Iosif Brodskij e la letteratura: l’esilio prima dell’esilio

Martina Greco

Iosif Aleksandrovič Brodskij (1940­-1996) è stato un poeta leningradese naturalizzato statunitense. In questo momento, probabilmente, l’uso dell’aggettivo “leningradese” lo sta facendo rivoltare dalla sua tomba, nell’isolotto di San Michele, a Venezia. Brodskij si trova infatti sepolto in Italia, nella città a cui ha dedicato uno dei suoi più noti saggi, Fondamenta degli incurabili (1989). La moglie rifiutò di spedirne le spoglie a Pietroburgo per non entrare nel merito del suo rapporto con la Russia, dal momento che il poeta, anche dopo il 1991, non si era mai deciso a farvi ritorno. Il difficile rapporto con la madrepatria, e specialmente con chi la governava, è il motivo per cui si è detto che Brodskij non accetterebbe di essere definito “leningradese”. Nel saggio Guida a una città che ha cambiato nome, contenuto nella raccolta Less than one (pubblicata in italiano nel 1987 nella collana “Gli Adelphi” col titolo Fuga da Bisanzio) il poeta, parlando del fatto che i leningradesi insistessero nel chiamare la propria città “Peter”, afferma che: “[…] la presenza dello spirito di Pietro I è molto più tangibile, qui, che l’odore della nuova epoca”. (p. 38) Il saggio in questione è una vera e propria ode a San Pietroburgo, città natale di Brodskij e culla della letteratura russa. La nascita stessa della città, voluta da Pietro I come finestra sull’Europa, è di per sé epica: lo zar decise infatti di sfidare la natura paludosa e ostile delle terre baltiche attraversate dal fiume Neva e di costruire proprio lì quella che sarebbe dovuta diventare la prima città marittima della Russia, imponente e in nulla inferiore ai suoi corrispettivi europei. Pietro I chiamò i migliori architetti italiani e francesi e, al prezzo di migliaia di vite anonimamente perdute nelle sue fondamenta, diede vita a una città maestosamente bella, il cui simbolo, la statua del suo fondatore a cavallo, divenne il protagonista del poema che ispirò tutta la letteratura russa successiva: Il cavaliere di bronzo (1837), di Puškin. E questa città, o meglio il riflesso di essa nell’opera di Puškin, Dostoevskij, Mandel’štam, Achmatova, fu il primo vero luogo in cui Brodskij migrò.

Il suo esilio fu prima di tutto un esilio interiore, verso una dimensione squisitamente ed esclusivamente letteraria. Quest’esilio cominciò quando Brodskij, all’età di 15 anni, decise di abbandonare gli studi e di continuare la propria educazione da autodidatta. Da allora svolse diversi lavori, tra cui apprendista tornatore, fuochista, guardiano di un faro, partecipò anche a una spedizione geologica, finché negli anni ’60 conobbe Anna Achmatova e Nadežda Mandel’štam che lo indirizzarono definitivamente verso la carriera poetica. La scelta di questo percorso lo portò però molto presto, nel 1964, all’arresto con l’accusa di tunejadstvo, ovvero parassitismo sociale, con la quale lo Stato sovietico condannava i disoccupati.

Il processo a Brodskij riscosse una forte eco mediatica in Occidente per la sua assurdità: vennero chiamati a testimoniare cittadini sovietici che non avevano alcun rapporto con l’accusato e che si limitavano a dichiarare di non aver mai sentito parlare di quest’uomo, né di essersi mai imbattuti nei suoi scritti, come prova del fatto che lui non fosse un poeta. Il giudice chiedeva ossessivamente all’imputato la ragione per cui questo lavorasse a fasi alterne, con lunghe pause tra un mestiere e l’altro, sentendosi ogni volta rispondere: “Io ho sempre lavorato! Traducevo e scrivevo poesie!”. A nulla valsero i tentativi di Brodskij di convincere chi lo stava processando del fatto che la letteratura non fosse un passatempo da scansafatiche, ma richiedesse tempo e concentrazione. Uno dei testimoni dell’accusa durante il processo dirà: “Brodskij sviluppa tre temi: primo, il distacco dal mondo; secondo, la pornografia; terzo, l’assenza di amore per la patria e per il suo popolo. La patria gli è straniera“, ed è vero che tramite il distacco dal mondo, il poeta riuscirà a sopravvivere a un governo che gli ha reso la sua patria straniera, cercando la propria casa nelle ultime cose che i sovietici non erano ancora riusciti a distruggere: la letteratura e la lingua. Si è già detto che la prima forma di migrazione, e l’unica che Brodskij scelse volontariamente, fu quella che lui definirà come “l’arte di estraniarsi”. In un saggio, raccontando della sua adolescenza, scriverà:

Se facevamo scelte etiche, queste erano dettate non tanto dalla realtà immediata, quanto dai criteri imposti dalla letteratura. […] Dickens era più reale di Stalin o di Berija.

L’amore per la letteratura permetterà a Brodskij di trovare una via d’uscita da un mondo in cui il poeta non si riconosce e a cui guarda con disprezzo. In presenza di insegnanti considerati poco critici e di lezioni prive di riflessione, Brodskij sceglierà come propri maestri gli autori della letteratura mondiale e come proprie lezioni la lettura di libri. Saranno questi a conferirgli la consapevolezza più pericolosa per uno Stato totalitario: quella secondo cui ogni individuo è diverso dall’altro, ha una propria personalità, delle proprie aspirazioni e dei propri interessi. Così, in un mondo estremamente omologato come quello comunista, Brodskij divenne un individualista. In un discorso a proposito dell’esilio, il poeta spiegherà l’importanza dell’arte per la presa di coscienza dell’individuo rispetto alla propria natura:

Un’opera d’arte, in special modo un’opera letteraria, e una poesia in particolare, si rivolge all’uomo tête­-à-­tête, stabilendo con lui rapporti diretti, senza intermediari di sorta. […] In altre parole, all’interno di quei piccoli zeri sui quali i paladini del bene comune e i signori delle masse fanno conto per le loro operazioni, l’arte introduce delle varianti, “punto, punto, virgola, meno”, trasformando ogni piccolo zero in un piccolo volto, non sempre grazioso, magari, ma umano.” (p.43)

È grazie all’arte, a quell’arte censurata dallo Stato e ignorata dal buon cittadino sovietico, che Brodskij forma il proprio pensiero, la propria visione delle cose, a questo punto inevitabilmente in contrasto con quella del mondo in cui, almeno apparentemente, il poeta trascorreva la propria giovinezza. Oggi si è consapevoli del fatto che la cultura del luogo in cui nasciamo e cresciamo si insinua inevitabilmente dentro di noi, forgiando il nostro carattere e la prospettiva dalla quale vediamo e percepiamo il mondo. Se migrare significa lasciare il proprio posto d’origine per un altro in cui si è inevitabilmente, almeno per un certo periodo, stranieri, possiamo tranquillamente affermare che Brodskij, chiaramente straniero in terra sovietica, abbia trovato la propria isola felice in una dimensione altra, in una letteratura i cui valori erano lontani anni luce da quelli del mondo reale all’interno del quale il poeta muoveva i propri passi, ma non la propria mente. Interessante da questo punto di vista è la dichiarazione di Teasley, amica di Brodskij e fondatrice di una casa editrice a Vienna specializzata nella pubblicazione di opere censurate dal regime russo: “he refuses to be defined in any way by opposition to the Soviet government; he prefers to act as if the Soviet regime does not exist.”. La visione che Brodskij ha della Russia bolscevica è una visione esterna, la visione critica di chi è riuscito a sottrarsi alla macchina omologatrice di uno Stato totalitario. E tale estraneità si acuirà ulteriormente dopo la condanna, seguita al processo-­farsa di cui sopra, a cinque anni di lavori forzati nel distretto di Košovo, estremo nord della Russia occidentale. In questo panorama desolato, senza il caos cittadino, Brodskij potrà finalmente dedicarsi alla poesia, compiendo un ulteriore salto, quello che lo porterà a conoscere più approfonditamente una nuova spiaggia della sua isola letteraria: la poesia di Auden. Il vero motivo per cui Brodskij deciderà di imparare l’inglese non è legato infatti a finalità pratiche, ma, di nuovo, al suo continuo viaggio all’interno della terra che ha scelto come patria, la letteratura. Lui stesso scriverà:

Quando uno scrittore ricorre a una lingua che non sia quella materna può farlo per necessità come Conrad, o per una divorante ambizione, come Nabokov, o per arrivare a un estraniamento più profondo, come Beckett. […] Il mio unico intento era, allora come adesso, di ritrovarmi più vicino all’uomo che consideravo la più grande mente del ventesimo secolo: Wystan Hugh Auden.” (p. 105)

Lo studio della lingua inglese, intrapreso durante la “prima migrazione” brodskiana, risulterà poi particolarmente utile al poeta nel 1972, anno in cui si troverà ad affrontare una seconda migrazione, stavolta non volontaria, ma obbligata, non spirituale, ma fisica: una migrazione che lo porterà a passare il resto dei suoi giorni negli Stati Uniti. Passato un anno e mezzo dalla condanna ai lavori forzati, Brodskij verrà richiamato a Leningrado grazie al costante impegno profuso da scrittori come Achmatova in difesa della sua causa, entrerà a far parte dell’Unione degli Scrittori, ma, a causa del suo successo in Occidente, diventerà una figura sempre più scomoda al regime, finché questo non deciderà di cacciarlo una volta per tutte.

Dopo un breve soggiorno a Vienna, città in cui conoscerà il suo idolo Auden, Brodskij riceverà la proposta di una cattedra presso l’Università del Michigan, motivo per cui dovrà partire per gli Stati Uniti, che diventeranno la sua nuova patria. Qui potrà finalmente dedicarsi alla scrittura, all’insegnamento e alla traduzione, ma la serenità acquisita costituirà anche un ostacolo nel percorso di introspezione necessario per l’ispirazione poetica. A quanto pare esisteva un ponte tra la dimensione   letteraria   in   cui   Brodskij   si era rifugiato per tutta la vita e il mondo sovietico da cui scappava, un ponte che gli permetteva di trasportare tutte le brutture di quest’ultimo nella sua isola immaginaria, dove, intagliandole e lavorandole con lo strumento della lingua, il poeta le trasformava in tesori. Questa nuova migrazione così radicale aveva tagliato il ponte e trasformato l’isola immaginaria in un enorme continente reale, abitato non solo da libri e autori, ma anche da masse, governato da uno Stato e, soprattutto, il cui strumento di lavorazione era una lingua nuova, conosciuta dal poeta, ma non a lui intima. A questo proposito Brodskij scriverà:

[…] la condizione di uno scrittore in esilio somiglia a quella di un cane o di un uomo catapultato nello spazio dentro una capsula […]. E la tua capsula è il tuo linguaggio. […] Per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua.” (p. 32)

Ma il problema della lingua non è l’unico. Un’altra forte problematica è la poca conoscenza della società d’arrivo, che farà sentire il poeta sempre estraneo a essa. Brodskij fa difficoltà ad analizzare criticamente la democrazia statunitense perché non l’ha vissuta abbastanza e soprattutto perché per lui questa ha significato una seconda possibilità. Gli Stati Uniti hanno conferito al poeta la serenità di esercitare la propria professione, ma gli hanno tolto la capacità di svolgere una parte significativa nella sua nuova società e la mancanza di un significato è l’acerrima nemica di uno scrittore.

Proiettato dunque in una realtà che non capisce, con una lingua che non è la sua, lo scrittore esule continua a essere un’isola, così come lo era stato in quella che pretendeva essere la sua terra natia, solo con più riconoscimenti e meno problemi giuridici. Nonostante questo, Brodskij si sforzerà per adattarsi al meglio al nuovo contesto e scriverà poesie e saggi nella lingua della sua nuova patria, l’inglese. I riconoscimenti sono tali per cui nel 1987 gli verrà assegnato il premio Nobel, riservandogli in via definitiva un posto nella storia della letteratura, così da garantirgli per l’eternità la residenza in quell’isola immaginaria verso cui Brodskij amava migrare.

 

Bibliografia
Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, Milano, Adelphi, 1987
Iosif Brodskij, Dall’esilio, Milano, Adelphi, 1988
Cynthia Haven, Iosif Brodsky, Darker and Brighter, in “THE Nation”, 24/03/2016 [https://www.thenation.com/ article/archive/joseph­-brodsky­darker-­and-­brighter/]

Apparato iconografico 
Immagine in evidenza: https://tragicoalverman.wordpress.com/2014/02/02/iosif-brodskij-poesie-1972-1985/ 
1. http://www.pangea.news/iosif-brodskij-poesie-inedite/