“il dado del destino”, un racconto di Michal Viewegh

Traduzione a cura di
Valentina Cancian

Linda Caregnato
Bianca Dal Bo

 

Si presenta qui di seguito una terza traduzione tratta dall’opera di Michal Viewegh, a seguito di uno stralcio tratto da Můj život po životě (“La vita dopo la mia vita”) e del racconto něco na těch vánocích být musí (“qualcosa in questo natale deve pur esserci”) tratto dalla raccolta Povídky o lásce (“Racconti d’amore”). Per Andergraund Rivista è stata anche pubblicata l’intervista L’educazione degli scrittori in Boemia. La traduzione qui realizzata è quella del racconto kostka osudu (“il dado del destino”) tratta dalla già citata raccolta Povídky o lásce del 2009. Il titolo è scritto da Viewegh volutamente in minuscolo come il titolo di ogni capitolo del libro, quasi a mostrare in un non detto che in questa raccolta spicca qualcosa di buffo e anticonvenzionale.

Riga dopo riga il lettore si trova infatti incastrato in un astuto gioco tra banale e assurdo e rimane sospeso sulla superficie di un racconto interamente dedicato all’affermare che l’amore certamente esiste, facendo intendere, però, il contrario. La fronte corrugata del lettore lascia trasparire una certa perplessità, come se la protagonista di kostka osudu, che narra in prima persona la nascita del suo fidanzamento, volesse convincere non gli interlocutori, ma soprattutto se stessa dell’esistenza dell’amore. La sua futura famiglia perfetta nasce grazie ad alcune coincidenze non del tutto ovvie e alla sua incredibile e facilmente sfatabile intuizione di aver trovato l’uomo della sua vita in circostanze programmate dal destino. “La seconda cosa che dovete sapere, ragazze, è che l’amore può nascere anche in una situazione quasi senza speranza. Dovete essere pronte a incontrare l’amore anche dove non l’avreste mai cercato. Dovete credere all’acqua nel deserto.” Ecco che l’amore a lei predestinato sboccia grazie a un dado del destino. Il dilemma della protagonista, alle prese a ventott’anni con una crisi esistenziale di solitudine, consiste, infatti, nel scegliere un ragazzo a cui chiedere di uscire; si fa aiutare da un dado speciale tutto vuoto, su cui scrivere i nomi di questi ragazzi. Il dado le presenta il prescelto: in due dei tre lanci esce il cosiddetto Hockeista. Il dado del destino si ripresenta quando i due, a cui non è ancora passato mai per la testa di mettersi assieme pur avendo passato alcune settimane insieme a causa di un piccolo inconveniente, si trovano a una partita di hockey e quel grande tipico cubo sospeso al centro dello stadio punta la telecamera proprio su di loro. E allora alla protagonista cadono i paraocchi: “Fissavo lui e me stessa sul grande dado; e a quel punto mi fu tutto chiaro. Santo cielo, il Dado del destino!”. 

 

Michal Viewegh - Wikipedia
La traduzione e la pubblicazione sono state autorizzate dall’autore.


 

il dado del destino

Di due cose sono davvero certa. La prima è che l’amore esiste davvero, e nessuno può dire altrimenti. È ovunque in mezzo a noi, solo che chi lo cerca deve guardarsi bene attorno e rimboccarsi un po’ le maniche. Anche l’acqua non si trova ovunque se si inizia a scavare senza riflettere, ma chi per l’acqua ha una certa sensibilità alla fine la trova sempre, e non deve avere per forza in mano una bacchetta o portarsi dietro un rabdomante. La seconda cosa che dovete sapere, ragazze, è che l’amore può nascere anche in una situazione quasi senza speranza. Dovete essere pronte a incontrare l’amore anche dove non l’avreste mai cercato. Dovete credere all’acqua nel deserto.

Allora, veniamo alla mia storia: oggi sono una donna felicemente sposata, a casa ho un marito meraviglioso e due bambini sani e belli e non smetterò mai di essere grata al destino per la mia fortuna. I due biglietti di quella storica partita di hockey ormai sono incorniciati e appesi in camera da letto.

Solo che allora, cinque anni fa, dopo varie peripezie (non credereste mai quante cene noiose, passeggiate gelide e orribili scopate possa comprendere questa parola), non volevo più averci a che fare con gli uomini.

Però i miei stavano per partire per l’Egitto e io pensavo che, se per ripicca avessi lasciato il Letto vuoto, per tutti quei dieci giorni di casa libera, avrei potuto offendere il Dio dell’Amore, e su queste cose non si scherza. Non credo certo a tutti quegli stupidi oroscopi del quotidiano Blesk, però, d’altra parte, mi piace leggere i tarocchi o cercare di scoprire quando sia nata una certa persona, in modo da poter calcolare il tema natale e capirne qualcosa di più. Vabbè, non importa. Ho quindi deciso di affidare quei dieci giorni al Dado del destino, che ovviamente avevo in casa. Se non ce l’avete (ma ve lo consiglio, perché se non sapete più dove sbattere la testa, è un oggetto pratico che vi aiuta a prendere decisioni), allora sappiate che non è un dado da gioco, come, per esempio, quelli che si usano a Non t’arrabbiare, è più grande e senza numeri, in modo che in qualunque momento si possa scrivere qualsiasi cosa nelle facce bianche e poi lanciarlo; ed è proprio quello che feci. Aprii una bottiglia di moscato e dopo una matura riflessione scrissi, uno a uno, quattro nomi in tutto: ovviamente Honza (che era ormai sposato da tempo, ma che volete farci, all’epoca era la mia Never Ending Story…);  subito dopo Patrik, anche se mi era ben chiaro che non sarei entrata due volte nello stesso fiume; poi Nuovo Collega di lavoro (che però era un gran punto interrogativo) e alla fine l’Hockeista, con cui avevo parlato in totale due volte in tutta la mia vita (quella della festa per la qualificazione dello Slavia alla finale dei play-off e poi al telefono) ma in ogni caso mi aveva fatto una buona impressione. Quindi quattro in tutto. Per quanto mi sforzassi, non sono riuscita a mettere insieme sei nomi e, piuttosto che aggiungere codardamente uno qualunque dei miei ex idioti che avevo tralasciato, era meglio lasciar perdere. Prima di iniziare avevo stabilito che avrei lanciato accuratamente il dado per tre volte, in modo da non cambiare le regole a metà del gioco. 

La prima e la seconda volta uscì Hockeista, la terza, Letto vuoto.

Non avevo altra scelta.

Buttai giù un bel sorso di vino e lo chiamai. Take it easy! Sapevo che se avessi rimandato quella telefonata anche solo di un paio di minuti, non lo avrei più chiamato. Mi conosco troppo bene. Rispose subito. Si ricordava di me, ma naturalmente era un po’ sorpreso. Gli chiesi se potevo invitarlo a cena venerdì o sabato. Nell’aria aleggiava una domanda ovvia, perché avevo chiamato proprio lui?

“Sai perché ho chiamato proprio te?”, la buttai lì. “Perché sei l’unico ragazzo che non mi ha ancora mai deluso”.

Uno a zero per me.

“Allora va bene”, rispose dopo averci pensato un po’ su. “Andata, sia per sabato che per la spiegazione”.

I miei sarebbero partiti sabato a mezzogiorno.

Quando mi avevano lasciato per la prima volta a casa da sola per una settimana, avevo diciassette anni e gli occhi di mio papà erano perennemente umidi (da quel che mi ricordo è sempre stato allergico a tutto), pieni di paure fantasmagoriche provocate da un mix tra le copertine delle riviste porno che vedeva ogni mattina in edicola, e due film sulle droghe che aveva guardato nella tv satellitare… Che non succeda nulla alla mia bambina! Allora, cinque anni fa, avevo però già ventotto anni e di certo nei loro occhi c’era solo la paura che al loro ritorno mi avrebbero trovato ancora dentro casa.

E che non sarei ancora stata sposata.

Oggi io e mio papà ci siamo riappacificati e non lo biasimo nemmeno per i nostri vecchi litigi perché non era colpa di nessuno; ventotto anni di convivenza sono un incubo per tutti.

“Allora stai attenta, mi raccomando”, mi disse.

Arricciò le labbra, mi diede un bacio di sfuggita e mi accarezzò i capelli, cosa che di solito non faceva mai. Che avesse già qualche presentimento? Mah, chi lo sa, non potevo parlare con lui di quelle cose. 

Li accompagnai all’aeroporto, tornai a casa, mangiai due banane e andai in palestra. Vi do queste informazioni, ragazze mie, solo per farvi capire una cosa importante: la cena con l’Hockeista non rappresentava per me un appuntamento con un V.I.P. Se fosse stato un appuntamento con un V.I.P., non sarei mai andata prima in palestra, perché nello spogliatoio non ci si riesce a truccare, farsi la piega come si deve e cose così. In più io soffro del cosiddetto effetto post-sudorazione, come mi piace chiamarlo, perché ancora un’ora dopo aver finito gli esercizi, i rivoli di sudore continuano a scendermi giù dalla schiena fino alle mutande. Per farla breve, l’Hockeista non mi interessava abbastanza da non poterci andare a cena tutta sudata. Vabbè, non importa.

Passò a prendermi davanti alla palestra e andammo a mangiare in centro (descrivere la cena nei minimi particolari è inutile, ogni tanto andava bene, altre volte uno schifo). Mi riaccompagnò a casa alle undici. Aveva un grande macchinone nero importato dall’America. Scendemmo, lui mi aprì il bagagliaio e io tirai fuori il borsone con dentro la tuta da ginnastica. Poi mi accorsi che dal borsone era caduto un calzino sudato e come un fulmine provai a prenderlo, solo che l’Hockeista non aveva notato il mio movimento nascosto e, chiudendo il pesante bagagliaio, mi spezzò entrambe le braccia.

E poi dicono che le coincidenze non esistono! Oggi lo ripeto sempre: alla base del mio matrimonio felice c’è un calzino sudato. Quella volta però c’era ben poco da ridere, perché naturalmente svenni dal dolore. Quando mi ripresi, ero seduta nella sua maledetta macchina a strillare (non intendo dire che mi lamentavo, stavo proprio strillando). Inoltre continuavo a sanguinare e mi ero fatta la pipì addosso. L’Hockeista urlava che sarebbe andato tutto bene e continuava a fare i fari e a suonare il clacson.

“Col cazzo che andrà tutto bene!”, gli gridai isterica. “Ahiaaaaaa!”.

Quando sono arrabbiata parlo spesso in modo volgare. Non riuscivo a trattenermi e non me ne fregava un bel niente. Con quell’idiota, che mi aveva rotto le braccia col bagagliaio, non volevo più averci nulla a che fare. Continuava a mordersi le labbra e si stava precipitando a cento all’ora verso l’ospedale Thomayer: pronto soccorso notturno, flebo, radiografia, gesso.

“C’è qualcuno che può prendersi cura di lei?”, mi chiese alla fine il dottore, mentre l’infermiera mi legava le braccia ingessate con due fasce.

Osservai le mie dita immobili e in quel momento mi resi conto della situazione. Come avrei fatto a telefonare? E a mangiare? Come cavolo sarei riuscita a lavarmi? Le mie due migliori amiche erano in Irlanda da sei mesi, la terza stava affrontando una gravidanza a rischio e i miei sarebbero rimasti dieci giorni in Egitto.

“No”, risposi.

“Nessuno?”.

“A quanto pare no!”.

Gli spiegai la situazione e scoppiai a piangere impotente.

“Allora non possiamo lasciarla andare via così”.

Cercai di rassegnarmi all’idea di rimanere rinchiusa in ospedale, ma era più difficile di quanto credessi. Non ero mai stata ricoverata in vita mia. Continuavo a piangere come un agnellino.

“Ce la faremo”, si intromise l’Hockeista.

Persi la ragione. Se avessi saputo che lo stava dicendo il mio futuro marito, mi avrebbe impressionato il modo in cui si era assunto la responsabilità e cose così, e forse mi sarei perfino commossa; solo che in quel momento lo ritenevo uno sconosciuto con il quale avevo cenato solo una volta in tutto. Mi immaginai le sue mani estranee che mi sfilavano i pantaloni bagnati di pipì.

“No che non ce la faremo!”, gli strillai contro. “Ma che cavolo dici?! Come pensi di risolvere questa situazione?!”.

“Mi prenderò dei giorni di vacanza”, disse l’Hockeista. “Andrà tutto bene, non preoccuparti”.

Lo fulminai con uno sguardo beffardo.

“Lo conosco solo da un giorno”, riferii al dottore “Un giorno solo, porca puttana!”.

L’Hockeista alzò gli occhi al cielo. Mi girai di nuovo verso l’infermiera e il dottore. Dalle loro facce serie, avrei scommesso che stavano pensando tutti la stessa cosa: come avrebbe fatto quel ragazzo a pulirmi il culo.

E così lui si piazzò a casa mia.

Dormiva sul divano in soggiorno. Per colpa di quei dannati gessi potevo stendermi solo a pancia in su e ovviamente non riuscivo a dormire più di tanto; ogni notte mi svegliavo cinque volte e verso mattina, al contrario, mi addormentavo. L’Hockeista si alzava presto: rifaceva il letto, arieggiava la camera e poi si trascinava in bagno. Dopo accendeva il pc e rispondeva alle e-mail. Alle dieci bussava alla porta della mia stanza e aspettava con pazienza finché non lo lasciavo entrare. Guidato dalle mie istruzioni acide tirava fuori dall’armadio gli abiti che mi servivano, me li portava sul letto e si metteva seduto accanto a me. Ogni mattina facevo un sospiro, imprecavo sboccatamente, chiudevo gli occhi e lui cautamente mi sfilava i gessi dalle spalline della camicia da notte e io rimanevo nuda.

Poi mi metteva delle mutande pulite, una maglietta, i pantaloni e i calzini. Mi lavava i denti e il viso e mi pettinava i capelli. Andava a fare la spesa, preparava da mangiare e mi imboccava. Sparecchiava la tavola, mi metteva su una commedia americana (che suo fratello aveva scaricato illegalmente) e dopo spariva per il resto della mattinata. Tornava prima di mezzogiorno e mi cucinava il pranzo. Lavava i piatti, mi preparava un caffè istantaneo e sul mio telefono componeva i numeri dei conoscenti con i quali non mi ero ancora lamentata; appena rispondevano, metteva il vivavoce, appoggiava il telefono davanti a me sul tavolo e andava a fumare sul balcone per non sentire tutti i miei insulti.

Cosa a cui, tra l’altro, mi dedicavo con immenso piacere.

Per tutta la settimana non gli feci neanche un mezzo sorriso, giuro. Poteva anche cucinarmi cinquanta frittate, ma lo avrei comunque guardato con odio dall’alto della mia poltrona. Per tutta la settimana non feci altro che sgridarlo. Oggi sarei disposta a riconoscere che sicuramente avevo contribuito anch’io a quell’incidente, ma l’unica frase che allora mi risuonava in testa era: QUESTO CRETINO MI HA ROTTO LE BRACCIA!

Al pomeriggio mi portò fuori. La domenica passeggiammo attorno all’isolato perché il tempo era così così, e poi mi dava fastidio che tutti mi guardassero come se fossi stata un mostro alieno. Il lunedì c’era bel tempo e l’Hockeista mi trasportò con la sua odiosa macchina americana alla confluenza dei fiumi Moldava e Sázava. Per tutto il giorno avevo osservato l’acqua in un ostinato silenzio.

Passavamo le sere a leggere e ogni volta lui doveva girarmi le pagine.

Mi annusavo le ascelle di frequente: niente di che. E ovviamente la situazione peggiorava sempre di più. Grazie a Dio riuscii a fare la pipì e a tirare da sola lo sciacquone; ma non mi pulii bene. Avevo ridotto tutta la mia igiene intima a delle brevi immersioni nel bidè, che l’Hockeista aveva riempito di acqua; non devo certo dirvelo io, ragazze, che la cosa non funziona al cento per cento. Dopo tre giorni anche io avevo iniziato a sentire che puzzavo, quindi lui doveva averla avvertita molto prima.

“Va bene, pervertito, mi arrendo”, gli dissi.

Mi guardò offeso. Vi ho detto che è alto un metro e novantacinque?

“Il tuo momento è arrivato. Mi potrai lavare. Ovunque, se capisci che intendo”.

“Okay”, rispose come se niente fosse.

“Puzzo come una fogna, quindi non sarà un lavoro piacevole”, lo informai pregustando la mia vendetta. “Buon divertimento!”.

Si limitò a sorridere. (Io no.)

Vi devo confessare una cosa: non fece nemmeno un passo falso, ma mi lavò con tale accuratezza e, allo stesso tempo, in modo così delicato, che finì per eccitarmi. Non poteva non essersene accorto e naturalmente questo aumentò la sua fiducia in sé stesso. 

“Se hai altre richieste, basta chiederlo”.

Alla fine si chinò verso di me, sembrava che volesse baciarmi. Mi spostai immediatamente.

“Va bene”, gli risposti spietata. “Saresti così gentile da lavare la vasca?”.

I primi quattro giorni logicamente ero stitica. Al quarto mi vennero dei tali crampi che fui costretta a prendere volente o nolente due regulaxy, e il venerdì mattina cacai letteralmente l’anima.

“Ora non potrai entrare nel bagno per almeno un’ora!”, gli annunciai.

“Non preoccuparti per me”, ribatté. “Piuttosto pensa se hai bisogno di una mano per pulirti”.

Cominciava a ribattere. Ne aveva abbastanza pure lui.

Tuttavia sabato mi portò a quella fatidica partita. La National Hockey League a Praga! I New York Rangers contro i Tampa Bay Lightning. C’era il tutto esaurito e i miei conoscenti, fan sfegatati dello Slavia, ne parlavano entusiasti come dell’evento dell’anno, solo che io ero struccata, ero stata pettinata male (da lui ovviamente) e mi prudeva terribilmente la pelle sotto i gessi. Di conseguenza il mio umore era a terra. Mi accompagnò al mio posto, salutò i suoi amici ma senza presentarmi. Mi chiese se avessi voglia di qualcosa visto che sarebbe andato a comprare degli snack. Penso che intuisse già la mia risposta.

“L’unica cosa che avrei voluto”, risposi seccamente. “È che nessuno mi avesse rotto le braccia.”

Annuì con la testa.

“Ancora tre giorni”, sibilò. “Poi ti riconsegnerò ai tuoi e non mi rivedrai mai più. Promesso”.

Girò i tacchi e dopo cinque minuti tornò con un secchio di popcorn gigantesco che non mi offrì di proposito. Nemmeno una volta. Li prendeva meccanicamente a manciate, era così concentrato sull’hockey che si era scordato di me. O si era dimenticato di fatto della mia storpiata esistenza, oppure lo fingeva in modo convincente. Burin Burinovič detto il burino, pensai furiosa. Lo odiavo.

I giornali poi scrissero che si era trattato di un grande show in stile americano: i laser, un divertente programma durante l’intervallo e così via; ma io più che altro mi ero annoiata. Il menzionato intervallo spassoso consisteva in una telecamera che girava tra le coppie ignare nello stadio, i loro volti sorpresi comparivano immediatamente su una specie di grande dado sospeso sopra il ghiaccio e un addetto inseriva la scritta lampeggiante KISS! KISS! KISS! Quindi il pubblico iniziava ad applaudire felice i due poveretti, finché questi non si baciavano, pieni di imbarazzo. Ero disgustata da quegli happy end forzati.

Alla fine dell’intervallo tra il secondo e il terzo tempo, la telecamera inquadrò me e l’Hockeista

Il mio primo pensiero fu: Magnifico, proprio ciò che temevo. Ci mancava pure questa.

Circa duemila persone risero con gusto delle mie braccia rotte.

E cominciarono ad applaudirci.

Chiusi gli occhi. Non riuscivo a respirare. Andatevene tutti a fanculo, pensai fra me, solo che gli applausi si fecero più insistenti. Mi sembrò che nessuno potesse opporsi a quella massa spietata; e invece fu proprio quello che fece l’Hockeista: guardò dritto verso la telecamera e scosse la testa. Gli applausi si trasformarono subito in fischi e ruggiti, ma lui continuò testardamente a sgranocchiare i suoi popcorn. Tra parentesi, la collera gli dona parecchio: gli occhi gli si induriscono e all’improvviso sembra terribilmente minaccioso e sexy. Fissavo lui e me stessa sul grande dado; e a quel punto mi fu tutto chiaro.

Santo cielo, il Dado del destino!

Girai le braccia ingessate verso l’Hockeista a mo’ di robot.

“Baciami! Subito!”, gli ordinai.

L’infame ci pensò per un po’, ma alla fine ubbidì.

Il pubblico strepitò trionfale. Mi sciolsi come un ghiacciolo. Gli ficcai la lingua in bocca. Ci fissammo e alla fine mi caddero i paraocchi. Per la prima volta lo osservai in modo diverso, lasciando da parte quel velo di commiserazione e avversione. In quel momento compresi cosa stava succedendo. Mi baciò di nuovo, questa volta senza la telecamera: lo fece teneramente e con un ché di protettivo, se capite che intendo. In quel momento capii che stavo baciando l’uomo della mia vita, che stavo baciando il futuro padre dei miei figli; e non mi sbagliavo.

L’amore esiste, e nessuno può dire il contrario.

All’acqua nel deserto dovete crederci sempre.


Apparato iconografico:

Immagine di copertina: https://pixabay.com/it/

Immagine 1: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/1d/Michal_Viewegh%2C_Brno.jpg