Il tanfo di zolfo: come la satira di Bulgakov smaschera la natura diabolica del regime sovietico  

Eleonora Smania

 

Abstract:

The Sulphurous Stench: How Bulgakov’s Satire Reveals the Diabolical Nature of the Soviet Regime

This paper aims to explain why Mikhail Bulgakov’s satire against the Soviet regime was so compelling – and, thus, deemed dangerous from the censorship – through an analysis on a thematic level of his three povesti published between 1924 and 1925. Sobach’e serdtse (“Heart of a Dog”), Rokovye iaitsa (“The Fatal Eggs”) and D’iavoliada, (“Diaboliad”) subverted and dismantled the propagandistic narration of Russian reality and society in the Twenties by harshly criticising the founding elements of the Soviet myth, starting with the concept of kul’turnost’, the self–promotion of the Soviet party as the guiding light to future human progress and civilisation, and the idea of a utopic harmony achievable only through collectivity. The sharp pen of Bulgakov revealed the dystopic, chaotic, and unforgiving nature of the Soviet regime.


 

Fin dalla loro affermazione, il genere utopico e – soprattutto – distopico hanno sempre posseduto una funzione dialogica tra l’essere umano e il suo passato, presente e futuro. Diversi sono stati gli autori e le autrici che hanno sperimentato con questi due generi: la scrittura di un’opera utopica e distopica nasce principalmente da una necessità dello scrivente di riflettere sulla storia del genere umano, immaginarne una possibile evoluzione o raccontare la realtà del suo tempo, anche criticandola. Tre delle povesti pubblicate da Michail Bulgakov durante gli anni Venti, ossia Cobač’e serdce (“Cuore di cane”, 1925), Rokovye jajca (“Le uova fatali”, 1925) e D’javoljada (“Diavoleide”, 1924), rappresentano un esempio concreto dell’ultima casistica illustrata. Rispetto a Evgenij Zamjatin, autore di My (“Noi”, 1924), Bulgakov elabora un approccio diverso alla domanda “la felicità deve davvero essere imposta dall’autorità?”. In My, non si giunge a una chiara risoluzione, in quanto l’autore stesso attua esprime una posizione ambigua in merito: sebbene il romanzo presenti delle riflessioni critiche sulle implicazioni derivanti dal controllo da parte del governo comunista sulla vita privata dell’individuo, Zamjatin non condanna il regime, anzi, considera in alcuni casi quasi necessaria l’azione dell’autorità per il bene della collettività e del singolo. D’altro canto, in contrapposizione alla posizione di Zamjatin, la risposta di Bulgakov è un secco e sarcastico “no”.

Michail Afanas’evič Bulgakov

Michail Bulgakov nacque nel 1891 a Kyїv. Inizialmente intraprese la carriera medica ma la passione per la scrittura lo portò ad abbandonarla completamente e a concentrarsi su quella da scrittore a partire dal 1921, pubblicando opere di grande successo come Zapiski na manžetach (“Appunti sui polsini”, 1922) e Belaja gvardija (“La guardia bianca”,1923–1924). A partire dal 1924, l’autore si dedicò alla stesura di una serie di pubblicazioni a metà tra la fantascienza, il grottesco e la satira, tra cui rientrano Cobač’e serdce, Rokovye jajca e D’javoljada. Definire la satira di Bulgakov pungente risulterebbe essere un vero e proprio eufemismo; la satira diretta al regime sovietico che si stava imponendo nel tessuto politico e socioculturale della Russia degli anni Venti è tagliente e appare dirompente nelle sue opere. A causa della pubblicazione di queste povesti provocatorie e della sua condizione di scrittore non schierato, Bulgakov subì una feroce campagna diffamatoria perpetrata ai suoi danni dalla stampa sovietica tra il 1928 e il 1930, cui seguirono la censura e la requisizione dei propri manoscritti dalla polizia segreta. La condizione di completa emarginazione non gli permise di pubblicare le proprie opere fino alla sua morte. Il suo romanzo più celebre, Master i Margarita (“Maestro e Margherita”, 1966), fu pubblicato solo dopo la sua morte in Unione Sovietica. Sembra quasi impossibile che, a causa di alcuni componimenti satirici, uno scrittore amato e celebrato come Bulgakov si fosse ritrovato nel giro di qualche anno completamente isolato e ostracizzato dalla società sovietica. Per comprendere il perché di tale veemenza da parte del regime nel silenziare e screditare l’autore, è importante innanzitutto chiarire che cosa rendesse così pericolosi agli occhi del regime queste produzioni in prosa. Le tre povesti furono considerate così controverse e pericolose in quanto decostruivano spietatamente il mito dell’utopia sovietica propagandato dal potere. Considerata l’importanza del ruolo della letteratura non solo come strumento di diffusione e affermazione dei valori propagandati dal regime, ma anche come arma fondamentale per mantenere l’egemonia culturale e politica del partito, una narrazione come quella presentata in D’javoljada, Rokovye jajca e Cobač’e serdce non poteva essere accettata. Attraverso un’analisi tematica delle tre povesti, si osserverà come l’autore sovverte e dissacra i suoi bersagli, ovvero i miti e valori alla base dell’utopia narrata dalla propaganda e dalla letteratura allineata.

In Cobač’e serdce, all’ingenuo randagio Šarik – tradotto nell’edizione della Newton Compton del 1990 come Pallino – soggetto dell’esperimento del professore Preobraženskij viene trapiantato il cervello di un giovane uomo. L’esperimento innesca un vero e proprio processo di antropomorfizzazione grottesco e innaturale: il cane diventa un essere umano. Tuttavia, il professore non si mostra soddisfatto dell’esito, anzi; Šarik si trasforma in un uomo volgare, rozzo e ubriacone che si diverte a suonare la balalajka e a bestemmiare. L’inaspettata evoluzione in negativo di Šarik è dovuta a un errore commesso durante la delicata operazione. Preobraženskij scopre con orrore che per l’esperimento è stata erroneamente selezionata l’ipofisi di un ragazzo proletario e decide di annullare la metamorfosi del cane. Cobač’e serdce costituisce una chiara parodizzazione del modello sovietico: a differenza dell’immagine del cittadino sovietico efficiente, stacanovista, educato, moderato, istruito e pulito, Bulgakov dipinge un ritratto poco lusinghiero dell’uomo proletario: la metamorfosi di Šarik è un’esplicita metafora della natura artificiosa e distorta del nuovo animale sociale della Russia degli anni Venti.

Si regge saldamente sulle zampe posteriori (cancellatura)… sulle gambe e ha l’aspetto di un uomo piccolo e mal proporzionato. Nello studio ha riso. Il suo sorriso è sgradevole e innaturale. Poi si è grattato la nuca, si è guardato intorno e io ho annotato una nuova parola, distintamente pronunciata: «borghesi». Ha bestemmiato, lo fa metodicamente, ininterrottamente e in apparenza senza alcun motivo. Le sue bestemmie hanno un carattere fonografico: è come se le avesse udite nel passato, e avendole inconsciamente registrate nel cervello, ora le vomitasse a interi blocchi.” (Bulgakov 1990: 42–43)

Il cittadino dell’utopica società sovietica dipinta da Bulgakov non era né efficiente né istruito, ma un barbone che viveva in funzione della propria sopravvivenza e seguiva i più beceri istinti animaleschi. Niente lo distingueva dai peggiori criminali esistiti nelle città e villaggi russi prima dell’avvento del nuovo ordine sociale e politico. La scimmiottatura del mito dell’uomo sovietico, icona di riferimento per la kulturnost – termine coniato proprio durante gli anni Venti e usato per indicare tutte le qualità e il sistema di valori che i cittadini modelli dovevano assimilare e dimostrare nella vita lavorativa e quotidiana – ispirò Aleksandr Zinov’ev a coniare il neologismo homo sovieticus nell’omonima pubblicazione Gomo Sovieticus (“Homo Sovieticus”, 1982), riferendosi ironicamente all’obiettivo da parte della propaganda di creare un nuovo prototipo di essere umano da inserire nella neonata società sovietica.

Mantenendo la vena fantascientifica presente nella precedente povest’, Rokovye jajca segue le vicende del direttore dell’istituto di zoologia di Mosca Persikov, che per pura coincidenza scopre che i raggi prodotti dall’energia elettrica del microscopio ingrandiscono le amene che stava analizzando. Il “raggio della vita”, così battezzato, attira l’attenzione del dirigente del Sovchoz Raggio rosso, Rokk – nome omen molto simile alla parola russa usata per indicare il destino, rok –. Nel racconto, il dirigente suscita alla vista “un’impressione eccezionalmente sfavorevole” (Bulgakov 1990: 156), dovuta soprattutto ai suoi occhi, che “guardavano ogni cosa con stupore e arroganza al tempo stesso” (Bulgakov 1990: 156). Contro la volontà del professore, quest’ultimo decide di sfruttare le straordinarie proprietà della nuova invenzione per fronteggiare l’epidemia che colpisce le galline nel territorio russo, nel tentativo di guarire gli animali colpiti dalla misteriosa malattia.

“«Ma io non ho ancora fatto esperimenti sulle uova! Li sto solo preparando!»

«Quant’è vero Dio, ce la faremo» affermò improvvisamente Rokk con appassionata convinzione, «il suo raggio, professore, è talmente prodigioso che farebbe crescere anche degli elefanti, altro che i pulcini.»” (Bulgakov 1990: 159)

Erroneamente però vengono colpite dai raggi delle uova di serpente anziché le uova delle galline da curare preventivamente, causando la gigantificazione dei rettili e scatenando il panico generale. Focus centrale della povest’ è la denuncia dell’incompetenza della classe dirigente della cattiva gestione da parte di quest’ultima degli strumenti tecnico–scientifici, convinta di poter manipolare la realtà nel nome di un progresso che va a beneficiare solo sé stessa. La tragica sequela di eventi è causata proprio dal fatto che un inetto come Rokk ha avuto accesso a uno strumento tanto potente quanto letale come il raggio, scoperta della quale non è mai stato consapevole delle vere potenzialità e dei pericoli tangibili derivanti da un suo scorretto utilizzo. I risultati si rivelano terribili, la ferocia dei serpenti che attaccano e divorano indiscriminatamente ne è la tragica conseguenza. Rokk costituisce quindi una tragicomica rappresentazione dell’élite partitica formatasi negli anni Venti: coloro che risiedevano ai vertici della burocrazia e della società sovietica apparivano agli occhi di Bulgakov stupide, superbe, incapaci di vedere al di là dei propri interessi personali e inette. Come potevano, quindi, queste istituzioni partitiche guidate da simili menti ottuse realizzare una civiltà avanzata? Come poteva un regime autopromuoversi come guida verso una naturale fase del progresso umano se i suoi maggiori rappresentanti non riuscivano ad agire effettivamente per il bene collettivo?

Rispetto alle povesti analizzate in precedenza, D’javoljada si discosta per l’atmosfera meno fantascientifica e più sovrannaturale. La povest’ tratta le sfortunate vicende di Korotkov, umile e sommesso impiegato di una fabbrica di fiammiferi che, per un goffo equivoco, interpreta erroneamente le direttive del nuovo responsabile, il signor Mutander. Proprio a causa del malinteso, Korotkov viene licenziato e come ulteriore beffa viene costantemente scambiato per un famoso criminale in seguito al furto dei propri documenti d’identità. Inizia così la serie di vani tentativi da parte di Korotkov di essere riammesso al suo vecchio posto di lavoro. Mentre tenta ciò, il protagonista viene vessato dai gemelli Mutander, i quali – assieme ad altri personaggi bislacchi e stralunati incontrati da Korotkov negli uffici amministrativi – conducono il protagonista a una lenta discesa nella follia. La realtà che credeva di conoscere si sdoppia, si trasforma e contorce su sé stessa, assumendo dei connotati sempre più allucinati, surreali e dettando drammaticamente il destino di Korotkov. Man mano che la narrazione procede, il protagonista diventa sempre meno lucido e sempre più irrequieto, impulsivo e aggressivo. La rovinosa caduta in disgrazia del protagonista e la sua tremenda fine erano già segnate fin dall’inizio, vedasi il sogno premonitore avuto dall’impiegato dopo aver passato l’intera notte a testare i fiammiferi difettosi dati in dotazione dalla fabbrica:

Verso il mattino, la stanza si era riempita dell’odore soffocante dello zolfo. All’alba Korotkov si addormentò e fece un sogno stupido e spaventoso: gli si trovava davanti, su un prato verde, un’enorme palla da biliardo viva, con le gambe. Il che era talmente schifoso che Korotkov gridò e si svegliò. Nell’oscurità torbida, per altri cinque secondi circa gli parve che la palla fosse lì, accanto al suo letto e odorasse fortemente di zolfo.” (Bulgakov 1990: 88)

L’odore dello zolfo, l’apparizione surreale e la fusione tra il mondo tangibile e quello onirico esprimono una chiara connotazione sovrannaturale, quasi diabolica. È proprio la ricorrenza dell’elemento diabolico nella narrazione che colpisce e che fa già intuire a chi legge come finirà l’intera vicenda. Significativo è il casuale incontro tra Korotkov e un anziano signore presso l’ufficio anagrafico. Lo sfortunato protagonista percepisce una strana e inquietante sensazione di fronte al sorriso del vecchio interlocutore, altro oscuro presagio:

Per un istante la gioia di Kortkov si offuscò. Qualcosa di strano, di funesto, era balenato nelle orbite bluastre del vecchio. Strano sembrò anche il sorriso che gli scoprì le gengive grigiastre. Ma Korotkov respinse immediatamente lontano da sé quella sensazione sgradevole e si diede da fare.” (Bulgakov 1990: 97)

Il ghigno mortifero del misterioso rappresenta il punto di svolta della narrazione: sarà proprio successivamente a questo incontro che il protagonista perderà definitivamente il controllo della situazione e la ragione. È in D’javoljada che la natura del regime sovietico si rivela in tutta la sua crudeltà e diabolicità, a partire da un sistema burocratico innaturale, fazioso e progettato per deumanizzare e brutalizzare i cittadini. Ciò che rende ancor più spietata la realtà sovietica è il completo annichilimento dell’individuo a favore della collettività. Nella povest’, Bulgakov rivela che i sacrifici attuati dall’individuo a favore dell’utopica e armoniosa collettività sono vani e non beneficiano in alcun modo il primo, anzi. La collettività non è altro che una folle e stralunata bolgia demoniaca che trascina, consuma e distrugge l’essere umano e la sua dimensione personale.

Sebbene ciascun racconto si concentri su diversi aspetti del mito dell’utopia sovietica, è possibile individuare un fil rouge. Tale connessione tra le tre pubblicazioni satiriche non è costituita solo dall’uso del grottesco – atto a evidenziare l’innaturale essenza del regime sovietico – e dalla presenza dell’elemento fantascientifico e/o sovrannaturale, ma soprattutto dal tema dell’equivoco. La narrazione di ciascuna povest’ è innescata da un malinteso, da un imprevisto o un errore che determina fatalmente il corso delle vicende. Niente è sotto il controllo dei protagonisti bulgakoviani, i quali vengono trascinati in stralunate situazioni più grandi di loro, in un mondo illogico che non perdona nulla a nessuno. Ecco che la narrazione propagandistica del regime sovietico come mondo utopico crolla, svelando sotto le proprie macerie il volto di una distopia dai connotati inumani e – a tratti – diabolici, in quanto deturpa e annienta l’individuo trasformandolo in una creatura subumana, guidata verso la sua autodistruzione e oramai incapace di scappare dalla follia collettiva che coinvolge tutto e tutti.

 

 

Bibliografia:

Manuela Kovalev, The Function of Russian Obscene Language in Late Soviet and Post–Soviet Prose, Manchester, University of Manchester, 2014.

Michail Bulgakov, Cuore di cane, Diavoleide, Le uova fatali, Roma, Newton Compton Editori, 1990. Traduzione di Viveca Melander, Chiara Spano e Aldo Ferrari.

Sheila Fitzpatrick, The Cultural Front: Power and Culture in Revolutionary Russia, New York, Cornell University Press, 1992.

 

Apparato iconografico:

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