“Dammi un pezzo della tua libertà e io ti toglierò il dolore”: è il vecchio trucco dei dittatori. Intervista a Witold Szabłowski

Intervista a cura di Niccolò Gualandris

 

Witold Szabłowski (Ostrów Mazowiecka, 1980) è un reporter polacco. La redazione di Andergraund Rivista ha recensito i suoi due reportage Orsi danzanti (Tańczące niedźwiedzie, 2014), tradotto in italiano da Leonardo Masi nel 2022, e Come sfamare un dittatore (Jak nakarmić dyktatora?, 2019), tradotto da Marzena Borejczuk nel 2023. I suoi libri sono pubblicati in Italia da Keller Editore.

Abbiamo intervistato Szabłowski al Salone del Libro di Torino 2024, ringraziamo l’autore e Serena Talento di Keller per la disponibilità dimostrataci.

 

AR: Il tuo libro ultimo libro tradotto in italiano, Come sfamare un dittatore, è composto da conversazioni che hai avuto con i cuochi di alcuni tra i dittatori più noti. Quello che ho imparato da queste interviste è che un cuoco può essere un affascinante personaggio secondario, incredibilmente vicino a dove accadono le cose, e che può essere in grado di raccogliere alcune intuizioni piuttosto impressionanti. Qual è la lezione principale che hai tratto da questo viaggio?

WS: Stavo parlando con la cuoca di Pol Pot, un’anziana signora sulla settantina che era stata innamorata di lui per tutta la vita. Mi sentivo stranissimo mentre parlavamo perché lei continuava a ripetere quanto fosse grata a Pol Pot, che grande personalità fosse, che carattere tenero avesse. Tuttavia, io sapevo che stava parlando di un omicida di massa, di un terribile criminale. La cuoca è morta quattro anni fa, quando la incontrai viveva molto vicino alla tomba di Pol Pot. Nel libro avrei voluto includere una scena in cui andavamo insieme alla tomba a cucinare, nel rispetto di una tradizione cambogiana che prevede di preparare qualcosa per i morti. Stavo cercando di convincerla a comprare gli ingredienti insieme e metterci a cucinare per lo spirito di Pol Pot, ma lei mi disse: “mio caro, non ha senso”. Quando le chiesi il perché, mi rispose: “ascolta, si è reincarnato! È tornato da noi! È in mezzo a noi! Vive da qualche parte, forse in Polonia, forse in Cambogia, forse in Italia, forse negli Stati Uniti”. Ne era certa. Quello fu il momento in cui compresi di cosa parlava davvero il mio libro: non trattava solo di ciò che i dittatori mangiavano, non trattava solo delle loro abitudini alimentari, era un avvertimento. Questo libro è un avvertimento, e quello che ho capito mentre lo stavo scrivendo è che la cuoca aveva ragione! Ci sono nuovi Pol Pot intorno a noi, vivono tra noi. Il titolo del libro ha dunque un doppio significato: da un lato riguarda il modo da un lato riguarda il modo in cui i cuochi hanno nutrito i loro dittatori, dall’altro come noi nutriamo i nostri oggi, come li rendiamo fornendogli le sostanze nutritive, le calorie ed l’energia per crescere.

 

Come sfamare un dittatore : Szablowski, Witold, Borejczuk, Marzena: Amazon.it: Libri

 

AR: Il tuo libro precedente, Orsi danzanti, affronta il trauma della vita post-socialista, paragonando le persone dei Paesi ex-socialisti a orsi in cattività, impossibili da liberare perché non sanno cosa farsene della loro libertà. Secondo il tuo punto di vista, l’improvviso passaggio all’economia capitalista di gran parte del mondo ha rappresentato più un trauma o un’opportunità? Mi sembra che, mentre una certa libertà di movimento, di pensiero e di impresa sia stata benefica, ciò che manca di più alla gente sia un senso di stabilità, persino di prevedibilità, che è andato perduto all’inizio degli anni Novanta.

WS: Io ho vissuto quel trauma in prima persona, da piccolo. Sebbene fossi un bambino potevo vedere ciò che stava succedendo e lo capivo. Ricordo la Polonia comunista, quando nei negozi non c’era niente Letteralmente niente! Andavi in un negozio e trovavi solo scaffali vuoti; forse c’era un po’ di aceto, ma non la carta igienica. Non c’era niente. Non sto parlando della Coca-Cola, ma di beni di prima necessità: non c’era il pane, non c’era la carne. Per mangiare bene bisognava avere dei famigliari in un villaggio o essere una specie di borghese-comunista, in qualunque modo lo si voglia immaginare. Ma poi, da un giorno all’altro, abbiamo cambiato il sistema e siamo diventati una società capitalista, basata sul libero mercato, democratica. È stato fantastico. Sono ancora convinto che sia un grande risultato per il mio Paese ma, allo stesso tempo, ha richiesto il suo prezzo e noi lo abbiamo pagato.  Molte persone hanno perso la loro stabilità, il tasso di disoccupazione è aumentato del 25% in pochi anni e i miei genitori sono stati tra coloro che hanno perso il lavoro nei primissimi anni di questa trasformazione. Ricordo cosa significasse vivere in quei tempi eccitanti, in cui gli scaffali erano pieni di prodotti di ogni tipo, specie di frutti di cui non sapevo nemmeno l’esistenza. Ma, perdendo il lavoro, i miei genitori sono diventati molto stressati e, così, abbiamo perso anche noi la nostra stabilità. Ho imparato da solo cosa comporti passare dalla dittatura alla libertà, molte persone non sono pronte a pagare questo prezzo, credo sia ovvio. Quando mi fanno delle domande sulla nostalgia per il comunismo, e sono domande piuttosto comuni, rispondo sempre che non si tratta di una nostalgia per la mancanza di libertà ma di una nostalgia per quella sorta di stabilità. Molte persone sarebbero perfettamente felici nel vendere o restituire la loro libertà per avere in cambio un po’ di stabilità. Si tratta di una tendenza normale quando hai una famiglia da sfamare, un debito da pagare e qualcuno viene e ti dice: “ci penso io, dammi solo un pezzo della tua libertà e io ti toglierò il dolore”. Si tratta di un patto semplice. Un patto con il diavolo, certo, ma in molti sono pronti a firmarlo. I dittatori ti promettono che la tua vita sarà più facile, che non dovrai più soffrire, che ti estingueranno un debito o che renderanno di nuovo grande l’America [“Make America Great Again”, slogan di Donald Trump. N.d.R]. Alla fine, quello che ti promettono è una vita come quella di una volta, quando tutto andava meglio. È solo un vecchio trucco.

 

Orsi danzanti. Storie di nostalgici della vita sotto il comunismo - Witold Szablowski - Libro - Keller - Razione K | IBS

 

AR: Il tuo primo libro pubblicato in Italia da Keller, L’assassino della città delle albicocche (2010) è basato sui tuoi viaggi in Turchia. Un Paese che è cambiato drasticamente negli ultimi vent’anni e che continua a farlo. La Turchia è l’esempio perfetto di un Paese ritratto sempre in bilico tra Oriente e Occidente, due categorie che devono essere ponderate a fondo nel mondo contemporaneo. Cosa significano per te Oriente e Occidente? Queste categorie sono ancora utili o dobbiamo prestare attenzione a qualcos’altro per comprendere meglio il mondo che ci circonda?

WS: Quello che amo della Turchia è la metafora del traghetto tra Europa e Asia. Istanbul è l’unico luogo al mondo dove si può andare da un continente all’altro in una quindicina di minuti di traghetto. Adoro prendere quel traghetto e il viaggio, è meraviglioso e molto simbolico. Una delle teorie contenute nel mio libro è che i turchi viaggino continuamente da Est a Ovest e l’altra mia teoria è la stessa che applico a tutta l’Europa orientale, anche ai polacchi e agli ucraini: l’Ucraina, in effetti, sta combattendo una guerra proprio per questo motivo, stanno lottando per una posizione stabile in Occidente. Tuttavia, una grande potenza chiamata Russia cerca di tenere gli ucraini in Oriente. Ovunque uno viva sul confine tra Oriente e Occidente ha un prezzo da pagare: la Polonia l’ha pagato per secoli cercando di appartenere all’Occidente e ora tocca all’Ucraina. Riguardo i turchi, è affascinante il modo in cui continuano a viaggiare tra Oriente e Occidente, tra modernità e tradizione. Sono letteralmente in grado di fare avanti e indietro due volte all’ora con il traghetto, si tratta di un tragitto tanto reale quanto simbolico. Quando mi chiedono perché amo viaggiare in Paesi come l’Ucraina, la Bulgaria, la Romania, racconto sempre questa storia. Stavo guidando sulle montagne ucraine e vidi da lontano una signora nel mezzo di una foresta con in braccio quello che pareva un enorme cane. Pensai che probabilmente le servisse un passaggio, così mi fermai e le chiesi se avesse bisogno di essere portata da qualche parte. In quel momento mi resi conto che quello che portava in grembo non era un cane, ma un cucciolo di orso. Così pensai tra me e me: “questo non potrebbe accadere da nessun’altra parte in Europa”. Nel senso, ho guidato con una signora e un orso in macchina, sarebbe impensabile in qualsiasi contesto occidentale. Per cui sebbene ci sia un aspetto positivo, quello dell’imprevedibilità, il lato negativo di quando vivi nell’Europa Orientale è che il tuo vicino può attaccarti e iniziare a uccidere i tuoi concittadini. È successo nel passato recente e sta accadendo proprio oggi in Ucraina. Ci sono voluti così tanti anni perché la Polonia si stabilizzasse in Occidente e iniziasse ad appartenervi, ci sono voluti così tanti decenni per entrare nella NATO e nell’Unione Europea, per sentirsi parte di quella comunità occidentale basata su dei valori fondamentali comuni: i diritti umani, la libertà di parola e la democrazia, non sono solo degli slogan, ce ne si rende conto osservando ciò che sta accadendo in quei Paesi che non sono ancora membri dell’Unione.

AR: Nelle pagine introduttive a Come sfamare un dittatore dici che tu stesso sei stato cuoco per un breve periodo prima di iniziare a scrivere. Come sei diventato un reporter? Cosa ti ha spinto e qual è stato il tuo percorso?

WS: Se cresci in Polonia e sei un lettore, prima o poi entrerai in contatto con le straordinarie opere del cosiddetto “reportage narrativo”. Ho letto il mio primo reportage quando avevo dodici o tredici anni, e da allora scrivere non-fiction è sempre stato il mio sogno: ti permette di viaggiare, anzi, sei costretto a farlo, ed è bello. Inoltre, mi ha sempre incuriosito scoprire come vivono le persone, mi è sempre piaciuto parlare con la gente. È un lavoro perfetto per una persona curiosa come me perché ti permette di imparare un sacco di cose che molte persone non sanno. Per uno che ama far vuotare il sacco su dei segreti e parlare con persone straordinarie, questo è probabilmente il lavoro più adatto.

 

AR: Una delle competenze chiave di un giornalista è imparare a trattare con le persone, la loro disponibilità a darti delle informazioni e il loro diritto a rimanere in silenzio o addirittura a mentire. Come ti avvicini a coloro che incontri per instaurare uno scambio proficuo?

WS: Di solito, i giornalisti non passano molto tempo con i loro interlocutori. Si fermano solo per una decina di minuti o si limitano a una telefonata, è insolito che si fermino per un’ora. Quando vado a trovare i miei interlocutori solitamente sto con loro per una settimana o due, a volte anche di più. Se non sei un coglione, se sei uno a posto e che sa come parlare con le persone, senza cercare solo di usarle o imbrogliarle, allora due settimane sono un periodo sufficiente per costruire un rapporto di fiducia, un legame o anche un’amicizia. Ho esperito qualcosa di simile soprattutto mentre stavo lavorando al libro sui cuochi dei dittatori, perché il loro istinto naturale era quello di non parlare. Sanno di essere vivi perché non hanno parlato. Quando cucini per un dittatore, non puoi parlare del tuo lavoro. Ritengo di essere riuscito a farli parlare tutti solo grazie a tutto il tempo che mi sono concesso di trascorrere con loro.

 

AR: Come reporter provieni forse dall’unico contesto europeo in cui si è sviluppata una vera e propria scuola di reportage. Che rapporto hai con la scuola di reportage polacca iniziata da Ryszard Kapuściński? Quale pensi sia la sua eredità nella Polonia di oggi?

WS: Innanzitutto, sappiamo che Kapuściński si è inventato alcune delle sue storie, ma non è questo il problema. Provo sentimenti contrastanti nei suoi confronti. Non sono contento del fatto che si sia inventato alcune cose, ma rimane comunque un maledetto genio e, in ogni caso, ritengo che sia stato un grande scrittore. Non riesco proprio a spiegarmi il perché Kapuściński abbia dovuto inventare quelle storie: era sempre in viaggio, ha davvero assistito a delle rivoluzioni, si trovava proprio lì, ha incontrato persone straordinarie e uno potrebbe ritenere che la sua esperienza potesse bastargli per scrivere dei grandi libri: non ho alcuna idea del perché si sia inventato alcune cose. Ha comunque fatto qualcosa di grande perché è stato uno dei primissimi al mondo a iniziare a fare giornalismo al più alto livello possibile, cioè il reportage narrativo. Anche se ha fatto qualche sbaglio, lo ammiro. Kapuściński, come anche Hanna Krall e altri maestri, sono per me come dei supereroi del reportage.

 

Torino, Salone del Libro, 10/05/2024