Un viaggio intimo e universale nella coscienza femminile: “Gli orologi nella stanza di mia madre” di Tania Stupar Trifunović

Federica Florio

Lo scorso ottobre è uscito per la casa editrice Voland Gli orologi nella stanza di mia madre (“Satovi u majčinoj sobi”) di Tanja Stupar Trifunović. Pubblicato per la collana Amazzoni, è il primo romanzo dell’autrice croata giunto al pubblico italiano grazie al lavoro della traduttrice Elisa Copetti.

Link al libro: https://www.voland.it/libro/9788862434652


Nata a Zara nel 1977, Stupar Trifunović ha lasciato la sua città natale durante il conflitto jugoslavo e si è trasferita a Banja Luka, capitale de facto della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, dove ha studiato lingua e letteratura serba. Redattrice della rivista “Putevi”, ha pubblicato un discreto numero di racconti e poesie, le quali hanno ottenuto numerosi riconoscimenti e sono state tradotte in diverse lingue. Con Gli orologi nella stanza di mia madre ha vinto il Premio dell’Unione Europea per la letteratura nel 2016.

Come nella maggior parte dei suoi racconti, il romanzo esplora il tema del lutto e delle guerre jugoslave, soffermandosi in particolar modo sulla vita delle donne. L’opera si sviluppa attraverso le riflessioni di due voci narranti, due donne che in realtà sono un’unica persona: la protagonista – forse Stupar Trifunović stessa, forse no – e il suo alter ego Ana. Attraverso un flusso di coscienza composto da ricordi amari e profonde riflessioni esistenziali, la scrittrice si insinua nella memoria per far luce sul rapporto tra madre e figlia.

Con il pretesto di ricomporre il proprio passato, la protagonista si rifugia nella scrittura, unico mezzo che le consente di rielaborare delusioni e lutti, alla ricerca di un appiglio che possa avvicinarla a una genitrice che l’ha rifiutata fin da bambina. Scrivere è un atto dovuto e necessario, che però non ha il potere di alleviare il peso che la protagonista sente gravare su di sé:

Tutta questa faccenda dello scrivere è sbagliata. Nessuno può separare un pezzo di lava e dire ‘questa è lava’ perché essa ora è già soltanto una pietra qualunque e del suo fuoco non resta nulla nella roccia fredda. Solo il ricordo. Scrivere è un ricordo del fuoco. Della vita. Dell’inizio. Ma non è la vita e non è l’inizio. Solo una riproduzione, una copia.” (p. 35)

Malgrado questa insoddisfazione latente, la scrittura rimane un’urgenza, così come la creazione di un personaggio – Ana, appunto – che possa farsi carico del groviglio di pensieri che la ossessionano.

Attraverso Ana, la voce narrante avanza una profonda quanto amara critica alla società patriarcale che la circonda. In primo luogo, si fa portavoce della sofferenza silenziosa che affligge le donne, soprattutto in quel paesino della costa dalmata, popolato da vedove simili a fantasmi, dove vive la madre della protagonista.

Prima il mondo era un affare da uomini. Con le donne disposte nell’ombra. Oscurate, assenti oppure eccessivamente solerti e apprensive. Come fossero caricature di sé stesse, ricordate in famiglia più spesso per alcune caratteristiche di base, una descrizione arida. […] Non ci sono storie su di loro. […] Noi siamo donne senza albero genealogico, anche i cani hanno una lista di antenati più lunga della nostra.” (pp. 55-56)

Forse proprio per questo motivo il rapporto tra madre e figlia risulta così arido e fragile, spesso reso con la metafora di un giardino che non riesce a fiorire. Una donna acquisisce importanza solo quando riesce a procreare. Il dare alla luce una figlia non è che un atto richiesto dalla società, e non ha nulla in comune con il legame solido e duraturo del matrimonio.

Ana, tuttavia, non si limita a essere un pretesto letterario per affrontare il tema della maternità o per esaminare la condizione femminile nella società croata – e, in generale, mondiale – né a sottolineare esclusivamente le disuguaglianze. L’alter ego della protagonista si spinge verso la denuncia della violenza di genere e domestica. Rappresenta tutte le donne intrappolate in relazioni tossiche e senza futuro, vittime di abusi fisici e, soprattutto, mentali. Da questo punto di vista, la scelta del nome non è casuale: Ana rimanda ad Anna Karenina, esplicitamente citata da Stupar Trifunović. Come la protagonista del classico russo, Ana è in fuga da un matrimonio senza via d’uscita; nonostante le relazioni extraconiugali, non è in grado di fuggire dal marito ed entra in un circolo di insoddisfazione e paura che la porta all’isteria. D’altronde, di donne come Ana, anche fuori dalla dimensione puramente letteraria, ne è pieno il mondo. La voce narrante, infatti, riconosce il suo alter ego in quasi tutte le donne che la circondano:

Sono seduta sulla panchina e cerco Ana con lo sguardo. Se si aguzza la vista, da ogni donna spunta fuori Ana, che fantastica di fuggire dal marito. Cui i coperchi scivolano di mano e il pranzo brucia perché mescola troppi desideri e sogni nelle sue mani. Schiere di Ana passeggiano per la città. Alcune si nascondono meglio, altre peggio.” (p. 108)

copertina dell’edizione del romanzo pubblicata nel 2016 da Šahinpašić (Sarajevo), da cui è stata elaborata la grafica per l’edizione Voland
copertina dell’edizione del romanzo pubblicata nel 2016 da Šahinpašić (Sarajevo), da cui è stata elaborata la grafica per l’edizione Voland 

L’intreccio del punto di vista di Ana e della protagonista rischia di risultare leggermente confusionario, specialmente all’inizio della lettura. Il groviglio di emozioni e riflessioni delle due donne non si dipana. Il lettore tenta di seguirne i pensieri, di trovare il filo conduttore nel lungo flusso di coscienza che domina interi capitoli del romanzo, con il rischio concreto di perdersi nei meandri di quella che si potrebbe definire senza indugio “depressione”. L’intrecciarsi delle esperienze di due donne, i cui contorni spesso risultano indefiniti e sovrapposti, può risultare, dopo centinaia di pagine, un po’ pesante, e il continuo utilizzo di piani temporali diversi, da questo punto di vista, non facilita la lettura.

È innegabile, tuttavia, che lo stile dell’autrice sia accattivante. Stupar Trifunović utilizza un linguaggio estremamente denso e preciso, tanto caro alla poesia, che tende a soppiantare le azioni e la trama stessa; ne scaturisce a tratti una parvenza di immobilità e immutabilità, dovuta alle numerosi ripetizioni, a volte bilanciata dalla foga e dal tormento interiore che caratterizzano i poemi epici medievali (come Strahinja Banović) e i grandi classici russi. Il lirismo molto accentuato e il flusso continuo di immagini e metafore icastiche, spesso in contrasto tra loro, creano un’atmosfera ovattata e vivida al tempo stesso, impregnata di ricordi e di sensazioni che si mescolano alla concretezza del presente. Degne di nota sono le descrizioni dei luoghi legati all’infanzia e alla giovinezza della protagonista, tra le quali spiccano quelle relative alla stanza della madre, dove si sono accumulati gli oggetti più disparati, creando “un museo della pazzia di famiglia, di polvere e di ragni” (p. 58), e quelle legate al villaggio, simbolo delle ferite incurabili della guerra, in cui abitava la protagonista da bambina. Si tratta della ricerca quasi ossessiva di un mondo scomparso, di un’epoca cristallizzata nella memoria che la voce narrante tenta di riesumare, così da poter godere di nuovo della gioia e della leggerezza di un tempo:

Esisteva un mondo che è scomparso, che è dimenticato, che bisogna solo ritrovare di nuovo e disseppellire. Tutti noi, come il vecchio pazzo, portiamo dentro pezzettini di mondi scomparsi, ma tacciamo perché il pensiero che ci considerino folli ci spaventa più della pazzia stessa. Che è comunque qui da tempo, nelle nostre abitudini, nelle nostre paure, nel rifiuto di ritrovare i luoghi nascosti in cui siamo affondati.” (p. 103)

L’autrice si impegna molto nella scelta del linguaggio più adatto per rievocare immagini nostalgiche e amare del passato. Gli orologi nella stanza di mia madre diventa un viaggio estremamente intimo, ma allo stesso tempo universale, che si fonda quasi totalmente sulla forza evocativa dello stile poetico.

Bibliografia:

Tanja Stupar Trifunović, Elisa Copetti, Alice Parmeggiani (a cura di), Gli orologi nella stanza di mia madre, Voland, 2021.

Apparato iconografico:

Immagine 1 in evidenza:

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Immagine 2: copertina del volume edito Voland

Immagine 3: https://www.knjiga.ba/media/catalog/product/cache/1/image/9df78eab33525d08d6e5fb8d27136e95/slike/satovi_u_majcinoj_sobi.jpg