Vite di una donna tra nomadismo, trauma e guerra: “L’amore di pietra” di Grażyna Jagielska

Sara Deon

Lo scorso novembre la casa editrice Keller ha pubblicato il memoir L’amore di pietra. Una vita con un corrispondente di guerra (“Miłość z kamienia. Życie z korespondentem wojennym”) della scrittrice, traduttrice e viaggiatrice polacca Grażyna Jagielska (nella traduzione di Marzena Borejczuk). Questa recente uscita entra a fare parte della collana dedicata ai reportage letterari “Razione K”, che ospita anche alcune opere di Wojciech L. Tochman, Martin Pollack,  Witold Szabłowski e Aleida Assmann. 

Link al libro: https://www.kellereditore.it/prodotto/lamore-di-pietra-grazyna-jagielska/


In La guerra non ha volto di donna, la scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič si interroga sul perché le donne sovietiche, il cui contributo nella Seconda Guerra mondiale ha irreversibilmente infranto il dominio maschile fino ad allora pressoché assoluto, non rivendicassero una propria storia. La scrittrice, dal canto suo, avvertiva il bisogno impellente di dare forma e spazio alle esperienze, ai sentimenti e ai traumi di queste donne, rivelando attraverso numerose testimonianze come la guerra determinasse l’esperienza femminile in modi differenti da quella maschile. Astraendo la questione sollevata da Aleksievič dalle sue coordinate storico-spaziali,  cosa succede, invece, quando il trauma della guerra viene esperito da una donna nella sua assenza?

È questo il caso singolare della scrittrice e viaggiatrice polacca Grażyna Jagielska, classe 1962, che ne L’amore di pietra racconta senza edulcorazioni il rapporto che l’ha legata al marito Wojciech Jagielski, uno dei maggiori corrispondenti di guerra polacchi, che per vent’anni ha documentato numerosi conflitti dall’Asia all’Africa per la prestigiosa “Gazeta Wyborcza”.

Grażyna, infatti, all’inizio del memoir racconta gli eventi che l’hanno portata a subire un ricovero coatto dalla panchina di una clinica psichiatrica, dove le è stata pronunciata la diagnosi di disturbo post-traumatico da stress. Come è possibile, chiede al suo medico, soffrire di tale disturbo senza essere mai stata personalmente in guerra, avendola infatti esperita unicamente attraverso i racconti del marito?

Penso che siano state le guerre della fine degli anni Novanta a portarmi alla malattia nervosa di cui dovrebbe invece soffrire mio marito corrispondente di guerra. O magari fu allora che la malattia giunse a piena maturazione e cominciò a manifestarsi, determinando i contorni della nostra vita futura. A quell’epoca non potevo più illudermi, né sperare in un ritorno alla normalità. Avevamo alle spalle ritorni di ogni sorta, e ormai sapevamo che non si ritornava mai negli stessi posti, né agli stessi progetti di un tempo. Probabilmente è così che si entra nella vita adulta. (p. 163)

Conosciutosi da giovani – lei studiosa di indologia, lui di africanologia –, Grażyna e Wojciech presto si innamorano e iniziano a progettare una vita in comune. Rifiutando il modello piccolo-borghese condiviso da tanti loro coetanei e connazionali, ed essendo entrambi studiosi di discipline orientali e africane, il sogno condiviso assume i contorni di una visione dell’esistenza come nomade, in continuo movimento. Esplorare il mondo, in particolare il continente asiatico e quello africano, diventano una passione comune ma vissuta con intensità differenti per i due: per Grażyna l’essere in viaggio significava innanzitutto osservare, assaporare tutte le cose belle che le stavano intorno; per Wojciech sembrava essere una vera e propria vocazione, come separare la vita dalla morte. L’evento decisivo che avvicina quest’ultimo alla possibilità di una carriera come reporter si presenta loro a Varanasi nel dicembre 1985, quando arrivano nella città santa indiana avvolta in un anomalo silenzio, dopo dei feroci scontri civili fra la popolazione indù e quella musulmana. È in quel momento, allora, che Wojciech realizza di potere essere il primo a documentare che cosa sia successo per la stampa estera: Nessuno ne sa ancora niente, te l’immagini? Lo so soltanto io, e ho la sensazione che dipende da me se verranno a saperlo anche gli altri(p. 30). 

È da allora che il trovarsi per primo nei luoghi dove si consuma la Storia diventerà un’ossessione per il corrispondente di guerra, sempre sospeso tra adrenalina e una vocazione dal carattere quasi spirituale e dalla forza assolutistica, per cui sarà disposto a piegare qualsiasi altro aspetto della sua vita.

Tuttavia, la decisione di Grażyna di appoggiare la nuova carriera del marito avviene a caro prezzo. Il loro sogno di un nomadismo eterno deve essere temporaneamente sospeso, barattato con un imborghesimento che garantirebbe una forma di stabilità al ritorno di Wojciech tra un servizio e l’altro. Grażyna viene assunta dalla Banca Mondiale, mentre il marito inizia a lavorare alla PAP, l’agenzia di stampa nazionale polacca. La loro fantasia di un matrimonio senza radici si infrange ulteriormente con la nascita del primo figlio e  l’adozione di un cane, che suggellano ulteriormente Grażyna all’ambiente domestico, nel ruolo di madre e donna di casa. Tuttavia, entrambi non si abbattono, vedono in questa metamorfosi della loro relazione qualcosa di temporaneo e mutevole, non indissolubilmente legato a loro: “una vita provvisoria che avremmo condotto solo fino a quando non sarebbe arrivato il momento di riprendere le vie del mondo. Sarebbero svaniti non appena avessimo mollato gli ormeggi” (p. 35).

È a partire da questa mutazione negata, impossibile da accettare, che inizia la visione capovolta della relazione fra i due coniugi, intervallata dai viaggi del marito in zone di conflitto bellico, tra la Georgia, la Cecenia e l’Inguscezia, il Sudafrica, il Kashmir e molti altri. Da quel momento, la vita di Grażyna ha luogo solo tra l’annuncio delle sue partenze e quello dei ritorni sempre in ritardo rispetto a quanto promesso. Separazioni determinate dall’orrore di numerose guerre – cinquantatré – a cui lei non ha mai assistito in prima persona. L’interruzione del testo è l’unica a sciogliere le distanze tra loro.

È la mutazione definitiva della loro relazione come tempo dell’attesa a fare esplodere Grażyna, mossa dalla necessità nell’istituto psichiatrico di raccontare la propria storia a ritroso, per colmarne i vuoti e per trovarvi un senso. Nei suoi racconti al medico – detto il Canuto – e a un altro paziente, Lucjan, che diventerà presto il suo unico amico, quella che si delinea è la disfatta di una donna e della sua psiche, una depressione e un esaurimento nervoso lontani da una romanticizzazione estetizzante, come quando racconta i giorni interi trascorsi rannicchiata nel vano per l’armadio a muro. Il racconto lineare è costantemente oggetto di incursioni da un altro mondo: contrapposto all’orizzonte dominato da medici e pazienti psichiatrici, emerge quello delle persone che nei territori bellici hanno incrociato Wojciech, come la cecena Taya di Argun, vittima di violenze sessuali sistemiche, e Merab Kakubava, ragazzo georgiano massacrato. Questi due soggetti ricorrono ossessivamente nel testo, sospesi tra una dimensione e l’altra come fantasmi che chiedono salvezza.

“«Cinquantatré» ripeté, seguendomi a ruota verso le pervinche. «Non sei sorpresa?» Semmai non ero sorpresa di essere ridotta così male. Cinquantatré guerre. Il fatto che ogni volta stessi morendo dall’inizio alla fine non poteva che ripercuotersi sulla mia salute.” (p. 223)

Se per Wojciech, la moglie e la casa rappresentano un punto di riferimento necessario al suo ritorno per potersi sentire al sicuro, Grażyna allo stesso tempo attende e teme il ritorno del marito, perché con sé porta sempre storie di massacri e violenze che lei non vuole ascoltare, ma che lui sente impellentemente di doverle raccontare, ingigantendo in lei un trauma sempre più doloroso e ingombrante, da cui le è impossibile liberarsi. Man mano che attraverso le cronache del marito Grażyna immagina nella sua mente i luoghi e le persone che il marito corrispondente di guerra ha incontrato, cresce in lei il terrore della sua morte. Infatti, sono vent’anni che lei si prepara alla morte del marito, trasalendo ogni volta che il telefono squilla, colmando il silenzio della casa.

Tuttavia, nei suoi racconti al medico o Lucjan non è solo dal proprio dolore che Grażyna vuole liberarsi: c’è, piuttosto, un senso di colpa che deve espiare. Come lei stessa dichiara, sente il bisogno di essere giudicata da qualcuno di esterno al suo matrimonio, per quello che lei e il marito hanno fatto – in un’evidente assumere su di sé le responsabilità di Wojciech. Un’espiazione, cioè, per le persone che il marito si è lasciato alle spalle, appropriandosi delle loro storie senza potere fornire loro un aiuto materiale.

Quel dolore non scompariva quando noi ripartivamo, si depositava da qualche parte. Un giorno ci si sarebbe rivoltato contro. Mettevamo a rischio la nostra vita per catturare quegli istanti, i momenti del dolore altrui, come collezionisti. Non mi sembra una cosa del tutto lecita.” (p. 256)

In questo racconto intimo e viscerale, dettagliando per tappe l’impatto che la guerra ha avuto nel suo matrimonio, Grażyna Jagielska rivela come questa non colpisca solo chi vi è coinvolto in prima linea, bensì come l’orrore bellico si lasci sempre alle spalle unicamente vittime, relitti e fantasmi.

 

Apparato iconografico: 

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