Dyke pole (The Wild Fields) di Jaroslav Lodygin

Martina Mecco

 

Regia: Jaroslav Lodygin

 

Sceneggiatura: Serhij Žadan, Jaroslav Lodygin, Natalija Vorožbyt

Fotografia: Sergej Michal’čuk

Montaggio: Oleksandr Čornyj, Denis Žacharov

Produttore: Volodymyr Jacenko, Miklós Gimes

Produzione: LIMELITE, Film Brut

Distribuzione: MMD

Origine: Ucraina, Paesi Bassi, Svizzera

Lingua: Ucraino, Russo, Suržyk

Durata: 118’

Genere: Drammatico

 

Link al Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=uRWAEtmuIrA

 

Jaroslav Lodygin (1987 -) è regista e sceneggiatore ucraino. Famoso per l’adattamento di “Vološylovhrad”, è divenuto membro, nel 2019, dell’Accademia europea del cinema (EFA). Nel 2021 ha collaborato alla serie “Kolaps. Jak ukraїnci zrujnuvali imperiju zla” (Collapse: how Ukrainians destroyed the evil empire).

 

Trama: Il giovane Herman si ritrova a dover lasciare la città in cui vive per far ritorno nella sua città d’origine dopo l’imprevista scomparsa del fratello. Ad attenderlo un passato da tempo ignorato e, soprattutto, incontri inaspettati che porteranno il protagonista a dover prendere decisioni sofferte e particolarmente complesse. Un viaggio all’insegna della riscoperta e del recupero delle proprie origini nelle terre del Donbas.

 

Interpreti:

Oleh Moskalenko – Herman

Volodymyr Jamnenko – Koča

Oleksij Horbunov – Pastore

Ruslana Chazipova – Olja

 


Presentato per la prima volta al festival “Black Nights” di Tallinn, a otto anni dalla pubblicazione del romanzo di Serhij Žadan Vorošylovhrad – in italiano pubblicato da Voland con il titolo La strada del Donbas –, The Wild Fields vede Jaroslav Lodygin impegnato nel suo primo lungometraggio, basato sulla sceneggiatura di Natalija Vorožbyt, regista a sua volta di Bad Roads. L’immagine del Donbas che emerge nel film è ben diversa da quella in cui si presenta, nel 2018, la regione ucraina. Ancor più straniante per lo spettatore contemporaneo, in quanto l’azione si svolge in un periodo antecedente allo scoppio di un conflitto che l’escalation degli ultimi mesi ha esteso su tutto il territorio nazionale.

Lo squillo di un telefono. Herman, il trentenne protagonista della pellicola, si ritrova in modo del tutto imprevisto obbligato a lasciare temporaneamente la città in cui si è trasferito per far ritorno nel nord del Donbas. Il ritorno a casa, che viene definito come un “viaggio in un’unica direzione” da cui non ci parrebbe esserci alcun ritorno, è dovuto al fatto che il fratello si sarebbe volatilizzato nel nulla, lasciando incustodita la sua stazione di rifornimento. Sin dalle prime scene appare chiaro come il viaggio di Herman si prefigura non solo come un movimento spaziale, bensì anche temporale. Tornare a casa implica necessariamente dover tornare a fare i conti con un passato che, come comprende bene anche l’assonnato conducente della maršrutka, spaventa non poco il protagonista. Difatti, il passato ingloba Herman, trascinandolo in questioni di diversa natura rispetto a quelle prettamente legate al “business”, per portarlo ad altre di carattere sentimentale, dove la figura di Olja rappresenta in un certo senso la sintesi delle due. Quest’ultima si contrappone per il suo temperamento forte e deciso, laddove Herman presenta invece segni di spaesamento e fragilità. Si tratta di un continuo susseguirsi di incontri coi diversi personaggi, reali e immaginari, che popolano le campagne del Donbas. Ad essere rappresentato nel film è un microcosmo di volti e voci diverse – non a caso oltre all’ucraino vengono impiegati anche il russo e il suržyk.

A dominare tutta quanta l’opera è la dimensione del viaggio, strettamente connessa a quella che è l’ambientazione prediletta: la strada, di cui la stazione di rifornimento è certamente il punto nevralgico attorno a cui essenzialmente ruota tutta l’azione. Herman si trova a viaggiare in maršrutka, in auto, in motorino e persino su un treno “blindato” alla Trockij. Difficile immaginare una resa più esplicita del concetto di movimento. Molte delle scene centrali del film si svolgono infatti all’interno di una vettura. Un esempio è la nottata passata in mezzo ai campi con Koča, durante la quale Herman ha addirittura una visione paranormale causata, in parte, dalle pastiglie per il sonno offerte dall’amico. A fare da contrappeso alla dimensione “artificiale” del mezzo di trasporto si hanno ampie inquadrature che celebrano la natura del Donbas. Una scelta di Lodygin tutt’altro che arbitraria, in quanto la rappresentazione della natura e la predilezione per le descrizioni paesaggistiche sono due caratteristiche che ritornano spesso nella prosa di Žadan.

A conti fatti, il film presenta due grandi pregi. Il primo è quello di essere senza dubbio un’ottima trasposizione del romanzo di partenza, soprattutto per quanto concerne le soluzioni adottate sul piano dell’ambientazione. Il secondo risiede nel fatto che il regista riesce a rendere, attraverso l’uso del primo piano e di inquadrature ravvicinate, un senso di drammaticità che accompagna tutta la vicenda. Non manca, tuttavia, una ricca presenza di elementi ironici che contribuiscono a rendere il prodotto nel suo complesso particolarmente godibile, seppur siano segnati da una sottile amarezza. Per quanto concerne, invece, il finale è possibile forse muovere qualche critica, non tanto per lo svolgersi dell’ultima scena in cui è presente Herman, quanto per la scelta di congedarsi dalla sua figura con forse troppa rapidità. Tuttavia, nelle battute conclusive nulla impedisce di comprendere che il protagonista, arricchito dalle numerose vicende e segnato dal susseguirsi di momenti drammatici, giunge ad una nuova e piena consapevolezza: quella di appartenere al Donbas.

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