Atlantyda (Atlantis) di Valentyn Vasjanovyč

Francesca Lazzarin

Regia: Valentyn Vasjanovyč

Sceneggiatura: Valentyn Vasjanovyč

Fotografia: Valentyn Vasjanovyč

Montaggio: Valentyn Vasjanovyč

Produttori: Valentyn Vasjanovyč, Ija Myslyc’ka, Volodymyr Jacenko

Produzione: Garmata Film Studios, Limelite

Distribuzione: Arthouse Traffic

Origine: Ucraina

Lingua: Ucraino

Formato: 2,39:1

Durata: 106’

Genere: Drammatico

 

Link al Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=B7oHu-mKApw

Link a cui reperirlo: https://takflix.com/en/films/atlantis (al momento non disponibile in Italia)

 

Valentyn Vasjanovyč (1971 -) è nato a Žytomyr. Ha studiato a Kyїv all’Università Nazionale di Teatro Karpenko-Karyj, dove si è laureato come direttore della fotografia, ottenendo poi un ulteriore diploma in regia. Ha esordito come autore di film rivolti al grande pubblico, per poi collaborare come produttore e direttore della fotografia a “Plem”ja” (The Tribe, 2014) di Myroslav Slabošpyc’kyj. Nei suoi lavori successivi, “Riven’ čornoho” (Black Level, 2017), “Atlantyda” (Atlantis, 2019) e “Vidblysk” (Reflection, 2021), presentati e premiati a importanti festival internazionali, ha sviluppato un proprio peculiare e raffinato linguaggio cinematografico.

 

Trama: Donbas, 2025. Un anno prima l’Ucraina ha vinto la guerra iniziata nel 2014 contro le milizie separatiste appoggiate e armate dalla Russia, riconquistando così il pieno controllo delle proprie regioni orientali. Ma il conflitto ha lasciato cicatrici non rimarginabili, tanto nella terra dove si è svolto, quanto nelle persone che lo hanno combattuto e che ora cercano con difficoltà di reintegrarsi in un contesto mutato per sempre. Tra loro vi sono l’ex soldato Serhij, tornato a fare l’operaio in uno stabilimento metallurgico in procinto di chiudere i battenti, e l’ex studentessa di archeologia e paramedico Katja, che insieme ad altri volontari riporta in superficie i cadaveri, spesso senza nome, dei tanti morti al fronte…

 

Interpreti:

Andrij Rymaruk – Serhij

Ljudmyla Bileka – Katja

Vasyl’ Antonjak – Ivan

 


Nella prima sceneggiatura abbozzata da Vasjanovyč, l’azione del film, che alcuni anni dopo sarebbe stato il vincitore del premio principale nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia 2019, avrebbe dovuto svolgersi in uno stabilimento metallurgico di Mariupol’ (forse proprio quella Azovstal’ che nella primavera 2022 sarebbe diventata tragicamente famosa per altri motivi?). Si sarebbe dunque trattato di un dramma sociale ambientato in un contraddittorio presente, da cui far emergere una serie di spinose questioni di attualità nell’Ucraina contemporanea: non solo il conflitto nel Donbas ancora in corso, con la linea del fronte a pochi chilometri dalla città portuale e industriale appena riconquistata dall’esercito ucraino, ma anche le difficoltà economiche, la crisi delle acciaierie, la corruzione, il dibattito sull’uso della lingua ucraina in zone prevalentemente russofone.

Man mano che procedeva con lo sviluppo del progetto, però, il regista si è reso conto che un simile prodotto sarebbe stato di ardua fruizione per il pubblico straniero che ci si proponeva invece di raggiungere, da un lato ricordandogli che la guerra in Ucraina non si era mai fermata, nonostante al momento dell’uscita di Atlantyda i media globali ne parlassero assai di rado, dall’altro mettendolo davanti a un lavoro originale, diverso da quanto offerto dal mainstream ucraino variamente collegato al Donbas.

E il risultato di questo radicale ripensamento del soggetto iniziale, che alla fine ha concesso all’autore una maggiore libertà creativa, è davvero inaspettato e di grande impatto. Non siamo più nel presente, ma nel futuro, seppure prossimo, per quanto in seguito Vasjanovyč si sia detto meno ottimista e abbia dichiarato che una data più plausibile per i fatti sarebbe potuta coincidere, piuttosto, con il 2045. Sullo schermo non c’è più la realtà di oggi con i suoi problemi tangibili, ma uno straziante connubio di utopia e distopia, perché l’Ucraina alla fine è riuscita a vincere quella che è già palesemente definita una guerra contro la Russia, ma pagando il prezzo di una devastazione davvero degna di un film post-apocalittico. Certo, sono riconoscibili degli scampoli dell’idea di partenza: ci sono uno stabilimento metallurgico a un passo dalla chiusura, i dissapori ideologici acuiti dalla guerra appena finita, le ciminiere di una città che non viene mai nominata (ma sappiamo che il film è stato girato proprio a Mariupol’), una squadra di attori tutti non professionisti, di fatto nel ruolo di se stessi, tra cui spicca il vero veterano, nonché amministratore di una fondazione per l’assistenza ai soldati ucraini, Andrij Rymaruk; anche l’associazione di volontari “Tulipano nero” cui fa capo Katja, a proposito, esiste realmente. La messinscena è essenziale, asciutta, priva di commento musicale e di qualsivoglia retorica. Nondimeno, sin dalla prima scena si nota come lo sguardo dell’autore riesca a spingersi ben oltre i confini di un dramma impegnato, facendo scaturire suggestioni che trascendono il contesto ucraino qui ed ora. E non si tratta solo di alcuni dettagli poco realistici come l’uso esclusivo di un idioma ucraino puro e letterario, anche tra gli operai del Donbas (il che è parte dell’utopia personale di Vasjanovyč, a cui la questione della lingua sta particolarmente a cuore).

In primo luogo, non si può non porre l’accento sull’impiego insistito di un procedimento stilistico già adottato con successo da Vasjanovyč nel suo precedente lungometraggio Riven’ čornoho, e che salta immediatamente all’occhio: il film è diviso in una serie di “scene”, ciascuna corrispondente a un’inquadratura perlopiù statica, che talvolta si mette inaspettatamente in moto dando il via a lunghi piani sequenza, con una particolare predilezione per la prospettiva del passeggero sui sedili posteriori di un veicolo. E a proposito, spesso e volentieri al centro della scena c’è un qualche tipo di parete divisoria che fa da ponte tra ciò che vediamo e ciò che sta al di fuori: una finestra, o appunto il parabrezza di un’auto. Il regista ne parla come di un artificio volto a tenere salda l’attenzione dello spettatore sul preciso segmento della storia racchiuso nell’inquadratura fissa; a parte questo, in ognuna di queste scene viene rafforzata la portata simbolica degli specifici elementi su cui sono concentrate. Il risultato, nel suo complesso, è una riflessione senza tempo sugli orrori non tanto della guerra, quanto del dopoguerra.

La nuova Atlantide del titolo è un Donbas sommerso per sempre in seguito a un conflitto pluriennale e devastante: una desolata no man’s land che a tratti ricorda la zona di alienazione attorno a un altro lembo straziato del suolo ucraino, Čornobyl’. Le mine sparse tra i campi e le strade fangose non saranno disinnescate per anni, i terreni e le falde acquifere risultano avvelenati dalle armi e dagli scarti delle miniere allagate, il resto del paese sembra lontano e assente, le industrie sono state acquistate da grandi gruppi stranieri che ora vogliono chiuderle, forse per sempre (stridente il contrasto con il radioso avvenire prefigurato nel documentario vertoviano del 1931 Entusiasmo: La sinfonia del Donbas, i cui presupposti risultano completamente decostruiti al momento della sua proiezione all’interno dello stabilimento). La vita di prima, negli appartamenti di case ora sventrate come quella visitata da un nostalgico Serhij, non è più possibile. Eppure in questi grigi paesaggi lunari si aggirano anche figure umane, tutte inevitabilmente affette da forme gravi di sindrome post-traumatica, sebbene con sintomi diversi che spaziano dall’apatia agli scoppi di violenza. La nuova Atlantide, come dice il protagonista alla fine, “è una riserva naturale per quelli come noi”: uomini e donne anch’essi “sommersi” senza apparente possibilità di ritorno, ridotti agli spettri di quello che erano, e allo stesso tempo incapaci di costruirsi una vita altrove, perché l’unico habitat possibile per i loro traumi è il deserto post-bellico.

Forse, una speranza di rigenerazione arriva dal personaggio femminile: Katja ha studiato archeologia e ora disseppellisce per l’appunto i reperti dell’Atlantide che non c’è più, per dare, quasi fosse un’Antigone dei nostri tempi, una degna sepoltura ai troppi cadaveri abbandonati in quella terra desolata e contaminata. Cadaveri spesso senza un nome, annullati anche loro come la vita prima della guerra, ma di cui si cerca di rispettare perlomeno la memoria. Atlantyda, che suona come un monito sulle conseguenze irreversibili di ogni guerra, si apre e si chiude con due scene riprese attraverso un visore notturno termico, di quelli che permettono ai soldati di scorgere figure umane nell’oscurità attraverso il calore da esse emanato. E si tratta peraltro delle uniche due scene connotate da colori vividi e, appunto, caldi. Il prologo è la sepoltura in una fossa di uno dei tanti corpi che, forse, un giorno sarà recuperato dai volontari di “Tulipano Nero”. L’epilogo è l’abbraccio tra Serhij e Katja: un guizzo di profonda umanità e pietas tra sopravvissuti che, forse, dopo aver seppellito i loro morti, dissotterreranno e recupereranno anche se stessi.