Frattura fàtica come frattura della Storia: alterazioni orrorifiche in “Jaz” di Darko Tuševljaković

Marco Biasio

 

Due personaggi eccentricamente agghindati – uno in completo e occhiali da sole; l’altro in pigiama, sciarpa e coppola con pompon – si aggirano, in un gelido mattino invernale, per un campo innevato. Da sparsi interventi di cui è punteggiata la loro personale, logorroica tenzone dialogica sembrerebbe di capire che il secondo sia un paziente di lungo corso del primo, del quale è (platonicamente?) infatuato e che cerca di impressionare in ogni modo con il suo maniacale attaccamento filiale: ma è proprio lo psicanalista, dei due, a lavarsi i denti in un bicchiere colmo di succo d’uva, a rivendicare rumorosamente il suo allontanamento da una civiltà che non ne ha riconosciuto lo status cripto-principesco, addirittura a rifiutare l’apertura di ogni canale comunicativo con l’interlocutore (“communication was the original sin”) per allontanare da sé ogni possibile rischio di transfert. È in questa logorante partita di attrazione e repulsione bipolare che si consuma la grottesca pièce a due con cui esordisce nel mondo della cinematografia l’allora ventitreenne David Cronenberg: in anticipo di quasi dieci anni sul successo di Shivers (1975), che ne introduce ad un pubblico più ampio i fondamenti tematici di un’intera carriera, già Transfer (1966), captando le vibrazioni degli spiriti filosofici del proprio tempo, indugia sulla prominenza assoluta della sfera sessuale nel diapason espressivo dell’essere umano, sul dominio della mente e sull’incondizionato rigetto delle ambiguità pragmatiche e della vaghezza referenziale insita nel linguaggio naturale. Tutto si riduce ad una triade ogdeniana governata dalla pulsione attrattiva, il cui carattere concettuale, ancor prima che reificato esteriormente, è dato come alternativa semiotica ad ogni discorso compiutamente verbale o anche solo glossolalico: una frattura biologica in cui le distinzioni concettuali fra umano e artificiale, paradigma estetico e sua contaminazione, virus biologico e mentalistico, linguaggio e afasia perdono di senso, plasmando il superorganismo della tecnocontemporaneità.

La frattura biologica è frattura dell’individuo, la frattura fàtica è frattura della Storia: lo spaziotempo della frattura non è né uno spazio, né tantomeno un tempo, ma è qualcosa che va oltre l’una e l’altra dimensione. Meditate che questo è stato: e non nel passato remoto o prossimo, ma continuamente, tutti i giorni, in un flusso pressoché indistinguibile. Dottore e paziente legati da segreti inconfessabili sono l’esatto negativo di coppie belgradesi di mezz’età in piena crisi esistenziale: un appezzamento incolto dell’Ontario può diventare il riflesso distorto di Kosovo polje, la piana in cui il sogno ideologico di un capitano dell’esercito in pensione va a morire ogni volta che la Terra compie una rotazione attorno a sé stessa. Sono legate dalle medesime ambizioni universalistiche, rimpallate senza fine da un labirinto di specchi convessi, le molteplici fratture che innervano il tessuto narrativo di Jaz (“La frattura”, 2016), l’acclamato secondo romanzo lungo di Darko Tuševljaković (1978) giunto in traduzione italiana per Voland nella seconda parte del 2019, che nei primi due anni dalla sua uscita è stato dapprima candidato a finalista del premio NIN (2016) e in seguito vincitore del premio dell’Unione Europea per la letteratura (2017). Ambizioni universalistiche, si diceva, piuttosto interessanti per un autore che, da un punto di vista squisitamente denotativo, bisognerebbe ascrivere alla letteratura bosniaca, in compagnia di nomi di lusso come, ad esempio, i sarajevesi Aleksandar Hemon (1964 -) e Miljenko Jergović (1966 -) o le nuove promesse delle generazioni successive e a lui coeve, come l’Ivica Đikić (1977 -) di Cirkus Columbia (2003). Per chi avesse anche solo un po’ di familiarità con la narrativa serba e croata contemporanea, tuttavia, i modelli formali e stilistici della prosa affilata di Tuševljaković non potranno non essere ricondotti alla lezione di penne illustri della prosa balcanica inter- e postbellica come Dušan Veličković (1947 -), il Filip David (1940 -) di Hodočasnici neba i zemlje (“Pellegrini del cielo e della terra”, 1995) e, soprattutto, il David Albahari (1948 -) delle allucinazioni postbelliche di Mrak (“Il buio”, 1997) e – in misura minore – del realismo magico borgesiano di Pijavice (“Sanguisughe”, 2011), con cui Tuševljaković sembra condividere sia il nocciolo tematico attorno al quale si espandono le vicende del romanzo (l’indagine interiore sul sé, l’io disintegrato dal trauma del conflitto armato, lo scontro generazionale e la riflessione sul duplice ruolo catartico e distruttivo del nucleo familiare), sia una serie di espedienti formali che giocano liberamente con i piani di tempo e spazio della narrazione. È fra gli interstizi della trama, suddivisa anche graficamente in una duplice microodissea (quasi speculare, si potrebbe dire) popolata da personaggi strettamente correlati fra di loro, che il piano dell’unità d’azione si frantuma in molteplici satelliti, tutti dominati dallo stesso ermetico teorema dell’incomunicabilità, cui si può sfuggire solo tramite l’introiezione della realtà fenomenica circostante e la fuga psicotica verso dimensioni alterate di percezione.

Per meglio inquadrare la centralità del ruolo dell’alterazione in Jaz non sarà superfluo fornire qualche indicazione sull’intreccio. La frattura a cui fa riferimento il titolo sembrerebbe essere, anzitutto, quella tra i coniugi Bogdan e Radica, i cui equilibri già precari saltano del tutto durante una fallimentare vacanza a Corfù che vorrebbe dirsi pretesto escapista rispetto ad una quotidianità oscura e frustrante ma che, piuttosto, finisce con l’essere la più classica goccia che fa traboccare il vaso. In realtà, come diviene più chiaro man mano che si avanza con la lettura, il solco tracciato attorno a Bogdan è universale e non particolare, è un fossato invalicabile che non lo separa solamente dalla moglie, ma dall’umanità intera. Come per il Transfer cronenberghiano, c’è una faglia di attrazione e repulsione in perenne sommovimento verso Zoran e Tanja, lui endocrinologo donnaiolo dal passato oscuro, lei sua giovanissima e misteriosissima compagna: una linea di rottura che lo divide irrimediabilmente dalle comparse secondarie di giornate tutte uguali, siano dei maleducati turisti olandesi o dei gioviali ragazzotti serbi che tracannano birra a bordo piscina; uno squarcio, infine, che dai mai metabolizzati traumi di un passato prossimo trafigge un presente contrassegnato dal doloroso scisma, fisico e spirituale, con il figlio Damir.

La figura di Damir, difficile da decifrare nella sua interezza, nella prima parte rimane volutamente in ombra: si viene a scoprire che si trova in Germania in compagnia di qualcuno (non ci è dato sapere chi), che la sola menzione del suo nome innervosisce Bogdan, che Radica, infine, intrattiene con lui una corrispondenza segreta all’insaputa del marito. La scelta è intenzionale, perché Damir, da figura evanescente, nella seconda parte diviene protagonista e voce narrante. È forse questa la sezione più interessante del romanzo, quella dove più penetrante si fa l’influenza albahariana. Damir, mancato studente di giurisprudenza riconvertitosi in quel di Kragujevac allo studio della lingua e della letteratura inglese, è il perfetto antagonista di suo padre, militare a riposo la cui manichea disciplina, che ha dettato i ritmi di tutta la sua esistenza, è incompatibile con la predisposizione del figlio. Divelto il canale comunicativo con il padre, a segnare il definitivo affrancamento di Damir non può che essere un incontro dal velato sottotesto sessuale, quello con il compagno di corso David: figura ambigua, polimorfica, un messia ciarlatano che con i suoi filosofemi ammalia e infastidisce al contempo chi lo circonda e, soprattutto, un individuo sradicato dalla propria identità, che nell’occulto e nel trascendente cerca di costruirsi un rifugio mentale per isolarsi dal presente e sopravvivere al passato. Ma la pur forte attrazione che spinge Damir nell’orbita di David, una volta mentalizzata, non può sostituirsi al “peccato” originale della comunicazione, impossibile sia per l’incostanza lunatica dell’amico, sia per l’inserimento inaspettato di un terzo incomodo, Katarina. È a questo punto che gli avvenimenti precipitano, convergendo verso un unico, inaspettato punto di fuga.

Le pagine incentrate sul party di Halloween a casa di Danijela, amica e compagna di corso di Katarina, sono ricamate in una lingua in cui convivono precisione descrittiva e astrattismo sensoriale, fitte di simbolismi e dettagli misterici che, se da una parte sembrano richiamare alla mente le descrizioni orgiastiche della Donna Tartt di The Secret History (1992), dall’altra rievocano i topoi di certo horror contemporaneo a trazione post-lovecraftiana (un buon metro di paragone, nel suo, potrebbe essere The Void di Steven Kostanski e Jeremy Gillespie). A differenza di quest’ultimo, tuttavia, Tuševljaković opta per un approccio ibrido al terrore dell’inesplicabile: se anche il climax narrativo rimane ateleologico (tanto che l’incontro finale fra Damir e Katarina, avvenuto casualmente a distanza di anni in una nuova Belgrado, si conclude con il fulmineo congedo di quest’ultima, tanto da instillare il sospetto che si sia trattato di un’apparizione), è la stessa Katarina a fornire maggiori dettagli attorno al nocciolo perturbante della vicenda, pur con le difficoltà di chi cerca di ridurre alla limitata realtà della lingua naturale (e alla logica interna dell’evento comunicativo) un fenomeno incomunicabile, che di naturale non ha nulla. Quel che è importante, tuttavia, non è prestare davvero attenzione a quello che è avvenuto, ma a come è avvenuto. La grandguignolesca immagine di David e Katarina seduti l’uno di fronte all’altro sul letto di una camera chiusa a chiave, avvolti dal fumo degli spinelli e ricoperti di sangue, viene descritta con precisione autoptica dalla prospettiva di Damir: ma è legittimo avanzare qualche dubbio su cosa Damir, stordito dalla musica martellante e anchilosato da troppa Pelinkovac, abbia realmente visto (o, piuttosto, abbia voluto vedere). L’allucinazione onirica di cui è preda un attimo prima di essere svegliato dalle urla dei partecipanti mascherati possiede un’inconfondibile ombreggiatura lynchiana:

Non sapevo se ero sdraiato o se stavo in piedi. Forse ero seduto oppure per miracolo ero in tutt’e tre le posizioni allo stesso tempo. Il respiro regolare di qualcuno vicino a me attirò la mia attenzione. L’inspirazione e l’espirazione erano umide e profonde – come se quella persona lottasse contro l’impulso a perdere le staffe. Come se si fosse esercitata all’autocontrollo in circostanze particolarmente sfavorevoli. […] Uno spiraglio di luce illuminò un pezzettino del viso, su cui notai sopracciglia e baffi folti. Aprii la bocca per dire qualcos’altro, ma lo sconosciuto mi precedette. “Bisogna trovare il cavallo alato” mi sussurrò all’orecchio. “Bisogna trovare il cavallo alato per poter raggiungere il paradiso.” Il buio intorno a me si addensò in una goccia di petrolio e sentii l’intruso toccarmi le mani, accarezzarmi il collo e arrotolarmi su le gambe dei pantaloni. Allungai la mano per prenderlo, per tirarlo verso di me e scoprirgli il volto, ma l’oscurità liquida rimase inafferrabile, fuori dalla mia portata. Mi girai, o almeno lo feci nella mia mente, ma accanto a me non c’era nessuno. Per un attimo mi sembrò di udire lo scalpitare di zoccoli che si allontanano e nient’altro.” (pp. 155-156)

Non si saprà mai se David, approfittando del dormiveglia alcolico di Damir, ne abbia abusato fisicamente e psicologicamente. Ma è quantomeno curioso il dettaglio del suo travestimento da Petar Petrović Njegoš (1813-1851), vladika e voce poetica del Montenegro, che suscita (forse in base ad un occulto piano prestabilito?) le ire di un gruppetto di nazionalisti fumantini. È solo l’ultima delle tante fratture inferte ad una Storia, quella balcanica e jugoslava stricto sensu, piena di punti oscuri e di anse inesplorate: come quella, raccontata nella prima parte, di una giornata di maggio di fine anni ’70, quando un giovane Zoran viene prelevato da due agenti dei servizi segreti, condotto nel massimo riserbo in una base militare sotterranea dall’ubicazione ignota e costretto, in un’atmosfera surreale e inquietante, a visitare ciò che rimane di un prigioniero incapacitato a parlare e sottoposto a orribili sevizie. Violazione allucinatoria dell’integrità sessuale, verbale e storica: quello di Jaz è l’eterno, orrorifico ritorno del medesimo.

 

Bibliografia:

Darko Tuševljaković, Jaz, Beograd, Arhipelag, 2016.

Darko Tuševljaković, La frattura, trad. Anita Vuco, Roma, Voland, 2019.

Materiale Audiovisivo:

David Cronenberg, Transfer, 1966. Visibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=MKsXmEpXubY (ultima consultazione: 28/01/2022)

 

Apparato iconografico:

Immagine di copertina e Immagine 1:  https://www.presstiz.rs/intervju/jaz-u-jazu-darka-tusevljakovica