L’anacronismo dei dualismi: “Navalny contro Putin” di Anna Zafesova

Maria Castorani

 

Tutti sanno da anni che il metodo migliore per farsi spalare la neve sotto casa è quello di scrivere sui cumuli, con una bomboletta di vernice ma anche con una pala, il nome dell’uomo che Putin non menziona mai, e aspettare il pronto intervento del comune.” (p. 46)

Non una biografia parallela e neppure cronaca asettica degli ultimi mesi di storia sociopolitica russa: nello squarcio temporale di un biennio forse senza precedenti per il governo del paese e il rumore che di questo si è riverberato all’estero, Navalny contro Putin di Anna Zafesova, edito da Paesi Edizioni, si apre come una sorta di campo di battaglia, un circuito magnetico in cui – giocoforza – i personaggi coinvolti vanno verso due destini antitetici ma simbiotici.

Link al libro: https://paesiedizioni.it/collane/navalny-contro-putin/


Quella del 20 agosto 2020, giorno dell’avvelenamento del giornalista e blogger d’opposizione Aleksej Navalny, è una data-barriera in cui non è troppo difficile individuare un prima e un dopo.

Ricostruire in successione le impalcature sociali da cui nascono l’autocrate e l’oppositore significa creare un selciato che porta dritto verso una consapevolezza di più ampio respiro. Dal 20 agosto 2020, o comunque nei tempi più recenti del cosiddetto Putin IV, il sistema del potere ha perso gli ultimi filtri che gli erano rimasti per tentare di imbellettare la natura di un governo iniziato come placebo a una sindrome post-traumatica, dopo un Novecento che del paese aveva lasciato i brandelli, senza neppure passare per una Norimberga o una qualche espiazione totale dei propri peccati (anche perché, dice Zafesova, distinguere vittime e carnefici dopo settanta lunghi anni di storia in cui il carcerato è anche carceriere diventa estenuante).

Si è penetrati così in un autocratismo informativo volgare e spesso paradossale, di cui il presidente quasi settantenne diviene al tempo stesso produttore e fruitore. Quando per il sistema Putin arginare le dinamiche dei media e dei milioni di visualizzazioni su YouTube con cui il fenomeno Navalny nasce e si nutre diviene impossibile, la strada rimasta è quella della rimozione della realtà e dell’arresto: banale, impudente.

La Russia è un organismo che, storicamente, si è sempre costruito sulle dualità e le antinomie.

Le tensioni del paese nella ricerca di uno slancio verso il futuro incontrano, nel sistema del potere degli ultimi venti anni, la stasi anacronistica e l’attaccamento morboso a un passato univoco e revisionato. A scuola vengono reintrodotte le marce militaristiche e negli Auchan della capitale all’anniversario del 9 maggio si accalcano bambine e bambini aggrappati a carri armati gonfiabili e palloncini di cacciabombardieri che festeggiano il giorno della Vittoria. Lo stesso capo d’accusa per diffamazione a un veterano per cui Navalny lo scorso febbraio è stato processato è il risultato di una dinamica goffa – quella stessa per cui i funzionari dell’FSB, il servizio di sicurezza federale, hanno agito in maniera tale da render possibile uno scenario in cui su YouTube Navalny riesce a rintracciare e chiacchierare al telefono con uno degli artefici del suo avvelenamento.

L’attacco (e l’imminente udienza del prossimo 25 novembre) delle autorità federali all’organizzazione Memorial, Ong che dagli anni Ottanta è impegnata nella ricerca e pubblicazione dei nomi delle repressioni staliniane e nella difesa dei diritti umani nel paese di oggi, nata tra l’altro nell’ambiente della dissidenza di Andrej Sacharov e della moglie Elena Bonner, è ben incassato nel solito paradigma, usato e rimasticato in maniera ciclica dalla macchina putiniana, di rimbalzo delle colpe dei conflitti interni all’esterno, fuori dal proprio campo di gioco.

Un paradigma che si è mosso a ritmi indubbiamente accelerati nei periodi che hanno fatto seguito alle proteste dell’agosto 2019 per l’esclusione dei candidati indipendenti dalle elezioni della Duma nella città di Mosca e a quelle, poi, del gennaio 2021 in sostegno dello stesso Navalny. Gli ultimi due o tre anni del quarto mandato putiniano sono stati caratterizzati dall’acuirsi, pilotato sulle tv di stato con i vari Dmitrij Kiselev e giornalisti di regime, delle antinomie anacronistiche Russia/Europa, noi/loro, patria/Occidente. Così come Memorial, decine di Ong e organizzazioni di media indipendenti sono state costrette a etichettarsi come agenti stranieri, privati dei fondi e dei sussidi e costretti a crowdfunding infiniti. Il dissenso, se esiste, è fomentato dall’esterno.

La Russia c’è, la Russia è, e c’è anche il mondo che le sta intorno, nel quale si può essere russi, e quindi diversi, e nello stesso tempo sentirsi non troppo differenti nel condividere linguaggi, mode, idee e problemi.” (p. 122)

Zafesova risolve le antinomie nella generazione Navalny e nell’attaccamento, maturo e a tratti storicamente inconsapevole, che questa ha nei confronti del proprio paese.

Si tratta di un orgoglio nazionale che non guarda Pervij Kanal e non è interessato alla retorica zoppicante della televisione schierata. La generazione dei puteen guarda con occhio disincantato ai personaggi glitterati degli anni Novanta, ha superato la dissonanza cognitiva con il passato e sta cercando di proiettarsi oltre quel cordone doloroso che è la cicatrice del Novecento. Oltre, forse, il trauma sociale dell’impotenza appresa.

Il sistema putiniano di micropotentati, reti di conoscenze personali e megayacht nel Mediteranneo ne viene fuori ammaccato, cariato, e lontano dal paese reale.

 

Apparato iconografico: 

Immagine in evidenza: https://images.app.goo.gl/KL5tpsocqAZWwggx6

Immagine 1: copertina del libro edito Paesi Edizioni
Immagine 2: https://vot-tak.tv/novosti/18-01-2021-navalny-why-court/