“Lo specchio di bronzo” di Irina Ermakova, mito e sentimento nella realtà contemporanea

Riccardo Mini

Quindici anni dopo la prima apparizione in libreria per i tipi di Interlinea (“Ninna-nanna per Odisseo” e altre poesie, a cura di A.  Niero, 2008), la casa editrice Einaudi ripropone al lettore italiano i versi della poetessa russa Irina Ermakova. L’antologia einaudiana [Collezione di poesia, 237 pagine], curata da Alessandro Niero, traduttore, professore di letteratura russa e anch’egli poeta, riunisce una vasta scelta di poesie tratte dall’antologia Lo specchio di bronzo (“Mednoe zerkalo”), messa a punto dalla stessa Ermakova e uscita quest’anno per la casa editrice moscovita O.G.I.

Link al libro: https://www.einaudi.it/catalogo-libri/poesia-e-teatro/poesia/lo-specchio-di-bronzo-irina-ermakova-9788806253202/


Irina Ermakova nasce a Kerč’, in Crimea, nel 1951. Arriva alla poesia piuttosto tardi, dopo una laurea in ingegneria e diversi anni di lavoro nel settore. Esordisce sul finire degli anni Ottanta, in piena Perestrojka, proponendo le sue poesie al bollettino di fabbrica “Za rodinu” (“Per la patria”) di Mosca. La sua prima raccolta, Provincija (“Provincia”) vede la luce nel 1992. La sua voce poetica matura e si fa notare negli anni Novanta e poi Duemila; per via del suo background insolito e del suo tardo approccio al mondo letterario, non è possibile inquadrare la poetessa all’interno di gruppi e movimenti. Due versi ben si prestano alla descrizione del suo apparire:

Dove confinano avanguardia e tradizione

si è innalzata una rosa dal suolo pesticciato”. (p. 69)

La silloge si apre, per volontà della poetessa, che ha lavorato a stretto contatto col traduttore durante la preparazione del volume italiano, con il lungo componimento Acceso un falò, ho alimentato la fiamma (“Ja razvël kostër, nakormil plamja”, 2020). Si tratta di uno sciamanico lamento volto a scongiurare la catastrofe, che al tempo stesso introduce la panica convivenza dell’io lirico con l’elemento naturale che caratterizza molti versi, evoca il dolore del presente attuale:

“Il tempo si è infiammato, distorto.

Si è deformato il corpo della cara terra. […]

Si è immemori di tutto. Ci si mangia l’un altro.  

E il dolore altrui nessuno avverte.” (p. 5)

 e in qualche modo ne prevede il tragico rivolgimento:

“e fischia, turbinando, un’aria nera:

la trasfigurazione del mondo ha inizio.

                                              Comincia il suo rivoltamento.” (p. 7)

Di Irina Ermakova colpisce subito lo sguardo, l’intensità del dettato poetico, che unisce alla già citata comunione panica con l’elemento naturale un lirismo per certi versi intimista, sentimentale, che dialoga con la morte in un rimando continuo tra riflessione e ricordo, in cui i due mondi, dei vivi e dei morti, sono spesso in comunicazione tra loro. È il caso, ad esempio, delle poesie appartenenti alla raccolta Biglia (“Stekljannij šarik”), del 1998. In Inizia a piovere, inizia a piovere (“Dožd’ načinaetsja, dožd’ načinaetsja”), il ricordo di un temporale d’infanzia è l’occasione per un dialogo indiretto con la madre:

“La polvere si posa al suolo e un veggente

fine ispido trapassante acquazzone

falcia le facce diafane, abbindola –

mi senti? non temere: passerà a lato.” (p. 27)

La madre è qui testimone partecipe e silente, ma non per questo meno preoccupato, del ricordo della figlia, come esplicitato nel verso della chiusa: “mamma, non piangere, sono viva, è la pioggia”. Anche in Siamo vissuti a lungo insieme sulla terra – (“My dolgo žili vmeste na zemle”), scritto in memoria dell’amico poeta e cantautore Aleksandr Bašlačëv morto suicida nel 1988 all’età di 28 anni, il confine tra i due mondi è sottile, e il ricordo sfuma nella realtà presente:

“ma ti ricordi – tu mi conoscevi poco;

ma ti ricordi – poco mancava che ti amassi;

ma ti ricordi, angelo, come a distanza

celebrassimo la vita, il suo sfacelo,

facessimo gli gnorri onestamente,

ci uccidessimo a vicenda teneri? […]

Là ancora oggi l’acqua corre

intersecando eterni riposi

e, affinché io non abbia timore, talvolta

mi copri gli occhi con la mano”. (p. 31)

Come segnalato da Niero nella corposa introduzione che apre il volume, è possibile riconoscere vari nuclei tematici che contraddistinguono l’opera di Ermakova. Innanzitutto, i versi sono spesso caratterizzati da una propensione al mito e dal riferimento, diretto o implicito, alla letteratura classica greca e latina, spesso riattualizzata e calata nella realtà contemporanea. È il caso ad esempio dell’odessita Odisseo, che si affretta lungo il viale Primorskij, o del protagonista della raccolta Ninna-nanna per Odisseo (“Kolybel’naja dlja Odisseja”, 2002) e dell’omonima poesia, in cui una novella e disillusa Penelope riaccoglie il marito, sua “gioia passata”, e, invitatolo a bere un amaro “infuso immortale”, gli canta un sentimento per nulla ideale, consumato dal tempo e dall’attesa:

“Bevi, l’austro riconduce a riva le navi prodighe,

bevi, sono estinti i pretendenti, sul mare alta la bonaccia si leva,

bevi, sono cresciuti i figli, non scoprire l’America sta a loro,

bevi, sono stinti i cieli, su, Odisseo, bevi!”  (p. 47)

Accanto al riferimento omerico emerge, appena accennato, quello virgiliano, nella figura dei lampioni che, nella poesia Treno mattutino (“Rannij poezd”), osservano equivoci i due protagonisti “Come Danai dona ferentes” (“kak danajcy s darami”, p. 19). Emergono inoltre nei versi le figure di Pan, il cui flauto al tempo stesso strazia i cuori alle ninfe, agli dèi e “ai pastori nei letti gelidi di Mosca” (p. 37), Afrodite, Eros e Thanatos. Il frequente ricorso al mito è valso alla poetessa l’appellativo scherzoso di “antica poetessa”.

La vena mitologica compare anche nei componimenti super-realisti che caratterizzano la raccolta Alveare (“Ulej”, 2007), in cui la poetessa traccia una serie di ritratti degli abitanti di una classica periferia post-sovietica, dove, tra cortili e palazzoni, si muove, citando nuovamente l’introduzione del curatore, “un’umanità ‘varia ed eventuale’ massicciamente stipata in uno stesso (quasi promiscuo) spazio” (p. XIV). Si tratta di ritratti duri di una realtà spietata, che Ermakova descrive senza sconti ma con umana partecipazione. Vi è, ad esempio, Tolik, abitante del quarto piano, appartamento 13, al quale un incidente sul lavoro ha inciso sul viso un perenne sorriso-cicatrice (“sorride sempre, / proprio non può altrimenti.”, p. 65), oppure Goga, al 102, il cui fondamentale compito, autoassegnatosi, è l’apertura di tutte le porte del caseggiato, e che viene preso in giro o peggio malmenato dai ragazzini del cortile:

“E ha facoltà – a quaranta e passa – di fare acchiapparella, 

solo non tollera quando lo prendono a sassate nella schiena, 

e ringhia, allora che pare un trapano, e sbatacchia le porte: 

sbam – e giú a sghignazzare, come un matto, con noi” (p. 89)

Accanto a questi personaggi spicca anche Ivan Trubeckoj, soprannominato “Ivan Troubador”, con la passione per l’arte e la musica, che salta in aria entrando soldato a Groznyj – riecheggiano in questo le guerre cecene, e subentra dunque anche un certo tema civile sui generis: la Parca che taglia in morte il filo della vita di Ivan è qui assimilata all’ex coordinatrice di classe, che “faceva la gonfia la tronfia / e dava in schiocchi in schiocchi / nell’aria fumosa / con le sue forbici luccicanti” (pp. 79-81). Il tema civile ritorna anche nelle poesie di cui, in seguito al 2014, è protagonista la Crimea, terra d’origine di Ermakova.

Tra gli aspetti più interessanti della variegata poetica ermakoviana c’è la raccolta Carboncino scarlatto su seta nera (“Aloj tuš’ju po čërnomu šëlku”, 2012), nella quale la poetessa, in un particolare processo di pseudotraduzione, indossa la maschera autoriale di Yōko Irinati, fittizia poetessa giapponese del XII secolo, e ne restituisce una silloge di 108 componimenti – di cui 29 rientrano nell’antologia italiana –, proponendo in russo i 5 versi del tanka, forma della poesia giapponese classica. Caratterizza la raccolta un leggero simbolismo, inteso a esprimere le emozioni e un sentimento amoroso spesso tormentato. È il caso, ad esempio, del tanka 18, che recita:

“Una voce

alla tua somigliante.

Ecco il precipizio

dentro cui cade

il cuore…”, (p. 105)

o del 44, da cui è tratto il titolo della raccolta e russa e italiana:

“Si è acceso

lo specchio di bronzo,

pupille picchiettate di rosso –

ancora! Ancora getterò

carbone nel braciere.” (p. 109)

Nella sua traduzione Alessandro Niero restituisce la musicalità del verso russo, col largo utilizzo dell’allitterazione e con una scelta lessicale il cui registro varia e sposa felicemente il solenne, il prosaico e l’onomatopea. Si prendano, a esempio di allitterazione e riuscita ripetizione musicale, i versi d’esordio della già citata Inizia a piovere, inizia a piovere:

“Inizia a piovere, inizia a piovere,

le prime gocce dilavano il volto,

la pioggia avvampa, stronfia, si affacenda,

l’onnipossente ruota fa girare.” (p. 27)

A lui, dunque, il merito di aver restituito al pubblico italiano, grazie anche all’apparato di note che segue la traduzione e che aiuta a cogliere spunti e riferimenti della poetessa – oltre ai già citati Omero e Virgilio, si riconoscono, tra gli altri, Anna Achmatova, Boris Pasternak, Aleksandr Puškin e Heinrich Heine – una delle voci più interessanti nel panorama russo poetico contemporaneo.

Apparato iconografico:

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