverso.

MT: Arte e guerra, o guerra e arte? Qual è la prima cosa che ti viene in mente?

MN: Il film di Ėlem Klimov Idi i smotri (Va e vedi, 1985). È un cinema tremendamente bello, e una guerra di sterminio, non romantizzata, la realtà è proprio così, e pure peggio.

Ma l’arte accompagna una parte dell’umanità sempre e ovunque: è un modo di interpretare la realtà. Ci sono persone che agiscono d’istinto e affrontano con facilità qualsiasi situazione, reagendovi direttamente, della serie: colpisci/scappa/bloccati. E ci sono persone che sfruttano il meccanismo della sublimazione per abbracciare la realtà circostante e scaricare parte della tensione dalla propria psiche. Dunque capisco bene come ora al fronte ucraino ci siano ragazzi e ragazze con questi o quei pattern comportamentali. Alcuni per me sono artisti nella guerra, nella vita o in sé e per sé, mentre altri possono creare opere d’arte sulla guerra con storie, video, foto, post di Facebook. Io per esempio leggo i testi che scrive il prosatore ucraino Artem Čech e non riesco a liberarmi dalla sensazione di star leggendo un malinconico mix di Remarque e Céline.


MT: Cosa farai quando la guerra finirà e gli occupanti russi lasceranno la terra ucraina?

MN: Cerco di fare quello che ho sempre fatto e che amo fare, nonostante tutto: scrivere, creare storie e, forse, riprendere a girarle con la macchina da presa prima o poi.

Ora sto lavorando alla sceneggiatura di Cvit vyšni (t. lett. Il fiore di ciliegio), film sull’incontro di alcuni migranti ucraini provenienti dai territori occupati nell’est del paese con una psicologa bosniaca dell’UNICEF arrivata per aiutare i bambini. La guerra non si è mai fermata, ricompare continuamente ora qui, ora lì, segnando in modo irreversibile intere generazioni.

Ho anche un’altra idea, ma per realizzarla è necessario raccogliere informazioni al fronte. Se ce la farò, te ne parlerò senz’altro. Purtroppo i russi qui hanno provocato un tale disastro che basterebbe per alcune vite di lavoro su film dedicati alla psicoanalisi collettiva. Perciò, quando la guerra sarà finita e gli invasori russi avranno lasciato la mia terra, continuerò a girare film.