“Il giorno in cui finì l’estate”: la Jugoslavia perduta di Sebastijan Pregelj

Marco Jakovljević

Nel panorama letterario sloveno contemporaneo solo di recente si è iniziato ad assistere a timidi esempi di romanzi che hanno a che fare col veloce, relativamente indolore – se paragonato al caso della Croazia o della Bosnia – e, per gli sloveni, quasi dimenticabile processo di indipendenza. Se sull’esperienza jugoslava non mancano esempi di narrativa, che sia di stampo nostalgico o meno, la via all’indipendenza della Slovenia è stata quasi ignorata. Un’eccezione è rappresentata da Il bianco si lava a novanta di Bronja Žakelj (Bottega Errante, 2018), in cui alla guerra dei dieci giorni slovena vengono dedicate poche, furtive frasi, o da Lampreht di Kazimir Kolar (Wojtek, 2022), in cui, sempre con poche frasi, si fa un veloce riferimento agli allarmi aerei dichiarati a Lubiana tra gli ultimi giorni di giugno e la prima settimana del luglio 1991 e ai carri armati dell’esercito federale jugoslavo. L’esperienza jugoslava in toto, invece, rimane orgogliosamente in piedi, come le torri (per citare i versi dell’inno della Jugoslavia Socialista, Hej, Slaveni, “Mi stojimo postojano, kano klisurine”) nel mondo delle pubblicazioni slovene più recenti. Solo Dino Bauk, col suo I sognatori di Lubiana (Bottega Errante, 2021), era riuscito a fornire un’immagine più completa su ciò che ha significato la Jugoslavia per la Slovenia, fornendo numerosi riferimenti agli avvenimenti reali che portarono alla caduta della federazione, la creatura di Tito. Tutto questo, fino alla pubblicazione, nel 2019, di V Elvisovi sobi di Sebastijan Pregelj, edito da Bottega Errante nel 2022 col titolo di Il giorno in cui finì l’estate.

Link al libro: https://www.bottegaerranteedizioni.it/product/il-giorno-in-cui-fini-lestate/

Nella postfazione al romanzo, lo scrittore ed editore sloveno Aljoša Harlamov dice: “C’è stata una gioventù e c’è stato un paese che adesso non esiste più: questo romanzo racconta di loro”. Le parole di Harlamov basterebbero, in teoria, per riuscire a descrivere l’opera di Pregelj senza entrare nei dettagli che potrebbero, potenzialmente, rovinare l’esperienza della lettura del romanzo, ma, allo stesso tempo, sottolineare la vastità di dettagli che Pregelj include nella propria narrazione. Dettagli che la rendono una lettura capace di trasportare, incuriosire e di immergere il lettore nella Lubiana degli anni Ottanta.

Il giorno in cui finì l’estate segue la vita del piccolo Jan dall’inizio delle scuole elementari fino agli anni dell’università, attraversando più di un decennio di storia slovena e jugoslava attraverso gli occhi a tratti innocenti, a tratti schietti e disillusi del protagonista. Egli cresce nella Lubiana in cui convivono i ben educati sloveni, che si riuniscono in composte cene di famiglia e che mandano i figli a lezione di musica e i Rom e gli immigrati interni da Bosnia, Serbia e Macedonia che vivono nei prefabbricati della periferia, tanto odiati dai teppistelli locali. La Lubiana che vuole essere mitteleuropea, compostamente lontana dalle balcaniche Belgrado e Sarajevo, in cui si lavora, si studia con diligenza e si ascoltano allo stesso tempo musica classica e punk. La Lubiana jugoslava, autogestionaria socialista e allo stesso bramosa di occidente.

‘Tito ci guarda tutti’ dico.

‘Come?’. Papà si volta sorpreso verso di me.

‘Tito ci guarda tutti’ ripeto.

‘Da dove l’hai presa questa?’ chiede. Così gli racconto di come io e Rok siamo andati di classe in classe, e alla fine anche la maestra Nada ci ha dato ragione. Tito ci guarda. (p.53)

Jan vive tra gli onnipresenti ritratti di Tito a scuola e i racconti su Guerre stellari di George Lucas, Rambo, le figurine Panini e la rivista jugoslava, conosciuta per i propri contenuti erotici, Start. Pregelj ricostruisce fedelmente, anche attraverso questi elementi di cultura popolare, la vita dei giovani Jugoslavi dell’epoca, così come descrive i momenti di preoccupazione in concomitanza di fatti come la morte di Tito, le tensioni in Kosovo, lo scandalo della rivista Mladina, l’inizio delle guerre jugoslave.

“Il nostro Tito è morto, c’è scritto sulla lavagna quando il lunedì mattina entro in classe. So già tutto. Mamma e papà mi hanno raccontato. Mi hanno raccontato in modo che capissi, poi ho dovuto ripetere alcune cose con loro. “Perché tu possa ricordare” ha detto papà, “e perché non ti lasci scappare qualche idiozia.” (p. 49)

Jan è un diligente abitante di un paese come fu la Jugoslavia, esempio peculiare di totalitarismo socialista in cui la libertà di usufruire di beni e media occidentali e di viaggiare era ciò che implicitamente costringeva gli Jugoslavi ad una, appunto, diligente autocensura. Le parole dei genitori sulla politica e su Tito devono rimanere in casa, perché Jan non dica tutto alla compagna maestra, che potrebbe dire tutto al preside, che potrebbe a sua volta dire tutto alla polizia. E lo Jan di Pregelj accetta, ingenuo prima e disilluso poi, perché nulla, in fin dei conti, gli vieta di andare a casa dell’amico Elvis, dove può giocare con le action figures di Rambo e dove può, assieme alla sorella di Elvis, sperimentare le prime, timide pulsioni sessuali. Nulla impedisce a Jan, una volta cresciuto, di girare per Lubiana con l’amico Rok e sperimentare l’amore alla maniera degli adolescenti, pieno di eccitazione e doloroso allo stesso tempo, di bere e fumare in discoteca.

Jan vive l’estate della vita dopo che l’estate Jugoslava, con la morte di Tito, è finita definitivamente, anche se in pochi se ne vogliono accorgere. Il protagonista se ne rende conto in Macedonia, durante il servizio militare, a inizio anni Novanta, durante gli ultimi mesi della Jugoslavia unita, quando ormai la guerra in Croazia è iniziata, pur a bassa intensità. Durante le estenuanti esercitazioni al confine greco-jugoslavo a Jan viene impedito di usare le armi, in quanto sloveno e, quindi, come possibile minaccia. Ancora diligente, Jan risponde alla chiamata della Difesa Territoriale slovena quando inizia la brevissima guerra d’indipendenza slovena. La guerra di Jan, come quella dei suoi commilitoni e dei loro avversari sul campo, i coscritti dell’esercito jugoslavo, non è eroica. Jan trascorre la propria guerra tra le marce attraverso i colli sloveni e gli appostamenti attorno alle caserme jugoslave, senza vedere azione alcuna, mentre i giovani militari di leva bosniaci, serbi, macedoni, kosovari, croati si arrendono pietosamente davanti ai numericamente inferiori sloveni chiedendo di poter tornare a casa dalle proprie madri. Con la caduta della Jugoslavia il mondo di Jan crolla. Mentre gli sloveni si proiettano al futuro, Jan, stordito e stanco dopo un sonno poco sereno, non riesce a rimanere indifferente di fronte alle tragedie, nazionali e personali, che lo circondano e alla perdita delle sicurezze e della spensieratezza, alla fine dell’estate.

Pregelj regala al lettore un romanzo di formazione jugoslavo, oltre che sloveno. L’autore attraverso gli occhi di Jan mostra l’immagine di una Jugoslavia colma di errori e di meccanismi sbagliati, ma, stranamente, incredibilmente adatta all’esser giovani. La giovinezza jugoslava di Pregelj è multiculturalismo, dogmatismi a cui, anno scolastico dopo anno scolastico, si fa sempre meno caso, musica, spensieratezza, ingenua convinzione tutta socialista secondo cui il futuro è radioso e sicuro.

Nel 1986 il gruppo sloveno Lačni Franz cantava:

Ko si rdeče zvezde šivala

Sva se imela rada

S puško si mi slikala

Svetle nove dni

 

Quando cucivi le stelle rosse

Ci amavamo

Con un fucile mi dipingevi

Nuovi, luminosi giorni

Le promesse della nuova Jugoslavia di Tito sono andate in frantumi senza dare la possibilità di processare a coloro che quella stessa Jugoslavia l’hanno vissuta. Come Jan, come Pregelj, che con una struggente dignità cerca di rielaborare gli avvenimenti e di ricordare, senza però, come hanno fatto i Lačni Franz giudicare, biasimare per le promesse infrante. Jan/Pregelj è conscio del valore della giovinezza vissuta nel paese che non c’è più e la rimpiange, come si rimpiange un amore perduto; come lo stesso Jan, che si chiede cosa sarebbe potuto accadere se, con Defne, la sorella di Elvis, si fosse fatto avanti.

Il romanzo di Pregelj è come quella canzone che veniva fatta cantare ai pionieri sloveni durante il socialismo, in cui si celebrava esattamente l’essere giovani in Jugoslavia. Una canzone allegra, dai toni, a tratti, stranamente nostalgici e che si interrompe all’improvviso, quando i piccoli cantanti e la fisarmonica tacciono, proprio allora, quando sembra che stia per iniziare una nuova strofa, lasciando l’ascoltatore nella perplessità, a cui segue un amaro sorriso.

Zapojmo pesem si veselo,

Naj se razlega prek sveta!

Lepo je v naši domovini biti mlad.

V deželi, kjer so si ljudje kot brat in brat.

In toplo sonce, ki nas greje

In morje, ki poživlja kri.

Lepo je v naši domovini biti mlad.

Cantiam allegramente una canzone,

che si diffonda in tutto il mondo!

È bello essere giovani nella nostra patria.

In una terra dove le persone sono come fratelli.

E il sole caldo che ci scalda

E il mare che rinvigorisce il sangue.

È bello essere giovani nella nostra patria.

Apparato iconografico:

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