Tra regimi e nostalgie. “Orsi danzanti” di Witold Szabłowski

Martina Mecco

 

Orsi danzanti (“Tańczące Niedźwiedzie”) di Witold Szabłowski è  un’opera edita in polacco nel 2014 e pubblicata quest’anno da Keller Editore all’interno della collana Razione K nella traduzione di Leonardo Masi. Alla collana, il cuoi pregio sta nel contribuire a diffondere nello spazio editoriale italiano testi che parlino di spazi geografici ancora sotto certi aspetti carichi di stereotipi e privi di un’analisi esaustiva, appartengono grandi nomi legati al genere del reportage come quello dello studioso austriaco Martin Pollack o dell’autore sloveno Dušan Šarotar. La figura di Witold Szabłowski ha già debuttato in Italia, sempre presso la stessa casa editrice, nel 2019 con L’assassinio della città delle albicocche (“Zabójca z miasta moreli. Reportaże z Turcji” 2010), reportage che indaga la polifonia della Turchia contemporanea.

Link al libro: https://www.kellereditore.it/2022/02/09/orsi-danzantiwitold-szablowski/

Orsi danzanti. Storie di nostalgici della vita sotto il comunismo - Witold Szablowski - Libro - Keller - Razione K | IBS


L’attività di Szabłowski si inserisce appieno all’interno della grande tradizione polacca del reportage, nella quale è possibile annoverare nomi importanti come quello di Ryszard Kapuściński, autore di EbanoImperium, o quello di Wojciech Jagielski, giornalista della “Gazeta Wyborcza” impegnato per diverso tempo nel conflitto ceceno da cui nel 2004 è nata l’opera Wieże z kamienia (“Le torri di pietra”). Accanto a questi si possono citare anche Wojciech Tochman, il giornalista Mariusz Szczygieł e Małgorzata Rejmer, che ha dedicato due interessanti indagini al contesto bucarestino (Bukarezszt. Kurz i krew – “Bucarest. Polvere e sangue”, 2013) e a quello albanese di Hoxha (Błoto słodsze niż miód – “Il fango è più dolce del miele”, 2018).

Tanto nel già citato reportage L’assassinio della città delle albicocche, quanto nell’articolo del 2008 To z miłości, siostro (“È per amore, sorella”), dedicato alla condizione delle donne nella società turca, Szabłowski ha dato prova dell’efficacia del metodo con cui sonda le dinamiche della Turchia odierna. Dalla penisola anatolica, lo sguardo del reporter polacco si è spostato ad indagare questioni che hanno, invece, a che fare con quei paesi che hanno vissuto non solo il trauma dei regimi comunisti ma anche il loro crollo, le cui conseguenze rappresentano un tema d’indagine particolarmente in voga negli ultimi anni. Difatti, la questione che riguarda la situazione in cui si sono riversati gli stati ex-comunisti all’indomani del traumatico passaggio a sistemi socio-economici liberali e di stampo capitalista è quanto mai complessa e brulicante di elementi che potrebbero sembrare contraddittori. A questa transizione si rifà lo stesso Szabłowski sin dalle prime battute:

La Terra della Transizione è un magma che ha cominciato a fuoriuscire da quel vulcano chiamato ‘Unione Sovietica e Paesi satelliti’ un attimo prima che questo vulcano eruttasse e cessasse di esistere. […] La prima ondata di magna iniziò a fuoriuscire quanto il 4 giugno 1989 in Polonia ci furono le prime elezioni (quasi) libere. Poi cadde il Muro di Berlino. E il magma iniziò a riversarsi per davvero.” (p. 14)

La situazione viene descritta con una metafora alquanto calzante, il crollo di un sistema profondamente interconnesso non si potrebbe rappresentare in modo più efficace se non con il rimando a un’esplosione. Esito di questa esplosione è una libertà enormemente distante dal sistema vigente, che negli stati dell’ex-blocco sovietico era caratterizzato da un insieme di leggi molto rigide e da un controllo serrato non solo della vita pubblica ma anche di quella intima. Szabłowski parla, infatti, di una libertà a cui un grande pezzo di mondo non era stato preparato.

L’opera si divide in due parti, dopo una prima dedicata interamente alla questione bulgara, l’autore inizia un excursus che attraversa differenti contesti nazionali, o neo-nazionali, in cui è stata in qualche modo esperito un sistema socio-economico di stampo comunista. Dopo un primo sguardo sulla questione cubana, Szabłowski torna nel contesto europeo per mostrare, con un approccio quasi fisiognomico, il complesso rapporto tra futuro e eredità. Nella prosa del reporter polacco si assiste a una ricca coralità, a parlare sono tanto gli individui direttamente intervistati quanto i luoghi, anch’essi profondamente segnati dai grandi decorsi storici. Szabłowski mostra al lettore un mondo in bilico tra la necessità di abbandonare delle strutture sociali e il complesso tentativo di abbracciarne di nuove. Attraverso le strade di Prishtina, facendosi raccontare delle storie da Lady binario – una donna polacca invalida senzatetto che va bighellonando per l’Europa – o interrogandosi sulla  visione che gli attuali abitanti di Gori hanno del dittatore sovietico Iosif Stalin, è possibile osservare la complessità ideologica del sistema in cui questi paesi si trovano immersi. Ciò che emerge dall’osservazione di questi contesti sono delle situazioni che a una mente esterna possono apparire come assurde, dove la convivenza di alcuni elementi sfiora l’idiosincrasia. Un simbolo di questo aspetto può essere ritrovato nella questione dei bunker costruiti sul territorio albanese dal dittatore che ha segnato in modo indelebile la storia del paese, Enver Hoxha. Costruiti in un numero esorbitante all’indomani della seconda guerra mondiale secondo un atteggiamento alla stregua dell’ossessione e della paranoia, i “funghi di calcestruzzo” che costellano l’Albania diventano emblema di questo precario equilibrio. Se Gjergj Ndrecën afferma che la distruzione dei bunker è l’inizio della loro liberazione mentale dal comunismo, un operaio di Berat, Djoni, riporta invece che questi bunker sono parte integrante della sua vita, che non riesce a immaginarsi la loro scomparsa, soprattutto se ciò accade in seguito al complesso processo di capitalizzazione del paese.

I  singoli capitoli del libro di Szabłowski  contribuiscono a costruire un discorso più ampio che si identifica con una riflessione del rapporto tra l’individuo e il corso della Storia. Il rapporto dei singoli individui, quanto della comunità in senso collettivo, con il passato può essere rappresentato attraverso una delle immagini descritte dall’autore nelle pagine iniziali dell’opera:

E ho imparato che per ogni orso danzante in pensione c’è un momento in cui la libertà inizia a far male. E allora cosa fa? Si mette sulle zampe posteriori e inizia a… ballare.” (p. 17) 

Parco degli Orsi Danzanti in Bulgaria - Belitsa ex Dancing Bears Sanctuary

Le vicende che hanno segnato il secolo scorso restano inesorabilmente ancorate alla vita di coloro che le hanno esperite in prima persona. Se, involontariamente, l’individuo si accorge di non riuscire a riconoscerci completamente in nuovi schemi socio-culturali e percepisce un sentimento di nostalgia nei confronti di elementi spazzati via da un nuovo – e precoce – assetto del mondo, d’altra parte dovrebbe essere volontaria la necessità di ricordare. Solo con il ricordo, infatti, il passato può assurgere alla sua funzione più importante: quella di stimolare la riflessione su un presente quanto mai imperscrutabile e a tratti frastornante. Stabilire un rapporto con il passato recente non ha un significato meramente collettivo, ma è un discorso che invade la dimensione privata del singolo, motivo che sottolinea il valore delle testimonianze raccolte in opere come Orsi danzanti. Quando e se gli orsi smetteranno di danzare, dipende al tempo tanto dall’elaborazione di quest’eredità quanto dall’assimilazione a nuovi ordini socio-culturali.

Apparato iconografico:

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Immagine 1: https://www.sonego.net/wp-content/uploads/2019/09/dancing-bears-.jpg