Parola e azione. Sincretismo e meta–distopia in “La giornata di un opričnik” di Vladimir Sorokin

Niccolò Gualandris

 

Abstract:

Word and Action. Sincretism and Meta–dystopia in “Day of the Oprichnik” by Vladimir Sorokin

This paper explores Vladimir Sorokin’s exploration of genre fiction throughout his career, focusing on the novel Den’ oprichnika (“Day of the Oprichnik” 2006), which depicts a futuristic Russia in the grip of a neo–tsarist regime. Sorokin analyses the dystopian discourse through Kamiaga, the main character, and forces the reader to refute identification and immersion with him. This “gag reflex” is a tool the author employs to stimulate anti–authoritarian and meta–literary reflections. The aim of this paper is to provide a summary of the author’s point of view on contemporary Russia and Russian history, as well as to conduct an analysis of Sorokin’s interplay of genre staples, cultural and literary references in Den’ oprichnika.


 

Vladimir Sorokin, nato a Byoko, Mosca, nel 1955, è tra gli scrittori russi più criticamente rilevanti degli ultimi decenni. Esordisce negli anni Settanta, dopo una laurea in ingegneria, nell’ambito del movimento concettualista moscovita e inizia a muovere i primi passi nell’underground della capitale, dividendosi tra scrittura e arti visive.

Vladimir Sorokin. © M. Kabakova

Il suo romanzo d’esordio, Očered’ (“La coda”) del 1985, è composto da soli dialoghi e rappresenta in presa diretta una scena emblematica di vita tardo–sovietica, la coda al negozio di alimentari. Le sue opere degli anni Novanta seguono un principio di mimesi formale del realismo socialista, innestando all’interno dello stile ufficiale sovietico il germe dell’eversione ribaltando la natura che voleva supporsi edificante nei contenuti. Violenza pulp, sesso, dissacrazione dei miti sovietici, deformazione della realtà costituiscono i tasselli dell’operazione parodica di Sorokin in questa fase della sua carriera rappresentata da romanzi come Roman (“Romanzo”, 1994) e Tridcataja ljubov’ Mariny (Il trentesimo amante di Marina”, 1995).

Nel 1999 con il romanzo Goluboe salo (“Lardo azzurro”) Sorokin chiude i conti con il realismo e inaugura una nuova stagione più vicina alla narrativa speculativa. La cosiddetta Trilogia del ghiaccio, composta da Lëd (“Ghiaccio” 2002), Put’ Bro (“Bro”, 2004) e 23 000 (2005), affronta l’ondata di neo–esoterismo settario di cui sembra così affamato il mondo del Terzo Millennio. Den’ opričnika (“La giornata di un opričnik”, 2006) e Sacharnyj kreml’ (“Il Cremlino di zucchero”, 2008) propongono la visione distopica di una Russia isolata dall’Occidente, nella quale il secolare verticismo politico–religioso (definito da Sorokin “Piramide del Potere”) si sostanzia in un regime sincretico, che sintetizza elementi imperiali, sovietici e dell’odierna ideologia putiniana.

Parallelamente, Sorokin si dedica anche al proprio rapporto artistico con i classici russi dell’Ottocento, dai quali mutua lo stile per veicolare un contenuto personale, spesso ribaltando l’immaginario degli autori da cui attinge. È questo il caso, tra gli altri, del romanzo Metel’ (“La tormenta”, 2010), che prende le mosse dal racconto Chozjain i rabotnik (“Il padrone e il lavorante”, 1895) di Lev Tolstoj per mettere in scena il viaggio di un medico e un subalterno che, con una motoslitta a 50 cavalli – cinquanta veri cavallini minuscoli nel cofano – affrontano una tempesta di neve per consegnare un vaccino anti–zombie ad un remoto villaggio. La morale tolstojana del povero ingenuo e buono che si salva a scapito del “padrone” viene ribaltata da Sorokin sul finale.

L’incredibile maestria mimetica, l’innovazione linguistica, la convergenza postmoderna di diversi strati culturali, la compresenza di un forte dialogo con la propria tradizione nazionale e l’apertura, spesso polemica, alla world literature, la sovversione sottesa ad ogni sua opera, fanno di Sorokin un indiscusso maestro di stile della letteratura russa e mondiale contemporanea. Di prossima pubblicazione in Italia, presso La Nave di Teseo, è Doktor Garin (“Dottor Garin”, 2021), seguito de La tormenta. Nel 2023 è uscito in Russia Nasledie (“L’eredità”), ultimo libro della trilogia del Dottor Garin ambientato in un mondo post-apocalittico estremo e lontano dalla contemporaneità, colpito da armi nucleari, dove a dominare è la figura del treno (che appare in copertina), simbolo della letteratura e dell’immaginario russo come elemento di “collegamento”. Oltre alla sua attività di scrittore, Sorokin è anche autore teatrale, sceneggiatore e librettista d’opera.

Per il lettore avvezzo alla narrativa distopica è importante capire come i diversi autori declinano e interpretano, seguono o disattendono i canoni del genere. C’è chi sceglie un tono grottesco o ironico, che crei immediato straniamento nel lettore, chi invece si muove nel territorio dl verosimile, spesso spingendo verso l’identificazione in prima persona del lettore in un protagonista che si ribella al sistema di cui è schiavo. E se invece il punto di vista del protagonista non fosse quello di un dissidente ma di un membro organico della società cosiddetta distopica, non represso, non coercizzato ma volontariamente devoto, che dunque non faccia trasparire nessun dubbio, nessuna esitazione nello svolgimento delle sue azioni organiche al sistema? Cosa crea tutto ciò nel lettore, portato per abitudine all’identificazione con il protagonista di una narrazione romanzesca? Se per la voce in prima persona la società in cui egli vive è normale, addirittura desiderabile, si potrebbe dire che l’identificazione distopica avviene solo attraverso uno scollamento e un capovolgimento del processo di identificazione, in cui chi legge non è catturato, come di solito succede ma respinto dal mondo che il protagonista abita attraverso un rigetto violento dell’intera impalcatura di valori e convinzioni che egli incarna e dell’intera società di cui accetta incondizionatamente i dettami. Questo tipo di ragionamento, che si può definire meta–distopia, è la riflessione sul genere letterario e sulla storia russa che lo scrittore Vladimir Sorokin applica nel suo breve romanzo Den’ opričnika, pubblicato in Russia nel 2006 e tradotto in italiano da Denise Silvestri per Atmosphere libri nel 2014.

Copertine di edizioni russe, inglese, italiana de “La giornata di un opričnik”


In Den’ opričnika, titolo che rimanda in modo polemico al romanzo breve Odin den’ Ivana Denisoviča (“Una giornata di Ivan Denisovič”, 1962) che valse il Nobel per la letteratura al suo autore, Aleksandr Solženicyn, Sorokin racconta la giornata di lavoro di Kamjaga, membro dell’opričnina, milizia privata realmente creata da Ivan il terribile nel XVI secolo con lo scopo di controllare direttamente il vasto territorio russo e reprimere gli oppositori. Gli opričnik del 2027 rispondono al Sovrano Nikolaj Platonovič, succeduto dinasticamente al padre e restauratore del potere imperiale del “Sacro Rus’”. Questa inquietante reincarnazione neo–imperiale viene perpetrata attraverso un modello di governo autoritario e repressivo esercitato imponendo il controllo totale sulla popolazione, il cristianesimo ortodosso come religione di stato, le punizioni corporali pubbliche sulla piazza Rossa, ai piedi di un Cremlino completamente dipinto di bianco sulle cui torri svetta la bandiera con l’aquila imperiale.

Dall’alba al tramonto si assiste dal punto di vista di un aguzzino spietato all’ordinaria amministrazione del volere del sovrano. “Parola e azione” è il motto degli opričnik mentre compiono roghi, sequestri, violenze, esecuzioni. Sempre in gruppo, uniti dallo strettissimo legame ideologico e fisico con i camerati e dall’incrollabile fede nel Sovrano. Solo la fiducia incrollabile di Kamjaga nei camerati dell’opričnina, dell’opričnina in Batja, il membro più anziano e di Batja – un nome parlante, che deriva da “batjuška”, l’appellativo che veniva comunemente associato a Stalin per identificarlo come il “padre” dello Stato Sovietico – nel Sovrano permette all’intera impalcatura di terrore e controllo di trattenere nella propria morsa il Paese e di arginare il suo declino.

Batja è forte, prestante, con il viso giovane malgrado i capelli tutti grigi. È un piacere guardarlo mangiare: si nutre con calma, con ponderatezza. Batja è il nostro fondamento, la principale radice di quercia su cui si regge tutta l’opričnina. È stato il primo al quale il Sovrano ha affidato l’Azione. Su di lui, in tempi complessi, carichi di destino per la Russia, il Sovrano ha posto le basi del suo dominio. Il primo anello della catena di ferro dell’opričnina è stato Batja. A lui si sono agganciati gli altri, stretti, saldati nel Grande Anello dell’opričnina, con le spine rivolte all’esterno. Con quell’Anello il Sovrano ha cinto un paese malato, marcio e sul punto di crollare, lo ha serrato come avrebbe fatto con un orso ferito, da cui sprizzino sangue e secrezioni purulente. E l’orso si rinvigorisce nella carne e nelle ossa, guarisce le proprie ferite, accumula grasso, si fa crescere le unghie. Il sangue marcio, avvelenato dai nemici è suppurato. Adesso l’orso russo ruglia, lo sente il mondo intero. Prestano ascolto al suo rugliare non solo in Cina e in Europa, anche oltreoceano.” (Sorokin, 2014: 32)

Nel 2013 Yaroslav Schwarzstein e Vladimir Sorokin hanno realizzato “Opričnaja kniga”, (“Il libro dell’opričnina”): un volume ispirato ad alcuni episodi de “La giornata di un opričnik” e “Cremlino di zucchero” illustrato da Y. Schwarzstein; Sorokin ha contribuito con lettering e calligrafia. © Y. Schwarzstein, 2013

 

La meta–distopia di Sorokin emerge nella narrazione estremamente realistica e cruda della realtà dal punto di vista di Kamjaga, che pratica la violenza al posto di subirla – come invece la subiva la vittima del Gulag Ivan Denisovič –. Kamjaga sente di star eseguendo il proprio dovere, non mette in dubbio le direttive che riceve ma anzi le attua con particolare piacere: sente di vivere in un’utopia.

Il giudizio morale da parte di un narratore onnisciente a cui il pubblico generalista fa spesso erroneamente corrispondere l’ideologia dell’autore è qui consapevolmente sottratto; egli non abbraccia né confuta la narrazione ma bensì la scompone e la analizza. L’onere della sentenza viene lasciata al lettore, il quale, auspicabilmente, ricondurrà nel novero delle realtà futuribili ma non desiderabili, e quindi distopiche, ciò che ha appena letto. D’altra parte, la vivida crudezza a cui Sorokin tende è un dispositivo finemente perfezionato dall’autore per indurre un “riflesso di vomito” che, come afferma egli stesso “non sempre si rivela una cosa negativa ma purifica l’organismo”.

La Russia del 2027 descritta nel romanzo è finalmente pacificata dopo tre grandi rivolte, quella rossa – la Rivoluzione russa del 1917 –, la bianca – il caos seguito alla dissoluzione dell’URSS nei primi anni Novanta –, e una misteriosa rivolta grigia, sedata definitivamente dal padre dell’attuale Sovrano presente nel romanzo. Sorokin dipinge un paese fisicamente isolato dal Grande Muro russo, che lo separa dall’Europa considerata un “regno di degenerati e cyberpunk” ai quali però si continua a vendere gas e petrolio. Vengono mantenuti i collegamenti con l’Asia, in uno spostamento di asse commerciale e culturale che evoca in modo critico l’Eurasiatismo del filosofo Aleksandr Dugin, le cui teorie geopolitiche hanno avuto un’influenza innegabile nella costruzione dell’ideologia putiniana, ricoprendo tuttavia un ruolo minore rispetto a quello che gli viene solitamente riconosciuto. Come evidenzia lo storico Giovanni Savino: “spesso e volentieri erroneamente indicato – anche per propria vanità – come ideologo di Putin, Dugin nello scenario politico russo non ha mai occupato un ruolo centrale, anche quando ha provato con tutte le proprie forze a emergere”. Nella Rus’ di Sorokin i cittadini russi hanno rinunciato a emigrare e, con il grande gesto patriottico di bruciare – si dice volontariamente – i propri passaporti sulla piazza Rossa, hanno accettato le politiche isolazioniste del Sovrano. La minaccia esterna è perciò arginata, il nemico è demonizzato e schernito in ogni contesto, persino nelle opere teatrali.

La scena è buia, c’è solo il vento che ulula; poi strimpellano dombry e balalajki. La luna spunta da dietro le nuvole, rischiara tutto con la sua luce pallida. Al centro della scena, il Terzo Gasdotto Occidentale. […] Il gasdotto si estende strisciando sulla scena attraverso boschi e campi russi, scintilla nella penombra, incontra il Muro Occidentale, passa attraverso la valvola–saracinesca con la scritta “Chiuso”, si tuffa nel muro e prosegue oltre, verso Occidente. […] Riecheggiano i suoni bassi di un allarme: lungo la saracinesca si forma nella terra la buca di una talpa. In un istante, da quella buca esce un sabotatore–talpa con gli occhiali neri, si guarda intorno, annusa, salta fuori, si aggrappa alla saracinesca, si attacca con tutte le sue forze, aiutandosi con gli enormi denti, ed ecco che sta per aprirla, per far ripartire il gas! Ma un raggio sferzante balena dal muro, taglia la talpa a metà. Le viscere si riversano fuori, si sparpagliano in giro, il sabotatore–ladro lancia un urlo straziante, esala l’ultimo respiro. […] Le guardie gagliarde ballano e cantano: […] se è il gas quello che vogliono Be’, saranno accontentati. Ne otterranno finché muoiono! Una guardia apre la saracinesca, gli altri due si precipitano verso un’estremità del gasdotto, ci appoggiano il sedere e scoreggiano. Le scoregge passano nel gasdotto con un suono minaccioso, scorrono per il Muro e… da Occidente si alzano grida e lamenti. Suona l’accordo finale, i tre baldi giovani saltano sul gasdotto e sollevano i mitra con aria di vittoria. Sipario.” (Sorokin 2014: 55)

L’economia è basata sul protezionismo e le merci si spostano col sistema definito “Transit”, un’enorme autostrada che percorre l’intera Rus’ e lo collega con la Cina, il partner commerciale privilegiato, dov’è delocalizzata la maggior parte della produzione. Il rapporto con la Cina è di una tesa cordialità, dopo che la Rus’ ha rinunciato al completamento del Grande Muro orientale ma i russi sanno di dipendere dall’industria cinese per quasi tutto e vivono un complesso di inferiorità nei loro confronti. Non ci sono supermercati ma “Chioschi” che, per gentile concessione del Sovrano, vendono due varianti di ogni prodotto, per opporsi a quanto avveniva nell’unione sovietica ma senza aprirsi al libero mercato.

La forma di governo della Rus’ ricorda la Russia di Ivan il Terribile, con il grande sovrano a capo dello stato in alleanza con la chiesa ortodossa e la milizia degli opričnik a mantenere l’ordine tra popolazione e nobili corrotti e decadenti. I tratti della Russia imperiale sono presenti ma convivono con caratteristiche del periodo sovietico – diversi servizi segreti in competizione l’uno con l’altro, istituzioni come il coro dell’armata rossa e l’unione degli scrittori, per esempio, ma anche la censura dei media e dell’editoria – e postsovietico, come la corruzione diffusa, il mercato nero e l’economia informale in cui tutto si può comprare e vendere, nel collasso del sistema monetario che ricorda i primi tempi di Boris El’cin.

Elementi futuristici in stile cyberpunk come automi, ologrammi, impianti e circuiti sottocutanei sono presenti ma si scontrano con una visione decisamente oscurantista e retrograda, a partire dall’autarchia linguistica in cui tutti i nomi devono essere “russizzati” ne risulta quello che nell’ambito della fantascienza si chiama retro–futurismo, rappresentato da gadget e tecnologie che sembrano provenire dall’immaginario del futuro visto dal passato, un futuro che non si è mai avverato. Tutte le droghe eccitanti, su tutte la cocaina, sono legalizzate mentre quelle sedative bandite, in quanto percepite dannose al superuomo russo iper-performante.

Da “Opričnaja kniga”. © Y. Schwarzstein, 2013

A partire da questa descrizione della società e della nazione russa, il narratore non nasconde ciò che non è portato a compimento, nel progetto autoritario del Sovrano. Le parolacce sono bandite ma gli opričnik se le lasciano sfuggire; tutto si può comprare al mercato nero e i dissidenti facoltosi possono corrompere gli aguzzini per essere lasciati in pace. Le crepe si scorgono e la meta–distopia si percepisce sempre più chiaramente. La nazione che ha cercato di riunire in un perverso sincretismo i regimi del passato è fatalmente viziata dalla già richiamata “piramide del potere”, la gestione verticistica e autocratica del potere politico che per Sorokin sembra essere una costante della Storia russa.

In un articolo comparso sulla versione online del “Guardian” il 27 febbraio 2022, pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, Sorokin spiega eloquentemente l’evoluzione di quella che lui definisce in termini di “Piramide del Potere”. Ne fa risalire l’origine a Ivan il Terribile che, nell’istituire l’opričnina (1565–1573), cercava di governare capillarmente un territorio vasto e diseguale. Il potere occupante, per essere efficace, sarebbe dovuto essere forte e incomprensibile al popolo, con una sola persona, un solo sovrano alla cima della piramide. Questa piramide, sostiene Sorokin, si mantenne durante l’era sovietica e, mutatis mutandis, anche dopo la dissoluzione dell’URSS. El’cin “non distrusse la struttura medievale della piramide; riverniciò semplicemente la facciata: sopra il tetro cemento sovietico essa fu colorata e coperta di cartelloni pubblicitari di prodotti occidentali. Ora sulla piramide troneggia da oltre vent’anni Vladimir Putin che “avendo infranto le sue promesse, stringe a sé la poltrona con tutta la sua forza. Dopo essersi conquistato il favore popolare e aver vinto le elezioni egli si è saldamente installato alla cima delle istituzioni e ha gradualmente annientato le opposizioni.

Sorokin fornisce un ritratto estremamente vivido e letterario di questa entità e dell’effetto che la Piramide ha su chi governa:

La Piramide del Potere vibrava e le sue vibrazioni avevano fermato il tempo. Come un enorme iceberg, il paese galleggiava nel passato – prima quello sovietico, poi solo quello medievale. […] la perversione della Piramide del Potere sta nel fatto che chiunque stia in cima possa trasmettere le sue malattie psicosomatiche all’intera popolazione. l’ideologia del putinismo è alquanto eclettica; al suo interno la stima per l’Unione Sovietica convive con l’etica feudale, Lenin si divide il letto con la Russia zarista e il cristianesimo ortodosso.” (Sorokin 2022)

I suoi sostenitori credono che con Putin la Russia si sia “rialzata in piedi”; Sorokin ribatte: “il Paese si è rialzato e si è subito messo a quattro zampe: corruzione, autoritarismo, burocrazia arbitraria e povertà. Ora possiamo aggiungerne un’altra: la guerra”. La visione critica nei confronti della Russia contemporanea, così come la totale assenza di nostalgia nella prospettiva dell’autore, potrebbe spingere il lettore non russo a elaborare una visione referenziale dell’opera; a interpretarla come una pamphlettistica denuncia dell’autoritarismo di Putin, delle sue mire imperialiste, del legame ipocrita con la Chiesa e le forze armate che fomenta la retorica patriottica del regime.

È necessario allargare lo sguardo e ridimensionare la portata “profetica” di questo romanzo del 2006, evitando di giudicarlo teleologicamente, alla luce delle drammatiche vicende che coinvolgono la Russia di questi ultimi anni. Se è vero che nell’opera di Sorokin vengono esposte chiaramente e impietosamente gli elementi di continuità tra lo zarismo, l’Unione Sovietica e la Federazione Russa, è altrettanto vero che si tratta di un’opera di finzione e che, in quanto tale, dialoga innanzitutto con le altre opere del proprio autore – specialmente Sacharnyj kreml’, dove ricompare il personaggio di Kamjaga e Telluria, che esplora un simile orizzonte distopico allargando l’orizzonte al di fuori della Russia –, con la cultura russa e con l’intertestualità di altre opere di finzione. Non va dimenticato che, in questo romanzo sottile per numero di pagine e per intelligenza, l’oggetto principale di riflessione è il genere letterario. Si tratta di una disamina della nozione stessa di distopia e dell’atteggiamento del personaggio nei confronti di essa, nonché di una problematizzazione della ricezione e conseguente interpretazione del pubblico – secondo appunto il concetto di meta–distopia già menzionato –.

Altro oggetto di indagine è l’esplorazione sistematica dei topoi della cultura russa per rinnovarli e sovvertirli: basti citare il sogno di Kamjaga nel quale egli si vede come un drago–cane rosso volante che distrugge con il fuoco delle sue tre teste i nemici della Rus’, l’immagine ricorrente dell’orso come simbolo del carattere nazionale o il forte iconismo ortodosso che emerge dalle pagine del romanzo. C’è spazio anche per l’auto riflessione sull’avanguardia concettualista e sul superamento delle pose artistiche giovanili dell’autore che, messa in bocca all’illetterato yes-man Kamjaga, si fa parodia che colpisce sia l’intellettualismo autoreferenziale, sia la banalità didascalica dell’arte asservita al potere.

Hmm… Che dire… è di questo letame, questo vomito, questo vuoto assordante che i nostri intellettuali–clandestini si nutrono. Sono polipi deformi sul corpo della nostra sana arte russa. Minimalismo, paradigma, discorso, concet–dualismo… Sento queste parole sin dalla primissima infanzia. Cosa significhino, però, a tutt’oggi, non l’ho ancora capito. Prendiamo il quadro La boiarda Morozova, quello che ho imparato a cinque anni lo so ancora adesso. Tutta quest’arte “contemporanea” non vale nemmeno una pennellata del nostro grande Surikov. Quando sei giù di morale, i nemici ti tormentano, intorno a te si stringono perfide cerchie, basta correre un minuto alla Galleria Tret’jakov, avvicinarsi a quella grande tela e guardarla: la slitta con l’indomita boiarda che va sulla neve russa, il ragazzino che corre, il folle in Cristo con le due dita alzate, il vetturino che mostra i denti… La Russia ti travolge dalla parete. A tal punto che dimentichi il presente, tutto ciò che è vano. I polmoni respirano aria russa. E non ti serve molto altro. Grazie a Dio…” (Sorokin 2014: 121)

Den’ opričnika è un libro stratificato, intelligente, dai molteplici livelli di lettura. È un romanzo che, pur essendo apprezzabile da molti, non fa sconti al lettore sprovveduto. Per comprenderlo al meglio è fondamentale conoscere la poetica dell’autore e comprenderne gli intenti metaletterari. È poi doveroso compiere un’incursione nei territori della Storia e dell’attualità per cogliere la sua carica politica esplosiva. Una volta compiuto tutto ciò è dunque possibile abbandonarsi alla lettura di questo piccolo capolavoro della letteratura.

Se c’è qualcosa che è destinato a rimanere a seguito di una lettura e una successiva analisi dell’opera di Sorokin, oltre l’interpretazione e il plaisir du texte, è questo: occorre conoscere ed amare la cultura russa per poterla maltrattare così efficacemente. Si deve avere una visione della Storia del proprio Paese, senza però ritenere che sia l’unica possibile, per riflettere così acutamente sul passato e il presente. Si deve essere disincantati ma non malvagiamente cinici per scorgere un futuro possibile oltre le proprie proiezioni distopiche.

 

Opere di Vladimir Sorokin in traduzione italiana:

La coda, Milano, Guanda, 1988; 2001; 2013. Traduzione di Pietro A. Zveteremich.

La seduta del Comitato di fabbrica, in Viktor Erofeev (ed.) I fiori del male russi, Roma, Voland, 2001. Traduzione e cura italiana di Marco Dinelli.

Di passaggio, in Schegge di Russia. Nuove avanguardi letterare, Roma, Fanucci, 2002. Traduzione e cura di Mario Caramitti.

Ghiaccio, Torino, Einaudi, 2005. Traduzione di Marco Dinelli.

Polline di pioppo; Hiroshima; La gioia di Marfuša; Il potere dei musi; Monoclonius, in Marco Dinelli, Galina Denissova (eds.), Russian Attack, Milano, Salani, 2010. Traduzione di Marco Dinelli.

La giornata di un opričnik, Roma, Atmosphere libri, 2014. Traduzione di Denise Silvestri.

La tormenta, Milano, Bompiani, 2016. Traduzione di Denise Silvestri.

Cremlino di zucchero, Roma, Atmosphere libri, 2016. Traduzione di Denise Silvestri.

Manaraga. La montagna dei libri, Milano, Bompiani, 2018. Traduzione di Denise Silvestri.

Il pupazzo di neve, in “Autobiografija”, No. 8, 2019, pp. 311 – 321. Traduzione di Federico Iocca. https://www.avtobiografija.com/index.php/avtobiografija/article/view/206/192

Dottor Garin, La Nave di Teseo (di prossima pubblicazione).

 

 

 

Bibliografia:

Aleksander Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič, Torino, Einaudi, 2017. Traduzione di Ornella Discacciati.

Dirk Uffelmann, Vladimir Sorokin’s Discourses: A Companion, Brookline, Academic Studies Press, 2020.

Lev Tolstoj, Igor Sibaldi (ed.), Tutti racconti, Milano, Mondadori, 2005.

Vladimir Sorokin, La giornata di un opričnik, Roma, Atmosphere libri, 2014. Traduzione di Denise Silvestri.

 

Sitografia:

Giovanni Savino, Diario russo 22. La trimurti nera, in “Doppiozero”, 10/09/2022. https://www.doppiozero.com/diario–russo–22–la–trimurti–nera (ultima consultazione 15/01/2024)

Vladimir Sorokin, Vladimir Putin sits atop a crumbling pyramid of power, in “The Guardian”, 27/02/2022. https://www.theguardian.com/commentisfree/2022/feb/27/vladimir–putin–russia–ukraine–power (ultima consultazione 15/01/2024). (Le traduzioni dei brani tratti da questo testo sono state fatte per l’occasione da me N.G.)

 

Apparato iconografico:

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