Plem’’ja (The Tribe) di Myroslav Slabošpyc’kyj

Anna Mangiullo

 

Regia: Myroslav Slabošpyc’kyj

 

Sceneggiatura: Myroslav Slabošpyc’kyj

Fotografia: Valentyn Vasjanovyč

Montaggio: Valentyn Vasjanovyč

Produttore: Valentyn Vasjanovyč, Ija Myslyc’ka

Produzione: Harmata Film Production

Distribuzione: Arthouse Traffic

Origine: Ucraina, Paesi Bassi

Lingua: Lingua dei segni ucraina

Durata: 132’

 

Genere: Drammatico

 

Link al Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=JEKlhmLICAs

 

Myroslav Slabošpyc’kyj (1974 -) si laurea in Arte e Spettacolo all’università statale di Kyїv, collaborando in varie produzioni televisive e lavorando al Centro Cinematografico O. Dovženko. Si trasferisce poi a San Pietroburgo. Dal 2006 partecipa con diversi cortometraggi a vari festival internazionali (Berlinale, Festival di Locarno). In seguito allo scoppio della guerra nel 2014, Slabošpyc’kyj ritorna in Ucraina dove girerà “Plem”ja”, segnando il turning point nella storia del cinema ucraino.

 

Trama: Primo giorno di scuola: Serhij arriva in un collegio per non udenti dove viene subito avvicinato dalla “tribù” (in ucraino plem”ja, appunto), la gang della scuola dedita a rapine e prostituzione. Dopo essersi accertati che il ragazzo sia pulito e averlo sottoposto a una prova di iniziazione, decidono che egli può ora far parte della tribù e partecipare alle attività criminali. La situazione rimarrà stabile fino a quando Serhij non si innamorerà di Anja, una delle prostitute nonché studentessa del collegio. I suoi sentimenti entreranno in conflitto con l’attività della tribù, i cui membri arriveranno a compiere azioni estreme.

 

Interpreti:

Hryhorij Fesenko – Serhij

Jana Novykova – Anja

Roza Babij – Svietka

Oleksandr Dzjadevyč – Hera

 


Straordinaria, non è vero? E niente dialoghi. A noi non occorrevano i dialoghi, bastava il volto...” Queste sono le parole che pronuncia Norma Desmond in Viale del Tramonto, un film che descrive la caduta di una diva del cinema muto in seguito alla nascita del sonoro. Molte battute del film di Billy Wilder, a ben guardare, potrebbero adattarsi al film di Myroslav Slabošpyc’kyj. Plem”ja, infatti, è un film essenzialmente muto, ma molto più di quanto non fosse il cinema ai suoi esordi: in due ore di pellicola non si sentirà alcun dialogo, non si leggerà alcuna descrizione tra una scena e l’altra – come accadeva invece nei film muti –, né una riga di sottotitolo. Il film è interamente girato nella lingua dei segni ucraina e gli unici rumori che si sentono sono “i sussurri e le grida” dei protagonisti e, in alcuni punti, un vocio di fondo che, nell’assenza totale di suono extradiegetico, è quasi come squarciasse l’orecchio facendo riemergere la realtà circostante. Una scelta radicale ed estrema ma che funziona: lo spettatore non può distogliere lo sguardo dallo schermo neanche per un secondo, diventa, suo malgrado, un accanito voyeur, in quanto anche la minima distrazione può far saltare tutti i nessi della trama.

Nel cinema muto, infatti, è importante vedere l’intero corpo, in quanto esso diventa lo strumento principale che gli attori hanno per recitare. In virtù di questo, Slabošpyc’kyj giustifica la scelta di utilizzare perlopiù piani americani e campi medi inseriti in lunghi piani sequenza: “abbiamo girato il film in questo modo in maniera casuale. Quando abbiamo fatto le riprese ci è piaciuto […], non ci abbiamo pensato. Abbiamo un sacco di movimento e di attività fisica, come quella che si può trovare in Chaplin o Keaton”.

L’intenzione di creare un muto in vecchio stile è alla base del soggetto, a cui ha poi in parte contribuito l’esperienza personale del regista: Slabošpyc’kyj ha infatti dichiarato di essersi interessato al tema della sordità fin dai tempi della scuola, da quando osservava i ragazzi di un istituto per non udenti che aveva sede di fronte alla sua scuola. Il primo embrione di Plem”ja sarà infatti Hluchota (Deafness, 2010), cortometraggio girato in maniera simile, incentrato sulla giornata di una persona sorda e presentato alla Berlinale, dove ha ottenuto il premio come miglior cortometraggio.

Anche Plem”ja sarà destinato a cambiare le sorti del nuovo cinema ucraino, andando di pari passo con le sorti politiche del Paese: il film è stato girato tra ottobre del 2013 e marzo del 2014, mentre in Ucraina divampava la cosiddetta “terza rivoluzione”, ed è stato presentato il 21 maggio 2014 durante la “Semaine de la Critique” del Festival di Cannes, mentre l’Ucraina si riprendeva dai postumi del Majdan ed era impegnata a eleggere Porošenko.

Così come il Majdan ha ridato una dignità all’Ucraina – Euromajdan è anche chiamata La Rivoluzione della Dignità –, così il film di Slabošpyc’kyj ha fatto sì che i riflettori internazionali fossero finalmente puntati sul cinema del Paese: Plem”ja è il primo film ucraino ad approdare a Cannes e a essere presentato in più di cento festival internazionali, ricevendo oltre quaranta premi. Non a caso, nella classifica dei cento migliori film del cinema ucraino occupa il quarto posto, laddove il primo posto è occupato, e a ragione, da Tini nezabutych predkiv (Shadows of Forgotten Ancestors, 1964) di Sergej Paradžanov.

In Plem”ja a colpire non è solamente la forma scelta per la narrazione, ma anche lo stesso soggetto rappresentato: l’istituto per non udenti, più che una scuola, sembra ricordare un microcosmo gerarchico governato da abusi, criminalità, odio e violenza – di ogni tipo –, sfida lo spettatore a non distogliere lo sguardo anche in scene insopportabili alla vista e alla sensibilità, come quelle ambientate nella stazione degli autobus che scandiscono la trama del film, presentando sempre un nuovo evento; ma anche le stesse scene erotiche sono prive di sensualità e vengono messe al centro della macchina da presa in maniera nuda e cruda. Le vere protagoniste di queste azioni sono le emozioni che le hanno dettate e che vengono presentate senza alcun filtro, dalla lotta alla rabbia, dalla gelosia all’amore.

Non a caso il sottotitolo del film recita “l’odio e l’amore non hanno bisogno di parole”: in questo senso la lingua non gioca un ruolo politico, viene scavalcata da un’attitudine viscerale e primitiva per cui, quasi come in una tribù, a prescindere dalla lingua che si parla, sarà sempre possibile riconoscere il bene e il male.