Essere gay nella Cecenia di Kadyrov: un monologo

Martina Mecco

 

L’articolo “Vy ego ub’ete ili my ego ub’em. Vybirajte, čto lučše” Monolog gomoseksuala, sbežavšego iz Čečni (“Lo ucciderete voi o lo uccideremo noi. Scegliete cos’è meglio. Monologo di un omosessuale fuggito dalla Cecenia”) di cui qui si riporta la traduzione è stato pubblicato il 16 aprile 2017 sulla testata russa online “Meduza”. Grazie a Elena Kostjučenko, importante giornalista e autrice di reportage che collabora con le maggiori testate russe indipendenti come “Novaja Gazeta”, è stata raccolta e trascritta la testimonianza di uno dellə numerosə omosessualə fuggitə alle persecuzioni dell’attuale Cecenia.

L’articolo originale è reperibile al link: https://meduza.io/feature/2017/04/16/vy-ego-ubiete-ili-my-ego-ubiem-vybirayte-chto-luchshe.

 

“Lo ucciderete voi o lo uccideremo noi. Scegliete cos’è meglio”.
Monologo di un omosessuale fuggito dalla Cecenia

Elena Kostjučenko

 

Il movimento “Rossijskaja LGBT-set’” [movimento per i diritti LGBTQ+ in Russia N.d.T.] sta cercando di aiutare gli omosessuali perseguitati in Cecenia. I collaboratori dell’organizzazione hanno istituito una hotline e stanno cercando di mandare le vittime all’estero, o perlomeno di portarle fuori dalla Cecenia. “Novaja Gazeta” [importante testata russa indipendente diretta da Dmitrij Muratov N.d.T.] ha referito della campagna contro i gay in un articolo del 1° aprile: secondo quanto riportato, nella repubblica sono state arrestate più di cento persone, tre sono state uccise; le autorità hanno rinchiuso le persone in carceri segrete e cercano di avere i contatti di altri omosessuali tramite la tortura. Il 13 aprile “Novaja Gazeta” ha rilasciato un appello in cui affermava che “dopo la pubblicazione sulla persecuzione dei gay, la redazione nutre serie preoccupazioni per l’incolumità non solo dei singoli giornalisti, ma anche di tutti i dipendenti, senza eccezioni”. “Meduza” pubblica un monologo di uno dei ceceni che ha chiesto aiuto all’organizzazione; lo ha riportato la giornalista Elena Kostjučenko.

Su richiesta della persona coinvolta, non riportiamo il suo nome; sono rimosse dal testo le informazioni che consentono di determinare la sua identità e posizione.

Valerij Šarifulin / TASS / Scanpix / LETA

Sono gay, non il tipo da sbandierarlo in giro. Nemmeno mia moglie lo sa. Ho un quarto figlio in arrivo. Ho molti parenti e nessuno sa che sono gay. Vivo una vita normale. Ma se avrò l’opportunità di incontrare qualcuno, non rifiuterò di certo. Ne ho bisogno. Non credo sia colpa mia. Forse è la natura, forse una malattia.

Da noi nella repubblica nessuno ha dei piercing, i capelli lunghi etc. Le persone non mostrano il loro orientamento in alcun modo. Vuoi dire che sono gay? Ce ne sono tanti altri… Molti hanno famiglia. Praticamente tutti ce l’hanno. Non mostriamo queste cose. Non esiste che metti la tua foto su un sito di incontri. Nessuno (dei gay del luogo) sa il nome dell’altro, dove lavora chi, dove vive chi. Tutti hanno soprannomi e questo crea delle difficoltà tra le persone. Cercano Musa, ma in realtà tu sei Said.

Lavoravo, e lavoravo bene, mi bastava per vivere, mi sentivo sicuro. Avevo un amico, anche lui gay. Lo vedevo raramente, davvero raramente. Avevamo un conoscente in comune. Non so cosa ci fosse tra loro due. Li conoscevo entrambi. Le persone vedevano che si erano avvicinati a me, che parlavamo. E poi questo conoscente in comune mi ha presentato un suo parente. E poi hanno catturato questo parente per qualche motivo e devono avergli spiato il telefono. Tra i suoi contatti hanno capito che il suo orientamento non era tradizionale. E così sono risaliti a me.

Il poliziotto mi ha chiamato: “Dove sei? Vestiti in fretta, arrivo subito.” Ho immediatamente buttato il telefono sullo scaffale e ne ho preso un altro dove non c’erano quei contatti. Stavo uscendo ma erano già sulla porta. In macchina mi hanno fatto abbassare affinché non vedessi dove stessimo andando. Mi sono subito reso conto che era proprio per questa cosa [l’omosessualità] che mi avevano preso. Hanno perquisito il telefono, non hanno trovato nulla.

Mi hanno portato nel seminterrato. Là le porte sono così spesse, umide. È stato molto difficile. Quel ragazzo, il parente di quell’uomo, era già lì. E invece lui [quel conoscente in comune] l’avevano rilasciato perché ci aveva traditi.

All’inizio ci hanno picchiato per qualche ora. Avevo un grave ematoma qui, mi hanno rotto le costole. Poi l’elettroshock. Una certa bobina speciale, delle mollette di ferro sulle orecchie o sulle mani e hanno iniziato. Ho sopportato. Moralmente è stato molto più doloroso. Dicono che se colpisci con un coltello la ferita si rimargina, ma se usi la parola mai. La mia psiche è stata distrutta. Stavano cercando il mio amico, non riuscivano a trovare il suo numero. Ho detto che conosco tutti solo di vista, come i vicini di casa, che ho una mia famiglia. Dico: se sono gay, porta un uomo che dica di essere stato con me. Giuro che non è vero. Ve lo giuro.

Il ragazzo che era stato portato via con me è un atleta, un belloccio. Un bravo ragazzo. Neanche lui si è arreso. Ha solo urlato molto forte. Gli urlo contro: almeno inventati qualcosa [qualcosa da dirgli], pensaci. Era molto sofferente.

Quel seminterrato aveva diverse stanze. Sentivi tutto ma non vedevi niente. Ci abbiamo trascorso una settimana. Non ci hanno dato da mangiare. Morivamo semplicemente di fame. Senza cibo né acqua. Avevamo il permesso di pregare. Vai in bagno, datti una sciacquata e bevi velocemente.

A Groznyj c’è un ragazzo che ci è particolarmente dentro. Tra i gay è conosciuto come un’icona di stile. Si veste sempre bene. E, naturalmente, le persone eterosessuali che lo vedono lo intuiscono [che è gay], ma non lo sanno per certo. E questo soldato che mi ha interrogato, a quanto pare, aveva indagato su di lui per molto tempo. Ma non c’erano delle prove. Allora lo hanno trovato e lo hanno portato. Si mettono a interrogarmi e poi lo stuzzicano. “Lo conosci?”. Ci si intravedeva a malapena. Dico: non lo conosco. E questo ragazzo ha sentito e ha capito che non avevo detto niente su di lui. E anche lui ha detto che non mi conosceva. Hanno iniziato a mentirgli: lui parla di te, del fatto che lo sei [gay]. E lui risponde: sì, ma manco lo conosco, come fa a essere mio amico? Allora non c’era modo di andare più a fondo ed è stato rilasciato. Ora è all’estero. Sono tutti fortunati che sia riuscito a partire. Non ha figli, vive la sua vita. E non sarebbe sopravvissuto a tali torture [e avrebbe potuto denunciare i suoi conoscenti gay].

Durante il periodo in cui siamo stati lì, in qualche modo hanno trovato l’indirizzo del mio amico. Sono stati a casa sua e i genitori han detto che era andato a Rostov. Loro stessi l’hanno chiamato. Ha immediatamente venduto la sua proprietà a metà prezzo ed è volato all’estero. Ci ha salvato. Siamo stati rilasciati dopo poco.

Mi hanno detto di non andarmene, per poter essere a loro disposizione in qualsiasi momento: “Non una parola con nessuno, resta a casa per essere contattato in qualunque momento”. Ma io e la mia famiglia stavamo per trasferirci. E, naturalmente, quando sono uscito ci siamo trasferiti. Ho iniziato a lavorare, a vivere una vita normale, piano piano tutto si è tranquillizzato, si è calmato. Solo che io mi ero tutto ingrigito, le persone per strada manco mi riconoscevano. 

Ho certi parenti… Se lo [avessero saputo], non avrebbero permesso che mi uccidessero, mi avrebbero ucciso loro. Non sopporterebbero una tale disgrazia su di loro. Sapevano che mi avevano arrestato ma non sapevano per cosa. Hanno chiesto spiegazioni al poliziotto [che mi aveva arrestato] e anche lui: mi hanno detto di prenderlo, non so niente. I parenti si lamentavano: non fuma, non bene, non crea problemi, non fa nulla. E un poliziotto ha detto: girava voce fosse gay. [I parenti hanno risposto]: “macché gay, ha famiglia, non può.” E allora non mi hanno più cercato. [I parenti hanno deciso che] stando così le cose, avrebbero aspettato. Tornato a casa, ho detto: “Cercavano un uomo, ma io lo conosco, volevano trovarlo grazie a me.” Poi un parente mi ha preso da parte e mi ha detto: “Girava una certa voce su di te, sono quasi morto di vergogna.” Io: “Non è vero, mica sono gay, mi conosci perfettamente, sono tutte sciocchezze.”

E proprio allora è iniziata un’ondata [di detenzione dei gay]. Come è successo? Nella repubblica è sorta una tale mania… Beh, che mania? Era vietato bere vodka. L’alcol era quasi impossibile da acquistare – in due o tre posti per un massimo di qualche ora. Tutti sono passati alle pillole: “lyrica”, “tropici”, psicotropi. Molti ne sono diventati dipendenti. E a causa di queste pillole hanno preso un ragazzo. Hanno ovviamente confiscato il telefono per scavare più a fondo: ehm… sono apparsi Hornet e delle foto. Su questa scia hanno iniziato a prendere tutti. Che razza di guaio ha fatto scoppiare questa coincidenza.

A Cocin-jurt le persone venivano tenute in un vecchio reggimento, vicino al ponte [si parla dell’edificio in Via Kadyrov nell’area del ponte automobilistico sul fiume Khulhulau N.d.E.]. Lo so per certo. Un mio parente lavora là. Non sa che sono uno di loro. Chiama e dice: “Cosa stai facendo? ***, immagina un po’ quanti gay abbiamo in Cecenia!” Io dico: ma dove li hai mai visti i gay in Cecenia? “Ci sono ci sono, pare che siano state portate 200 persone. Ci sta pure questo qui.” E dice il nome di una celebrità. “Seh, non può essere”. “Sì, li hanno portati, ti dico. Ci hanno dato la piena autorità di braccarli [in russo il verbo vylavlivat’ rimanda alla caccia e alla pesca e viene impiegato anche per indicare le imboscate inflitte alla comunità omosessuale N.d.T.]”. Chiedo: per quale ragione? “Per metterli in imbarazzo. Chiamano i loro parenti, accendono la telecamera: beh, il vostro uomo è così, prendete delle misure per lui. Lo faremo noi o lo farete voi. Lo ucciderete voi o lo uccideremo noi. Scegliete voi cosa è meglio”. E li filmano, probabilmente affinché ci siano delle prove.

Poi ne hanno portato via uno che conoscevo. Gli hanno permesso di tornare a casa e il giorno successivo ci è morto, a casa. Conosco i nomi di quelli che sono stati uccisi dai parenti. Anche un ragazzo che veniva o dalla Polonia o dalla Germania, lui poteva andare e venire liberamente. Uno a posto. È venuto nella repubblica e hanno catturato pure lui. Trattenuto per 40 giorni. Quando è uscito aveva le gambe nere.

Perché io sono scappato da lì? Una ex vicina ha chiamato: erano venuti dei militari, avevano bussato, mi stavano cercando. Ha mentito dicendogli che non sapeva dove ci fossimo trasferiti. E il giorno stesso hanno preso il mio amico. Lo hanno rilasciato quasi immediatamente: non cercavano lui. Ma ha sentito che tra loro facevano il mio nome: ora andiamo a cercare quest’altro. Mi ha chiamato: nasconditi, sparisci, vengono a prenderti.

Ero spaventato, ho cominciato a correre da un conoscente all’altro, mi ero agitato. Non mi fidavo di nessuno. Solo un amico mi ha convinto dell’esistenza di questa forma di aiuto [la hotline della Rossijskaja LGBT-set’ N.d.E.]. Sebbene ne avessi sentito parlare anche io da altre persone, non mi fidavo. Tutto ha un prezzo, e io ho una famiglia. Non devo vivere per il mio bene, ma per il bene della mia famiglia: ho dei figli, non posso correre rischi. Ma ho seguito i consigli, mi sono fidato di un amico ed eccomi qui. I miei genitori non sanno dove io sia. Non l’ho detto nemmeno a mia moglie. Le ho mentito dicendo che un amico mi ha offerto un lavoro. Mi ha detto: se è così buono lì, vacci.

Ho da poco iniziato a tornare in me, assumo glicina, ogni sorta di pillole. Lasciamo perdere: mi hanno picchiato, sia pure. Ma moralmente… Là mi hanno ucciso moralmente. Se non fosse peccato impiccarmi, mi sarei già impiccato. Dormo e mi sveglio per la paura. Esco in strada, mi sembra sempre di essere seguito. Ho paura del telefono. Un’auto si ferma e la evito. Non voglio nemmeno vivere a Mosca. Loro sono ovunque.

Non ho lasciato tracce. Adesso vado dove nessuno sa, non so cosa ne sarà di me. So solo una cosa: se mi trasferisco, mi sistemerò e porterò la mia famiglia. E non solo i miei figli, ma nemmeno i miei nipoti andranno in Cecenia. Finché sarò vivo, non li lascerò andare lì. Ho paura per loro. So quanto i miei figli sono legati [a me]. Mia figlia non va a letto quando io non ci sono. Sta piangendo, capisce? E non posso andare a casa adesso.

Perché a me? Voglio una vita tranquilla, come tutte le persone. Lavorare. Bere, mangiare. Pagare le tasse. Non ho violato nessuno, non ho chiesto niente a nessuno. Ho lavorato tutta la vita, mi sono solo reso utile. Non è colpa mia se sono gay. Non tengo parate gay contro la loro volontà. E se una persona si trova in questa situazione, non penso ci sia bisogno di ucciderla. Non serve ostentarlo. Dobbiamo aiutare in qualche modo. Magari serve un ricovero in ospedale. Forse c’è una cura. O bisogna scenderci a patti.

Apparato iconografico:

Immagine di copertina e Immagine 1: Valerij Šarifulin / TASS / Scanpix / LETA