La distopia nelle salamandre di Karel Čapek: tra origini slave ed echi sovietici

Martina Mecco

 

Abstract:

Dystopia in Karel Čapek’s Salamanders: between Slavic Origins and Soviet Echoes

This paper aims to explore Válka s mloky (“The War of the Salamanders”, 1935–1936) by Czech writer Karel Čapek. This novel is an example of the author’s mature prose, and compared with his other significant writings, it presents continuities and differences. In the first part of the paper several key characteristics of the novel are analysed: a critical examination of contemporary society, the layered lexicon, and the use of irony. The second part of the paper attempts to interpret the novel by comparing it with other works from the Soviet era. Specifically, Mikhail Zoshchenko’s short prose will be mentioned, comparing his use of irony with Čapek’s. Furthermore, a comparison with Alexander Beliaev’s work Chelovek–amfibiia (“The Amphibian Man”, 1928) will follow. In the analysis, the cinematographic adaptation of Beliaev’s novel will be considered since, according to Evgenii Kharitonov, the film helped revitalising the novel’s popularity. The ultimate aim of the paper is therefore to interpret Čapek’s novel from a comparative perspective and establish its belonging to the dystopian genre.


Per Karel Čapek scrivere di salamandre fu “un’esperienza agghiacciante, ma in fondo magica e terribile come quella di vivere la vita degli esseri umani” (Čapek 1960: 110). Čapek nacque nel 1890 a Malé Svatoňovice, nella regione di Trutnov. Con il fratello Josef fu una delle personalità più importanti della cultura ceca del primo Novecento. Il nome di Čapek è indissolubilmente legato all’autorialità della pièce R.U.R. Rossum’s Universal Robots, che in italiano vanta anche una tradizione traduttiva significativa, dove spiccano quella per Einaudi di Angelo Maria Ripellino del 1971 e l’ultima di Alessandro Catalano pubblicata nel 2015 per i tipi di Marsilio Editori. R.U.R. è una pièce distopica la cui vicenda, volendo riassumerla molto brevemente, tratta di come il progresso umano sancisca la caduta e il dissolversi l’umanità stessa. Tuttavia, nelle conclusioni l’autore apre una speranza all’annientamento dell’umanità delineando la possibilità di un nuovo stadio edenico: questa immagine di un’umanità minacciata dalle sue stesse scoperte e dalla sua irrefrenabile sete di progresso è uno schema ricorrente nell’opus čapekiano. Il fine di Čapek è infatti una vera e propria messa a nudo dei problemi e dei limiti della società moderna della prima metà del Novecento, attraverso la scelta di impiegare la letteratura come medium, giustificata dal fatto che egli concepiva la sua produzione letteraria come portatrice di una chiara funzione pedagogica.

Válka s mloky (“La guerra delle salamandre”) uscì in forma di feuilleton (in ceco fejeton) sulle pagine del quotidiano ceco “Lidové noviny” (“Notizie del popolo”) tra il 1935 e il 1936, tre anni prima dell’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe naziste. Un dato tutt’altro che secondario, in quanto la sensibilità degli intellettuali dell’epoca già percepiva e presagiva uno squilibrio sociopolitico a livello internazionale. Tuttavia, non è del tutto corretto interpretare le opere di Čapek in senso profetico. Al contrario, bisognerebbe forse sottolineare la sua grande abilità di osservatore nei confronti degli eventi a lui contemporanei. I due elementi impiegati da Čapek per costruire la sua critica alla società contemporanea sono l’ironia – attraverso cui avviene la realizzazione di una critica in chiave satirica – e un linguaggio stratificato, connesso all’importanza data alla lingua e alla dimensione della comunicazione di massa. Nel romanzo avviene una parodizzazione del sistema di stampa dell’epoca attraverso l’inserimento di numerose citazioni inventate tratte da articoli di giornale. Si tratta di una scelta tutt’altro che casuale; difatti, accanto alla sua attività di scrittore e al suo coinvolgimento nel contesto drammaturgico, Čapek fu anche un’importante voce del giornalismo negli anni tra le due guerre mondiali. La sua attenzione per il linguaggio si ricollega al fatto che egli era convinto che vi fosse un’inscindibilità tra la dimensione umana e quella linguistica: il linguaggio non poteva essere visto come un fenomeno in senso strettamente scientifico, come invece lo tendevano a considerare gli studiosi dell’epoca, in particolare coloro che afferivano al Circolo Linguistico di Praga. Significativo, a questo proposito, fu l’articolo pubblicato da Čapek nel primo numero di “Slovo a slovesnost” la rivista del Circolo. Questa parodizzazione del linguaggio implica quella che nella postfazione all’edizione di Československý spisovatel del 1981 Zdeněk Pešat definiva in termini di una parodizzazione del genere letterario. Difatti, Pešat suggeriva la possibilità di interpretare ciascuna delle tre parti che compongono il romanzo come il risultato di una parodizzazione di diversi generi: la prima del romanzo d’avventura, la parte centrale ironizza su un atteggiamento riflessivo di carattere storico, la terza corrisponderebbe, infine, a un ribaltamento del reportage.

Válka s mloky, illustrazione di Adolf Born

Riprendendo il legame con la pièce R.U.R., le salamandre scelte da Čapek rappresentano una versione in qualche modo “aggiornata” dei robot in quanto corrispondono a una scoperta di alcuni esploratori nei mari dell’Estremo Oriente e non a un’invenzione scientifica compiuta in laboratorio. In questo senso, il romanzo non è più una critica al contesto operaio o al mero progresso scientifico. A lato di quella che è l’interpretazione più gettonata dalla critica, ovvero la tendenza a individuare in Válka s mloky una rappresentazione metaforica del nazismo, l’autore si confronta con il fenomeno del colonialismo. L’indagine di Čapek riguarda anche le problematicità dell’incontro con il diverso, dove avviene una definizione dell’altro attraverso le caratteristiche del sé, un tipo di prospettiva ben teorizzata da Jurij Lotman nella sua Semiosfera nel contrasto tra i concetti di svoj e čužoj. Inoltre, in relazione a questo elemento emerge l’adesione dell’autore a un tema letterario ampiamente indagato nel contesto ceco dell’epoca, sia in poesia che in prosa, ovvero quello dell’esotismo: si assiste infatti in questi anni a un risveglio dell’interesse per l’esotico e il primitivo. Dunque, se i robot di R.U.R. erano una rappresentazione dell’operaio, le salamandre simboleggiano la primitività dell’uomo al suo stato mostruoso. Una primitività, tuttavia, solo apparente: sulla loro isola questi anfibi vivono in una società sviluppata che ricorda il modello di Thomas More in Utopia (1520). Sin dal primo momento in cui le salamandre fanno capolino nella narrazione, vengono loro associati dei tratti mostruosi, diabolici:

“«Signore, laggiù ci sono dei diavoli. Dei diavoli marini.»

«Cosa intende con diavolo marino? Un pesce?»

«Nessun pesce», obiettò con agitazione. «Semplicemente un diavolo, signore. Un diavolo degli abissi. I Batak lo chiamano Tapa. Si dice abbiamo una loro città, questi diavoli. Le verso qualcosa da bere?»

«E che aspetto ha… questo diavolo marino?»

«Sembra un diavolo, Signore. Ne ho visto uno solo una volta… ma solo la testa. Stavo rientrando in barca da Capo Haarlem e all’improvviso è spuntato fuori dall’acqua… […] E poi… mi ha fatto l’occhiolino», rabbrividì per l’orrore.

«Ma non è che aveva bevuto? Non è che forse era ubriaco fradicio?»

«Certo che lo ero, Signore… Altrimenti non avrei mai remato in quella direzione. Ai Batak non piace quando qualcuno disturba i… i diavoli.»” (Čapek 1981: 12)

Nel 1936 Čapek accennò alla genesi del suo romanzo: “Questo confronto con la storia umana, e con la storia più attuale, è stato ciò che mi ha spinto a scrivere ‘La guerra delle salamandre’” (Čapek 1960: 109–110). Difatti, nel periodo in cui egli si era prodigato a redigere l’opera, la Cecoslovacchia stava affrontando una profonda crisi economica e politica. In questo frangente, egli affermò che non bisognava credere che l’evoluzione umana fosse l’unica linea evolutiva possibile, ritenendo che in condizioni biologiche favorevoli si sarebbe potuta formare una civiltà analoga anche tra le specie anfibie, in modo analogo a quanto avvenuto tra i mammiferi. Da qui l’idea di realizzare un romanzo incentrato su una specie anfibia antropomorfa che si rapportasse con la storia dell’umanità. A spingere l’autore vi fu dunque una visione pessimistica della società a lui contemporanea, condannata a un progressivo smembramento e, per conseguenza, a una definitiva autodistruzione. A differenza di R.U.R., sembra non esserci speranza per alcun tipo di redenzione o per la costruzione di un nuovo spazio edenico.

Risulta produttivo cercare di individuare alcuni legami che il romanzo di Čapek intrattiene con altri contesti letterari e culturali. Tra questi, a risultare più emblematico è di certo quello sovietico. Nota è l’importanza delle opere di Čapek nel contesto sovietico e fondamentali sono, ad esempio, gli studi condotti da Oleg Malevič. Nell’articolo apparso su “Andergraund Rivista” Come i robot arrivarono in Unione Sovietica (2021), Stefania Feletto sottolineava come fosse possibile riscontrare echi della produzione čapekiana anche in romanzi canonici di epoca sovietica come Aelita (1923) di Aleksej Tolstoj o My (Noi, 1924) di Evgenij Zamjatin. La fortuna di R.U.R. in ambito sovietico, come mostrato ancora da Feletto, è ancor più evidente nella presenza di traduzioni e di rielaborazioni, si prendano ad esempio la pièce di Aleksej Tolstoj Bunt mašin (“La rivolta delle macchine”) del 1924 o il film di Aleksandr Andrievskij Gibel’ sensacii (“La scomparsa delle emozioni”) del 1935. Riguardo a Válka s mloky, il romanzo venne tradotto in russo da Aleksandr Gurovič nel 1938 per la casa editrice moscovita legata all’organizzazione Žurnal’no–gazetnoje ob’jedinenije (Associazione riviste e giornali). Il primo elemento evidente che lega l’opera di Čapek alla prosa di epoca staliniana è l’utilizzo di figure animali per realizzare una critica o una satira della società contemporanea. Oltre alle povesti di Michail Bulgakov, un altro caso emblematico è quello dei racconti satirici di Michail Zoščenko, a cui si deve l’autorialità de Učënaja Obez’janka (“Le avventure di una scimmia”). Come Čapek, anche Zoščenko si proponeva di elaborare attraverso la scrittura un’immagine della realtà. Nella prefazione a Rasskazy Nazara Il’iča gospodina Sinebrjuchova (“I racconti di Nazar Il’ič signor Sinebrjuchov”, 1921–1922) egli affermava che il materiale per i suoi racconti era preso direttamente dalla vita dell’uomo e che ciò che era raccontato corrispondeva alla sacrosanta verità. Con Zoščenko Čapek non condivide solo la realizzazione di metafore narrative basate su figure animali, ma anche un ampio impiego di un’ironia molto raffinata. Nel periodo tra le due guerre mondiali gli scritti di Zoščenko raggiunsero il lettore ceco. Ad esempio, nel 1927 Bohumil Mužík tradusse alcuni racconti nella raccolta Svatba a jiné povídky. Vážné i veselé obrázky ze současného Ruska (“Il matrimonio e altre storie. Immagini serie e divertenti dalla Russia contemporanea”) Nella breve prefazione Zoščenko veniva definito in termini di uno scrittore con un raro dono dell’umorismo. Nel 1930 fu invece la volta della raccolta Ironické povídky (“Racconti ironici”). La pubblicazione di queste traduzioni in ceco dei racconti di Zoščenko suggerisce un possibile contatto di Čapek con l’ironia dell’autore russo.

Tra le opere sovietiche riconducibili a quella di Čapek, un esempio lampante è Čelovek–amfibija (“L’uomo–anfibio”) di Aleksandr Beljaev, romanzo pubblicato nel 1928. La storia, in cui si respirano ambientazioni verniane come quella de Vingt mille lieues sous les mers (1869–1870), è incentrata sulla figura del giovane Ichtiandr, un nome parlante nato dalla fusione di due termini derivati dal greco antico: “ichtys” (pesce) e “aner” (uomo mortale). In Beljaev si osservano molti elementi comuni non solo a Válka s mloky, ma anche ad altre opere di Čapek. Innanzitutto, l’elemento ricorrente del contrasto tra il mondo civilizzato e civiltà primitive o luoghi esotici in cui avvengono delle scoperte incredibili. Si ha, inoltre, il discorso di carattere scientifico dove lo scienziato rappresenta la razionalità ma anche colui che pecca di hybris: la ricerca del progresso porta non tanto al successo ma a delle conseguenze negative, se non catastrofiche. Infine, un ultimo elemento comune riguarda la critica all’umanità, vi è sempre di fondo l’idea che sia impossibile realizzare un modo in cui regnino pace e democrazia. Qui entra in gioco l’idea di utopia associata a un modello politico-sociale inattuabile. In entrambi gli autori viene scelta una figura anfibia antropomorfa. Tuttavia, il modo in cui i due autori realizzano questa figura presenta una differenza sostanziale, una contaminazione tra specie diametralmente opposta. Le salamandre dell’universo čapekiano assomigliano piuttosto all’illustrazione del pittore russo Ivan Biblin Vodjanoj (“Lo spirito dell’acqua”, 1934), ovvero è l’essere animale ad assumere delle fattezze umane.

Vodjanoj di Ivan Biblin

In Beljaev è invece l’uomo a divenire un anfibio: Ichtiandr è stato creato dal padre scienziato, il dr. Sal’vadora (Salvatore). Difatti, il giovane era nato con una deformazione ai polmoni e il padre, affinché non morisse, tentò una complicata operazione impiantando nel suo sistema respiratorio parte di quello di uno squalo. Sebbene vi sia questa evidente differenza, da cui derivano anche due sviluppi della trama differenti, in entrambi i casi vi è una associazione di questi esseri immaginari alla dimensione diabolica. Lo si è visto nella precedente citazione tratta dal romanzo di Čapek; si veda dunque Beljaev, nel quale vi è rappresentazione cristologica del diavolo si contrappone a quella pagana:

Alcuni sono stati vittime di questa creatura, altri sono stati inaspettatamente aiutati. ‘Questo è il dio del mare. Un dio’, dicevano i vecchi indiani, che ‘emerge dalle profondità dell’oceano una volta ogni mille anni per portare giustizia sulla terra’. I preti cattolici assicuravano agli spagnoli superstiziosi che si trattava di un ‘diavolo marino’. Iniziò ad apparire perché gli uomini avevano dimenticato la santa Chiesa cattolica.”. (Beljaev 2020: 3)

In questa associazione col diabolico le salamandre sono dei mořští čerti, mentre Ichtiandr un morskoe d’abol. Questa rappresentazione presenta, tuttavia, uno sviluppo ulteriore nel romanzo di Beljaev, in cui all’abisso infernale viene messo in contrasto la casa sullo strapiombo dello scienziato che viene paragonato a un bog, un dio. In una conversazione tra due personaggi, Zurita e Bal’tazar, si legge:

“«Lei sa chi vive nel forte sopra la baia?»

«Sì, l’ho chiesto agli indiani che lavorano nelle fattorie. Ci vive Sal’vatora.»

«Chi è questo Sal’vatora

«Un dio […] Dicono che sia onnipotente. Sal’vatora può fare miracoli. Tiene la vita e la morte nelle sue dita. Dà agli zoppi nuove gambe, gambe per camminare, dà ai ciechi occhi aguzzi come quelli di un’aquila e resuscita persino i morti

«Dannazione!», brontolò Zurita, arricciandosi con le dita i soffici baffi. «Nella baia c’è un diavolo marino, sopra la baia c’è un dio. Non credi, Bal’tazar, che il diavolo e dio potrebbero aiutarsi a vicenda?»” (Beljaev 2020: 15–16)

Questo rapporto tra il diabolico e il divino nel romanzo di Beljaev è ancor più profondo in quanto i due elementi sono connessi da un legame famigliare, come si diceva poc’anzi, Ichtiandr è il figlio di Sal’vadora. Tuttavia, tanto quanto le diaboliche salamandre anche Ichtiandr rappresenta al tempo stesso il fantastico, un elemento di fascinazione per l’uomo comune. Vestito di squame argentate, può essere interpretato anche come simbolo dell’attrazione dell’uomo per il malefico, sebbene non sempre l’inconscio corrisponda all’oscuro.

La locandina di Čelovek–amfibija

Al contrario delle salamandre čapekiane, il romanzo di Beljaev ebbe grande fortuna anche in ambito cinematografico. Nel 1962 venne presentato nelle sale sovietiche il film omonimo, diretto da Vladimir Čebotarёv e Gennadij Kazanskij. Il protagonista Ichtiandr è interpretato dal giovane Vladimir Korenev. Il film divenne anche un simbolo della stagione cinematografica dell’ottepel’, il disgelo. A tal proposito, Evgenij Charitonov, nel suo articolo “Čelovek–amfibija” i te, kto posle… (“‘L’uomo–anfibio’ e quelli che dopo…”), pubblicato per la prima volta sulla rivista di fantascienza “Esli” (“Se”), affermava:

È opportuno ricordare che ‘L’uomo–anfibio’, con la sua ‘concezione umana’ e le riflessioni all’epoca coerenti sulla libertà dei cittadini, sulla responsabilità per la vita umana e il suo destino, divenne uno dei simboli dell’effimera epoca del ‘disgelo’, da poco iniziata.” (Charitonov 2020: 113)

Charitonov constatava anche come, nel corso del secondo dopoguerra, il nome di Beljaev era stato pressoché dimenticato e che fu proprio il film a dare nuova al romanzo una rinnovata ricezione. Tuttavia, nel film di Čebotarёv e Kazanskij si notano alcune differenze sostanziali rispetto al romanzo. L’elemento del fantastico viene infatti parzialmente sacrificato per lasciare più spazio all’elemento amoroso, di cui è simbolo la lunghissima scena in cui il giovane Ichtiandr si reca nel mondo degli uomini per cercare la sua amata passeggiando sulle note di Ej morjak! (Ehi marinaio!), cantata da Nonna Suchanova: “Ehi marinaio, sei stato per mare troppo a lungo. / Ti ho dimenticato. / Ora mi piace il diavolo del mare. / Voglio amarlo.” Non si tratta dell’unica trasposizione cinematografica di un’opera di Beljaev che ebbe un discreto successo in URSS. Un altro esempio è Golova professora Douėlja (“La testa del professor Douėl’”, 1925). Il film venne realizzato da Leonid Menaker e uscì nel 1984 con un titolo leggermente diverso, Zaveščanie professora Douėlja (“Il testamento del professor Douėl’”). Minore, inoltre, è la fedeltà del film alla trama del libro da cui è tratto: l’ambientazione scelta da Menaker è infatti un paese anglosassone tecnologicamente sviluppato e vengono inserite scene inedite nel romanzo, che i critici reputano essere piuttosto ispirate all’horror fantascientifico americano The brain that wouldn’t die (“Il cervello che non voleva morire”) di Joseph Green, uscito nel 1962, lo stesso anno di Čelovek–amfibija. Molto meno riuscite sono altre trasposizioni di opere fantascientifiche di Beljaev come Prodavec vozducha (“Il commerciante d’aria”, 1967) di Vladimir Rjabcev o la più tarda Ariėl’ (1992) di Evgenij Kotov. La tradizione della figura anfibia di Čapek e Beljaev trova un riscontro anche nella cultura contemporanea, nello specifico nel cinema hollywoodiano. Difatti, The shape of water (2017) di Guillermo del Toro presenta elementi evidentemente molto simili con il film sovietico del 1962. Non sono solo importanti sezioni di sceneggiatura a riecheggiare, ma anche diverse inquadrature e la fisionomia di alcuni personaggi. Senza entrare in accuse mosse a del Toro come quella di aver prodotto un film basato su “zoofilia e perversione” – come si legge in una recensione di “Indie Cinema” – è innegabile riscontrare elementi di plagio. Tuttavia, a differire sono l’happy ending e la raffigurazione della creatura anfibia, la quale non ha nulla a che vedere con Ichtandr, ma piuttosto con le salamandre čapekiane.

L’origine di queste figure anfibie appartenenti alla dimensione acquatica è riconducibile a diversi contesti culturali oltre che a fatti storici. Per quanto riguarda Čapek, una delle ispirazioni dirette fu il fossile dell’anfibio estinto Andrias scheuchzeri, ritrovato dal ricercatore svizzero Johann Jakob Scheuchzer nel 1726. Tuttavia, è possibile individuare un’altra fonte di matrice folklorica e mitologica. Sorvolando sul mito atlantoideo e sulla figura mitologica di Poseidone, è possibile supporre che in Čapek esista – come in Beljaev, sebbene in misura minore – un riferimento alla mitologia slava. La figura del vodník appartiene all’immaginario folklorico ceco e trova delle corrispondenti anche in altri contesti slavi, ad esempio, nel russo vodjanoj o nel polacco wodnik (chiamato anche bagiennik). In Moravia viene spesso utilizzato anche il termine bestrman, corrispondente della variante slesiana hasrman, entrambi derivanti dal tedesco Wasserman (“uomo delle acque”). Il vodník attraversa l’immaginario letterario ceco, comparendo ad esempio nelle ballate pubblicate da Karel Jaromír Erben in Kytice (“Il mazzolino”, 1853 con una seconda versione ampliata del 1861). Nella prima strofa della ballata appunto intitolata Vodník, l’uomo delle acque viene rappresentato con le sembianze di un vecchio che inneggiando un canto al chiaro di luna, è intento a cucire le proprie calzature accucciato su una pietra all’ombra di un pioppo. Il Vodník di Erben fu poi d’ispirazione per Antonín Dvořák, che nel 1896 realizzò l’omonimo poema sinfonico op. 107.

In luogo di conclusione occorre ritornare sulla definizione di distopia e su come questa possa essere applicata all’opera di Čapek. Nella già citata postfazione all’edizione del 1981, Pešat riteneva che i dettagli e le descrizioni fornite nel romanzo rendono inequivocabile il riferimento alla contemporaneità. Inoltre, Pešat insisteva nell’affermare che fosse innegabile la critica mossa dall’autore alla minaccia nazista e negava il fatto che si potesse trattare di un testo afferente al genere utopico. Su questo punto lo stesso Čapek si espresse con toni abbastanza discordanti dall’interpretazione che ne si vuole dare in questo articolo:

La critica lo ha definito un romanzo utopico. Prendo le difese da questo termine. Non è un’utopia, ma la contemporaneità. Non è una speculazione su un qualcosa che avverrà in futuro, ma una rappresentazione di ciò che sta avvenendo e del mondo in cui viviamo. Non si tratta di fantasia, quella posso tranquillamente aggiungerla in qualsiasi momento […], ma della realtà. […] Una letteratura che non si interroga sulla realtà e su ciò che avviene davvero nel mondo, una scrittura che non intende reagirvi con la stessa forza che si dà alle parole e al pensiero, ecco una letteratura di questo tipo non fa per me.” (Čapek 1960: 110)

Tuttavia, Válka s mloky presenta una distopia che si potrebbe definire “a incastro” o, in altre parole, una doppia distopia che sottolinea ulteriormente la sfiducia nel progresso. Difatti, dopo che l’umanità viene debellata dalle salamandre, avviene un successivo annientamento delle salamandre stesse, vittime della loro scelta di adottare usi e costumi dell’uomo moderno. L’obiezione che la vicenda narrata fosse già tragica realtà nel momento della sua pubblicazione non esclude che vi siano dei meccanismi proprio del genere letterario distopico. Risulta dunque possibile definire Válka s mloky in termini di una distopia che permea a piene mani nel costrutto del reale, in un punto di congiunzione in cui tra letteratura e dimensione quotidiana avviene un fatale e tragico incontro.

Bibliografia:

Aleksandr Beljaev, Sobranie sočinenij. V 8–mi tomach. Tom 3. Čelovek–amfibija. Podvodnye zemledel’cy, Sankt–Peterburg, Pal’mira, 2020. (Le traduzioni dei brani tratti da questo testo sono state fatte per l’occasione da me M.M.)

Evgenij Charitonov, “’Čelovek–amfibija’ i te, kto posle…”, in Idem, Apokrify Zazerkal’ja (Ėtjudy o Fantastike), Sankt–Peterburg, Gruppa kompanij «AURAINFO & GRUPPA MID», 2020, pp. 111 – 115. (Le traduzioni dei brani tratti da questo testo sono state fatte per l’occasione da me M.M.)

Jurij Lotman, La semiosfera, Milano, La Nave di Teseo, 2022.

Karel Čapek, Poznámky o tvorbě, Praha, Československý spisovatel, 1960. (Le traduzioni dei brani tratti da questo testo sono state fatte per l’occasione da me M.M.)

Karel Čapek, R.U.R. Rossum Universal Robots, Marsilio, Venezia, 2015. Traduzione di Alessandro Catalano.

Karel Čapek, Válka s mloky, Praha, Československý spisovatel, 1981. (Le traduzioni dei brani tratti da questo testo sono state fatte per l’occasione da me M.M.)

Karel Jaromír Erben, Kytice, Brno, Doplněk, 2011.

Tommaso Moro, L’Utopia, Roma–Bari, Editori Laterza, 2019.

Sitografia:

Elena Ringo, “The Shape of Water – Review”, in Indie Cinema, 22/01/2018. https://indie–cinema.com/2018/01/shape–water–review/ (ultima consultazione: 02/01/2024)

Apparato iconografico:

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