Intrappolate nelle distese: Intervista a Malika Musaeva, regista di “Kletka Iščët Pticu”

Intervista a cura di Viktor Toth

 

Kletka Iščët Pticu (“La gabbia cerca un uccellino”, The Cage is Looking for a Bird) è l’unico film di produzione russa presentato in anteprima mondiale alla Berlinale 2023, lo scorso febbraio, nella sezione Encounters. Diretto da Malika Musaeva, regista che ha studiato con Aleksander Sokurov alla Università statale della Cabardino-Balcariana di Nal’čik (dove hanno anche studiato Kantemir Balagov, Alisa Kovalenko e Vladimir Bitokov), il suo esordio si inserisce nel corpus di opere prime finanziate dalla casa di produzione di Aleksandr Sokurov legate alle minoranze del Caucaso, come Tesnota e Ada. Tuttavia, al contrario degli altri film tendenzialmente in cabardino, Musaeva presenta un film in lingua cecena, che si distanzia anche per estetica dalle opere di Balagov o di Kovalenko.

Si tratta di un’opera prima che fa della semplicità il proprio mantra, che racconta senza particolari artifici narrativi una realtà che a molti può risultare sconosciuta. Lo fa creando, al contempo, un piccolo capolavoro filmico, in cui si percepisce un senso di tempo sospeso, caratteristico del migliore cinema d’autore russo, come Tarkovskij o Sokurov stesso. Certe impostazioni visive possono ricordare in particolare Mat i syn (“Madre e Figlio”) del mentore di Musaeva, ma la voce registica della giovane cineasta è sostanzialmente incontaminata, indipendente e inedita. In Kletka Iščët Pticu non è il tema sociale a trascinare la narrazione, come spesso accade in film simili, ma è la critica sociale a essere accessorio all’arte cinematografica.

Abbiamo incontrato Malika Musaeva alla Berlinale, la quale ci ha gentilmente concesso quest’intervista. La traduzione dal russo è a cura di Claudia Fiorito.


 

VT: In che modo è nata l’idea di questo film?

MM: Ho concluso i miei studi ad Amburgo, dopodiché stavo per incominciare a lavorare ad un progetto con una casa di produzione tedesca, ma l’idea che avevano era sui rifugiati ceceni e non era così attuale o rilevante. Sokurov mi ha quindi proposto di realizzare il film impiegando il suo fondo, il Primer Intonacii (Example of Intonation)[1]. Ho ricevuto questa proposta in un momento difficile: era appena iniziato il periodo di lockdown per la pandemia da Covid e non era possibile viaggiare e andare in Caucaso. Appena ho potuto sono partita con il produttore del fondo Primer Intonacii, Nikolaj Jankin, e ci siamo messi a girare in automobile per il Caucaso settentrionale. Il viaggio alla ricerca della location, attraverso tutti quei piccoli villaggi, è stato molto interessante, perché ho imparato molto. Ho esperito di persona i problemi della gente, quanto la memoria della guerra e delle deportazioni sia ancora radicata in quelle zone, in Cecenia come in Inguscezia, oltre ai problemi legati ai conflitti territoriali, che sono ancora presenti, e alla vita delle persone del luogo.

VT: Ha nominato la collaborazione di Sokurov al progetto, che è stato precedentemente suo mentore. La sua presenza ha influenzato in qualche modo la produzione?

MM: Sokurov mi ha lasciato piena libertà e non ha esercitato alcuna influenza. Tuttavia, è stato molto importante per me in ogni fase del percorso – dalla stesura della sceneggiatura al casting, alla ricerca delle location – confrontarmi con lui. Per me è stata un’ottima opportunità per poter imparare da un grande maestro.

VT: Colpisce la presenza scenica del villaggio che vediamo nel film. Com’è avvenuta la scelta della location?

MM: Abbiamo cercato a lungo un luogo dove girare il film. Fin dall’inizio, era chiaro che non sarebbe stato possibile girare in Cecenia. Eravamo dunque alla ricerca di un villaggio nel Caucaso settentrionale che somigliasse a uno ceceno. Stavo per cadere in disperazione, abbiamo incontrato molte difficoltà, pensavo che non avremmo mai trovato una location. Poi abbiamo scoperto questo piccolo villaggio, chiamato Aršty, proprio al confine tra Inguscezia e Cecenia. Si tratta di un villaggio ceceno in cui, letteralmente, vivono non più di 200 persone.

VT: Durante la visione del film, ho percepito una sospensione del tempo, come se esso potesse essere ambientato in qualsiasi epoca senza differenze. È stata una scelta intenzionale? E in caso affermativo, com’è originata?

MM: È un’impressione corretta. Ho avuto anche io la stessa sensazione quando sono arrivata ad Aršty e ho provato trasporla all’interno del mio film. A queste giovani ragazze non permettono di usare i telefoni, al fine di isolarle dal mondo contemporaneo: vivono in una situazione dove il tempo si è fermato. In una sorta di zona… Un limbo temporale, in cui non esiste nessun altro mondo oltre il loro. Mostrare tutto questo è stata una mia chiara decisione.

Mi sembra che,  parlando del  tempo, le persone del luogo siano rimaste ferme al periodo della guerra, a decine di anni fa. All’inizio, quando siamo arrivati nel villaggio io ero l’unica cecena e la crew che mi accompagnava proveniva dalla Russia centrale. Come prima cosa, dei piccoli gruppi di abitanti del villaggio ci hanno raccontato dei loro cari che avevano perso durante la guerra, delle loro tragedie personali, ci hanno mostrato  in quali punti i missili avevano colpito le loro case. Mi sembra siano rimasti fermi a quel periodo.  In ogni caso, si tratta  una reazione comprensibile, siccome il trauma lasciato dalla guerra è molto profondo.

VT: Ho notato anche l’uso del colore, leggermente desaturato, e il contrasto tra primi piani e campi lunghi. Come nasce questo connubio?

MM: È quasi la natura stessa a richiedere l’utilizzo di campi molto lunghi, e, in questo modo, sono riuscita a restituire la sensazione di libertà che queste ragazze sognano, immaginando di fuggire verso questo orizzonte infinito. Al tempo stesso, questi paesaggi trasmettono una sensazione di pericolo, perché le ragazze sono recluse. Nella scena in cui la sorella maggiore della protagonista racconta la sua storia, le reazioni delle altre ragazze non sono aperte: lo spettatore comprende ciò che accade attraverso sguardi e gesti minimi. Per me è stato importante raccontare proprio questo, cosa succede tra le protagoniste, cosa accade in maniera tacita in quel momento. Per quanto riguarda la gamma di colori, io scelgo di non utilizzare dei colori particolarmente accesi, di modo che ci si possa maggiormente concentrare sulla storia, sui personaggi e i loro volti. Per me era importante distanziarmi da un tipo di narrazione documentaristica, girando con attori non professionisti.

 

 

VT: In questo film si nota una rappresentazione particolare della condizione della donna rispetto ad altri film sull’argomento. Nel suo film lei rappresenta la donna in funzione della società cecena con uno sguardo interessante, soffermandosi molto sul conflitto tra la contemporaneità e la tradizione…

MM: È una questione molto ampia. La vita delle donne cecene è tutt’altro che facile, anzi. Ciò dipende dalla tradizione, secondo cui le donne, in sostanza, non hanno assolutamente alcun diritto e dal fatto che si ha una situazione resa molto complessa a causa delle tensioni politiche. A volte si sentono in televisione notizie di giovani ragazze cecene che cercano di fuggire, perché capiscono che non vogliono vivere in quelle condizioni, ma che vengono riportate con la forza nelle loro famiglie dagli stessi parenti e la reazione delle famiglie non è affatto positiva. Si tratta di una questione molto complessa.

Durante la guerra le donne avevano più libertà, erano al pari degli uomini: combattevano al loro fianco e partecipavano attivamente agli incontri. Ora la situazione è molto più difficile, che peggiora sempre di più. Mi sembra che in primo luogo la stessa società cecena non sia ancora pronta al cambiamento. Finché in  ogni famiglia cecena non si avrà la consapevolezza del fatto che occorre abolire il vecchio diritto tradizionale, il cosiddetto Adat,  la situazione non potrà cambiare.

VT: Spesso nei film che rappresentano il patriarcato, ci vengono presentati personaggi femminili solidali fra loro, ma in questo film non c’è alcuna “sorellanza”, c’è un conflitto tra donne…

MM: Se la trama avesse riguardato solo la questione del patriarcato, si sarebbe potuta svolgere in qualsiasi paese islamico. Tuttavia, in Cecenia esiste un sentimento di responsabilità collettiva. Le persone vivono in uno stato di terrore perché possono essere punite o uccise in quanto membri della stessa famiglia. Questo senso di responsabilità collettiva esiste solo in Cecenia, si tratta di una situazione peculiare e il motivo per cui le donne hanno così tanto timore per le proprie figlie e per loro stesse. Inoltre, non possono aiutarsi l’una con l’altra: l’errore di una figlia può causare l’ostracismo sociale di un’intera famiglia.

VT: Secondo lei, sarà possibile vedere questo film in Cecenia?

MM: Spero che arriverà il giorno in cui sarà possibile proiettare questo film in Cecenia e che i ceceni stessi vorranno vederlo. Al momento mi sembra, purtroppo, che non sia il periodo migliore.


Note:

[1] Fondo cinematografico istituito da Aleksandr Sokurov nel 2013 http://en.sokurov.fund/ .