Kristóf Ágota o l’ubiquità del nulla

Richárd Janczer

Kristóf Ágota (1935­-2011) è stata un’individualità estrema, sua l’affermazione “Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita”, verso la fine della Trilogia della città di K., opera che l’ha istantaneamente canonizzata in tutto il mondo. Non è stata estrema solo nell’implacabile nichilismo delle sue trame e nell’affilata paratassi attraverso cui le sviluppava, ma anche nell’originale concezione della scrittura che non smette di marcare i limiti delle grossolane categorie interpretative con cui si cerca di studiarla. È forse arrivato il momento di mettere in questione anche l’importanza che l’esilio gioca all’interno della sua opera.

All’inizio, non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali,  erano  quella  lingua.” (L’analfabeta, p.23)

All’interno dell’intricato labirinto di allusioni e falsificazioni biografiche che ha creato, Kristóf raccolta il suo vero arrivo in Svizzera nel racconto autobiografico L’analfabeta (2004), qui citato solo come fonte biografica. È il novembre 1956, ha ventun anni quando attraversa il confine, grazie all’aiuto di un passatore, porta una bambina in braccio, segue suo marito, cammina nella foresta, nella neve, di notte, in attesa di incontrare le prime guardie austriache. È una degli oltre duecentomila ungheresi che lasciano il paese per sfuggire alle ritorsioni sovietiche per la rivoluzione appena soffocata nel sangue, approda in un campo profughi in Austria, chiedendo con le poche parole tedesche in suo possesso il latte per la figlia, verrà ricollocata come operaia in una fabbrica di orologi svizzera.

Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo che con l’aiuto di un dizionario da consultare di frequente” (p.26)

Kristóf sceglie di scrivere in francese, accettando l’invalidità linguistica, di essere “analfabeta” nonostante fino ad allora non lo fosse, una scelta necessaria per diventare scrittrice. Dopo quasi vent’anni di diligente esercizio, compone piccole pièces teatrali e radiofoniche negli anni ’70, con modesti successi locali, ma il successo vero e proprio, tanto fulmineo quanto dirompente, arriverà con la pubblicazione de Il grande quaderno, presso la casa editrice Seuil nel 1986. Tre anni dopo era già tradotto in diciotto lingue (ivi, p. 46)

A un primo sguardo può sembrare che lo stile kristofiano, caratterizzato da un lessico elementare, da un abbondante uso della paratassi e in generale dall’assenza di strutture sintattiche complesse, derivi dalle carenze dal suo francese. Mettere però in stretta relazione logica questi due dati sarebbe come confondere naturalizzazione e nascita. Si prenda in considerazione l’esile produzione kristofiana in lingua ungherese, rappresentata dalla raccolta poetica bilingue Clous (Éditions Zoé, 2016).

A fűszál

Már száraz volt törött én
ismertem elhagyott kövek
közt született
mert egyedül akart élni és látni
az aranyhegyű felhők futását
délben a nap ránézett gonosz
tüzes szemekkel másnap
éhség gyötörte lehajolt meghalt

akkor a szél melegen és lágyan
megsimogatta


Il filo d’erba

Era ormai secco e spezzato io
lo conoscevo era nato tra le pietre
abbandonate
perché voleva vivere da solo e vedere
la corsa delle nubi dalle creste d’oro
a mezzogiorno il sole lo guardo con malvagi
occhi infuocati l’indomani
lo tormentava la fame si piegò morì

allora il vento tiepido e tenue
gli fece una carezza

Traduzione di Vera Gheno, da Chiodi, p.10.

Le poesie ungheresi, pubblicate postume, di cui qui è riportato solo un esempio a titolo esemplificativo, rivelano una coerenza di “poetica” con le altre opere, togliendo ogni legittimità alle tesi che sostengono il rapporto genealogico tra emigrazione e stile. Quest’ultimo è di certo condizionato da una lingua mai del tutto padroneggiata, un fattore importante ma che non dà origine alla scrittura ma ne modifica solo l’aspetto: Kristóf non è il prodotto della propria emigrazione.

Emigrazione e non esilio, una parola fin troppo letteraria che richiama alla mente Ovidio o Dante o i contemporanei Miłosz e Brodskij e denota una condizione fin troppo legata alla sua natura artistica. Rispetto a loro, Kristóf Ágota presenta due importanti differenze: è una donna e al momento dell’emigrazione è una figura anonima nel suo paese. Il fatto che sia donna/moglie è rilevante poiché la decisione di oltrepassare il confine non è presa per i suoi interessi ma per quelli del marito, che sarebbe stato vittima di ritorsioni politiche all’arrivo dei russi. L’emigrazione non è dunque frutto di un personale atto di dignitoso rifiuto e coraggio, come nell’immagine letteraria canonica ma rimane un evento traumatico svuotato di ogni consolazione etica. Kristóf inoltre è madre, elemento da non sottovalutare, maggiormente se si considerano le difficoltà che una scrittrice povera deve affrontare, maggiori di quelle dei suoi colleghi uomini (V. Woolf, Una stanza tutta per sé): il tempo della scrittura riuscirà a materializzarsi dopo non solo il turno in fabbrica, segnato da una disumanizzazione fordista, ma anche la cura della casa e dei figli (la Line di Ieri riecheggia questa quadruplice condizione di emigrata, operaia, moglie e madre).

La Svizzera, scrive Kristóf, “non è altro che un deserto, per noi rifugiati, un deserto che dobbiamo attraversare per giungere a quella che chiamano «l’integrazione»,«l’assimilazione».” (L’analfabeta, p.41) Sarà questa comunità il personaggio minore di Ieri (1995), descritta nei suoi ritrovi al bistrot, sempre più decimata da suicidi e ulteriori dispersioni, condannata a una dissoluzione finale.

Il nome di uno di questi rifugiati, Jean, nome improbabile per un ungherese, porta alla luce un dettaglio non irrilevante. Sulle copertine dei libri l’autrice compare come “Agota Kristof”, un nome che non esiste, o meglio, che non corrisponde al vero nome, ne sono stati amputati gli accenti grafici e occidentalizzato l’ordine cognome-­nome. Si tratta del medesimo procedimento a cui si sottopone volontariamente Sandor Lester (Ieri), maschera che Tobias Horvath adotta una volta attraversato il confine, nome a sua volta alterato rispetto all’originale: Horváth Tóbiás. Lo stesso era accaduto al nome dei suoi stessi familiari: Attila e Jenő erano diventati Tila e Yano (L’analfabeta), il padre Kálmán trasformato in Koloman (Ieri). Una vera e propria castrazione, per non dire mutilazione, grafica che risulta però coerente alla sua intera produzione.

Tralasciando la curiosa scelta della scrittrice di utilizzare quasi sempre protagonisti maschi, analizziamo le vicende di Sandor/Tobias e Lucas/Claus/Klaus (Trilogia della città di K.). Il focus dell’impossibilità di condurre un’esistenza serena non è dettata dalla propria emigrazione, o quella altrui, la falsificazione del sé che compiono e l’atto fondativo del rinomarlo hanno radici che precedono ogni valico di confine. L’esistenza è inquinata già dall’infanzia. I due protagonisti hanno inoltre vissuto l’assenza della figura paterna, subito la presenza di figure tanto nocive quanto transitorie e si ritrovano a interagire con il vero padre solo tramite il parricidio o il tentativo di esso; mostrano dunque già una psiche fragile e minata e un approccio alla sessualità e all’affettività già sadico o masochistico, persino incestuoso.

Nell’opera di Kristóf è possibile dunque leggere una risposta radicale: l’emigrazione è solo una diversa manifestazione di una condizione umana già di per sé invivibile, l’ennesimo aspetto di una vita che è già sfuggita al controllo. L’Ungheria kristofiana non è affatto un idillio, è un crocevia di eserciti, di abusi fisici e psicologi, di comportamenti patologici, un non­-luogo in cui la solitudine è innata e totale. La sua umanità annichilita non conosce infatti frontiere, la condizione umana che permea le brevi prose di ambientazione svizzera de La vendetta è la stessa che attanaglia Yasmine o Labbro­-leporino, abitanti della Puszta.

Nonostante Kristóf abbia descritto l’emigrazione come l’apocalisse della sua vita, si è sempre rifiutata di conferire alcun carattere demarcante al confine. Valicarlo è un vero e proprio topos narrativo, divide sì un “al di qua” e un “al di là”, due lingue e culture, e separa due segmenti di vita ma, una volta valicato, la vita non assume un’ontologia diversa, solo una diversa prospettiva. Sarebbe dunque una risposta semplicistica limitare la produzione kristofiana alla sua emigrazione.

“Come sarebbe stata la mia vita se non avessi lasciato il mio paese? Più dura, più povera, penso, ma anche meno solitaria, meno lacerata, forse felice. La cosa certa è che avrei scritto, in qualsiasi posto, in qualsiasi lingua.” (L’analfabeta, p.38)

Bibliografia
Agota Kristof, Chiodi, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2018.
Agota Kristof, Ieri, Torino, Einaudi, 2002.
Agota Kristof, L’analfabeta, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2015.

Materiale multimediale
Eric Bergkraut, Continente K. Agota Kristof scrittrice d’Europa [DVD+libro], Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2010.

Apparato iconografico
Immagine in evidenza: Keystone. Fonte: https://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/attualita-culturale/Agota-Kristof-8553829.html/ALTERNATES/LANDSCAPE_1300/Agota%20Kristof