Il trauma della memoria. “La vita dopo la mia vita” di Michal Viewegh

Traduzione a cura di Valentina Cancian, Linda Caregnato e Bianca Dal Bo
Introduzione di Martina Mecco

 

Il contesto della prosa ceca contemporanea è un bacino quanto mai interessante e ricco, che condensa al suo interno un insieme di voci molto diversificato, quanto per temi sviluppati tanto per gli stili impiegati. L’attenzione dell’editoria italiana nei confronti di questa produzione non può dirsi indifferente. Nonostante ciò, essa si rivela essere molto più prolifica di quanto si manifesti in traduzione. All’interno di questa pluralità di autrici e autori, un ruolo centrale è svolto da Michal Viewegh. Scrittore eruttivo, a cui si deve la pubblicazione di un numero davvero consistente di opere, si afferma come uno dei protagonisti del risveglio della letteratura ceca all’indomani del crollo della censura, processo iniziato con la Rivoluzione di Velluto del 1989. Prima di delineare quelli che sono gli aspetti salienti della vita e dell’opera di Viewegh, si ritiene doveroso osservare come gli sia, al pari di autori canonici come Bohumil Hrabal o Milan Kundera, uno degli autori cechi più tradotti in italiano. Sette sono infatti i titoli che a partire dal 1999, anno della pubblicazione italiana di Výchova dívek v Čechách (“L’educazione delle ragazze in Boemia”, 1994), sono stati editi in traduzione in un arco temporale che si protrae fino al 2011.

Michal Viewegh nasce a Praga nel 1962. Dopo aver conseguito il diploma di maturità presso il liceo di Benešov si iscrive inizialmente alla VŠE (Vysoká škola ekonomická) di Praga, studi che però non porta a termine. Successivamente, inizia a studiare pedagogia presso l’Univerzita Karlova, dove si laurea nel 1988. Dopo un periodo a lavorare come insegnante trova impiego, nel 1993, nella casa editrice Československý spisovatel. Se si escludono i racconti per giovani pubblicati su rivista negli anni Ottanta e la novella Nazory na vrazdu (“Opinioni su un omicidio”) del 1990, egli riscontra il suo primo successo editoriale nel 1992 con Báječná léta pod psa (“Quei favolosi anni da cane”), primo romanzo divenuto anche oggetto di una trasposizione cinematografica del regista Petr Nikolaev. L’opera di Viewegh è, come già osservato, particolarmente vasta e variegata, difatti non è solo autore di romanzi e raccolte come Povídky o manželství a o sexu (“Racconti sul matrimonio e sul sesso”, 1999), ma anche di opere dal carattere ironico come Nápady laskavého čtenáře (“Pensieri di un lettore gentile”, 1993). Nella produzione dell’autore si incontrano, inoltre, tentativi riusciti di approcciarsi ai generi più disparati, come in Případ nevěrné Kláry (“Il caso dell’infedele Klára”, 2003), romanzo riconducibile al genere poliziesco.

All’interno di questo ampio insieme di opere, Můj život po životě, opera pubblicata in Repubblica Ceca nel 2013 dalla casa editrice Druhé město, rappresenta un passaggio centrale della prosa di Viewegh. Contestualizzandola nell’insieme della produzione dell’autore, essa può essere identificata come una cesura, in quanto le vicende narrate al suo interno rivelano un’importanza particolare a livello biografico. Nel dicembre del 2012, infatti, sui giornali cechi viene data notizia del ricovero dello scrittore inseguito a dei problemi di salute. Argomento dell’opera è, oltre alla descrizione delle dinamiche dell’incidente, una riflessione vivida delle difficoltà affrontate durante il periodo di convalescenza. Viewegh, che riprende a scrivere poco tempo dopo l’accaduto, mette in luce le sue debolezze, mostra come, inseguito a questa sua esperienza traumatica, abbia dovuto prendere atto degli inevitabili cambiamenti che hanno segnato la sua vita. Cambiamenti che, come si noterà anche nelle parti che si è scelto di tradurre, riguardano nel profondo ogni aspetto della quotidianità.  In questo senso, Můj život po životě risponde in modo quanto mai calzante al tema scelto per la realizzazione di questo numero.

Profilandosi come una confessione intima di Viewegh, già autore di opere di stampo diaristico come Báječný rok (deník 2005) (“Un anno favoloso (diario del 2005)”, 2006) o il più recente Zrušení rok (deník 2020) (“Un anno cancellato (diario del 2020)”), essa si inserisce all’interno di quell’ampio bacino di opere in cui il trauma e la malattia vengono rielaborati a livello personale attraverso la trasposizione letteraria. Una rielaborazione autobiografica della memoria, quella di Viewegh, che si identifica al tempo stesso in una sorta di confronto con essa. Infatti, uno dei temi centrali è proprio il trauma della perdita temporanea della memoria. Quella in cui sono ambientati gli eventi narrati in Můj život po životě è una realtà dai tratti sfumati, dove il passato e il presente paiono confusi, indecifrabili. A questo proposito, significative e fortemente emotive sono scene come quella in cui vengono messe in luce le difficoltà che l’autore riscontra durante quella che per il lettore è solo una banale spesa al supermercato. Per evidenziare ancora di più l’importanza dell’opera, si legga quando affermato nella prefazione scritta da Martin Reiner, editore di Druhé město:

Questo è il ventiseiesimo libro di Michal Viewegh… e il fatto stesso che stia ancora scrivendo (o che abbia già ripreso a scrivere) è, in questo momento specifico, un evento chiave e un motivo centrale. […] Ho avuto la possibilità di seguire con i miei stessi occhi quanto difficilmente e lentamente egli iniziasse a ricordarsi della catastrofe che gli era successa. […] È stata un’enorme fortuna il fatto che Michal sia sopravvissuto. La gravità del suo disorientamento generale, causato principalmente dal collasso della memoria a breve termine, nelle prime settimane e nei primi mesi era tale che anche le persone più vicine a lui temevano danni irreversibili alle sue capacità intellettuali… […] Questo è il ventiseiesimo libro di Michal… e questo non è un libro realizzato dallo scrittore nel pieno delle sue forze. A volte il testo appare un po’ ciclico e monotono, è possibile che anche un lettore paziente provi una sensazione di frustrazione, quella che in questi ultimi lunghi mesi l’autore ha conosciuto così da vicino e di persona.” (p. 7)

Edizione ceca di Můj život po životě

Una breve annotazione: la traduzione letterale del titolo ceco sarebbe “La mia vita dopo la vita”. La scelta di tradurlo con “La vita dopo la mia vita” risiede nella volontà di rendere in modo più esplicito il cambiamento avvenuto nella vita dell’autore.

La traduzione si compone di alcuni estratti tratti dall’edizione ceca: Michal Viewegh, Můj život po životě, Brno, Druhé město, 2013, rispettivamente pp. 9-11; pp. 21-33; pp. 36-37. La traduzione e la pubblicazione sono state autorizzate dall’autore.


La vita dopo la mia vita

La mia debole memoria mi riporta stranamente a due ricordi “sud-americani” piuttosto nitidi. Io e altri tre cinquantenni, un medico, un banchiere e il direttore di un’agenzia pubblicitaria (eravamo insieme alle superiori a Benešov e ora siamo partiti per un viaggio esotico tra soli uomini): superati gli edifici di una piccola azienda agricola, saliamo su un promontorio erboso per osservare il panorama e stimolare un po’ l’appetito in vista del pranzo. Un piccolo gruppetto di rapaci vola in cerchio proprio sopra le nostre teste e qualcuno dice che si tratta di avvoltoi, ma non ne sono sicuro; la presenza di quegli enormi volatili però mi innervosisce, anche se spero non abbiano il coraggio di attaccare quattro uomini adulti. O almeno, non ho mai sentito parlare di attacchi del genere – come del resto della dissezione dell’aorta.

Il ghiacciaio che abbiamo visto il giorno precedente è qualcosa di simile: dall’alto delle sue pareti enormi blocchi di ghiaccio cadono in mare, scomparendo tra le onde con un incredibile fragore. Come gli altri turisti, mi metto imperturbabile a fotografare lo spettacolo e, come un bambino, mi godo quel frastuono – completamente cieco e sordo di fronte a una così evidente metafora della fine…Neanche il nome della cascata, Gola del Diavolo, riesce a farmi supplicare in ginocchio il destino di concedermi ancora qualche anno.

È successo una settimana dopo il ritorno dal viaggio tra soli uomini.

Mia moglie è a Praga a sentire un concerto al Rudolfinum, mentre io sono a Sázava a badare alle bambine. Di sera, avverto una fitta lancinante al petto, un’improvvisa debolezza e il cuore mi batte all’impazzata. Temo di svenire. Penso subito a un infarto. Chiedo al vicino se può badare alle bambine, poi chiamo l’ambulanza. Salgo in camera, recupero la carta d’identità e un po’ di soldi. Ancora non immagino che la vita, così come l’avevo sempre conosciuta (e amata), sia appena finita. Sento arrivare i soccorsi. Una volta chiusa a chiave la casa vuota, mi dirigo verso l’ambulanza. Qualcuno mi fa distendere sulla barella nel vano posteriore, mi misura la pressione e mi fa un’iniezione. L’ambulanza riparte e io perdo i sensi.

Lo scrittore Michal Viewegh è stato portato d’urgenza all’Istituto di medicina clinica e sperimentale di Praga nelle prime ore del mattino del 9 dicembre. Il paziente aveva chiamato il 118, che lo ha portato al pronto soccorso. I cardiologi hanno escluso l’ipotesi di un infarto acuto del miocardio e hanno prontamente formulato la diagnosi di una dissezione acuta dell’aorta ascendente. Il paziente era in condizioni critiche e, durante la rianimazione, è stato trasferito in sala operatoria, dove è stato sottoposto a una rischiosa operazione durata diverse ore. Una volta che la sezione dell’aorta interessata è stata sostituita con una protesi, è stata ripristinata anche la funzione della valvola aortica.

La dissezione dell’aorta toracica è una patologia estremamente grave che, senza un intervento d’urgenza, risulta fatale in quasi la totalità dei casi.

[…]

Per la prima volta vado a fare la spesa da solo. La strada la so, ma continuo a controllare con ansia le chiavi e il portafogli, come se da un momento all’altro qualcuno me li potesse rubare. Do un’occhiata anche alla lista della spesa – ho segnato a malapena quattro cose, ma non riesco a ricordarmele. Mi sento spaesato come Cappuccetto Rosso prima di entrare nel bosco. Nemmeno lei era così tesa la prima volta che ha incontrato il lupo. Guarda caso, il negozio è ancora lì, dove è sempre stato. Chi l’avrebbe mai detto! Cerco nella tasca sinistra la moneta da dieci corone per il carrello – ma la tasca è vuota, rimango spiazzato. La trovo nella tasca destra. Con mano tremante tiro fuori la moneta.

Mi cade, ruzzolando via sull’asfalto. Altri spiccioli non li ho. Inizio a inseguirla, continuando a tener stretti in mano il portafogli e il cellulare, con la borsa della spesa appesa al braccio. Alla fine, la moneta è finita sotto ai carrelli. Per recuperarla, dovrò probabilmente mettermi in ginocchio – cosa che infatti faccio un secondo dopo. I passanti mi osservano.

“Mi è caduta una moneta”, spiego scusandomi.

Cerco di sembrare tranquillo, ma lo sguardo della signora accanto a me lascia intendere che non ci riesco più di tanto.

“Ha bisogno di una mano?”, mi chiede; deve aver letto l’intervista sul quotidiano MF DNES, e quindi sarà informata a dovere sulla mia salute.

“La ringrazio, è molto gentile, ma ce la faccio da solo”, dico con tono più neutro possibile. “Ci sono quasi.”

Mi chino rapidamente in avanti sotto i carrelli parcheggiati e prendo una testata. Perdo l’equilibrio e cado sulle ginocchia. Il colpo è così forte che ho paura di essermi ferito. Con la mano mi tocco la fronte per capire se sto sanguinando.

“Tutto a posto?”, mi chiede premurosa la signora.

“Sì, sì”, rispondo io, anche se penso il contrario.

La donna si piega con leggerezza in avanti, raccoglie la moneta da terra e me la porge. Mi rialzo. Mi gira la testa, barcollo e per poco non perdo l’equilibrio; la donna mi afferra al volo. I passanti mi fissano con interesse. La donna mi accompagna alla panchina più vicina, dove di solito siedono i barboni.

“Mi hanno appena operato al cuore”, le spiego.

Faccio un po’ la vittima.

“Lo so”, dice. “L’ho letto sul giornale”

Mi sento già un po’ meglio; senza dare nell’occhio controllo con la mano destra di avere cellulare e chiavi, per poi accertarmi di avere anche il portafogli.

“Le manca qualcosa?”, chiede premurosa la signora.

“No. Volevo solo essere certo di non aver perso nulla”

“E ha tutto?”

“Mi sembra di sì”

“Ce la fa a fare la spesa da solo?”

“Non si preoccupi”, le rispondo, anche se non ne sono per niente sicuro. Provo persino a sorridere, ma il mio sorriso è piuttosto disperato. In mano stringo la moneta da dieci corone perché non mi cada un’altra volta. La donna mi accarezza su una guancia.

“Allora in bocca al lupo.”

Mi alzo e torno ai carrelli. Al secondo tentativo ce la faccio, ma quando entro nel negozio con il carrello, mi rendo conto che sto tremando tutto. Ma poi che l’ho preso a fare il carrello?, mi viene in mente troppo tardi. In fondo mi sarebbe bastato uno di quei banali cestini. Poco dopo mi torna alla mente l’immagine di mia figlia più piccola seduta nel carrello della spesa, e il ricordo mi fa venire le lacrime agli occhi. Fantastico, idiota che non sei altro, ci manca solo che cominci a frignare davanti a tutti!, mi dico, ma non riesco a farne a meno. Abbasso lo sguardo e inizio a singhiozzare.

“Che succede?”, mi chiede qualcuno.

Per la vergogna mi copro gli occhi con le mani tremanti.

“Ha bisogno di aiuto?”

È ovvio che ho bisogno di aiuto!, dico furioso tra me e me. Ho bisogno di un aiuto professionale!

Mi asciugo le lacrime e scuoto la testa, cerco addirittura di accennare un sorriso. Mi allontano a passo svelto con il carrello. A quanto pare, oggi la spesa va oltre le mie capacità, mi dico rassegnato, ma poi, grazie a Dio, riesco a portarla a termine.

Tornare alla vita significa anche riprendere la regolare attività fisica.

A causa dell’incessante senso di smarrimento ho continuato a rimandare a lungo questo grande passo, ma alla fine il mal di schiena e il sovrappeso mi costringono a fare un salto alla palestra più vicina. All’inizio, inaspettatamente, fila tutto liscio: l’abbonamento è ancora valido, ritrovo subito la strada per lo spogliatoio e perfino l’istruttore si ricorda ancora di me. Ma già la seconda volta, metto in scena per tutti i presenti uno sketch non molto divertente dal titolo mamma, ho perso le chiavi di casa che mi butta completamente a terra (ovviamente le chiavi sono sempre state nell’armadietto dello spogliatoio). Per di più, riesco a sollevare solo metà dei chili di un tempo, e ci rimango così male che smetto in anticipo gli esercizi e mi trascino a casa.

Nei ristoranti, per strada e sui tram, continuo a sentir parlare delle solite cose: macchine nuove, carte di credito, cellulari, elettrodomestici, mobili vari, vacanze, serie tv… tutte cose che non mi riguardano. Percepisco tutto come se fossi dietro un muro di vetro, e poi stacco la spina del tutto.

I miei amici e conoscenti continuano a comprarsi frigoriferi, lavatrici, oppure a piantare alberi, mentre io provo solo un’inesorabile glaciale indifferenza. Ho la sensazione di allontanarmi dal mondo normale ogni giorno un po’ di più.

Ecco una delle mie tipiche sedute di ergoterapia.

“Che giorno è oggi?”, mi chiede la terapeuta.

Ci rifletto su a lungo. Non lo so.

“Non importa. In che mese siamo?”

“Febbraio?”, rispondo incerto.

“No, è già marzo. Stia tranquillo. Si ricorda quando è nata sua moglie?”

Mi sforzo di ricordare. Non ne ho idea. È spiacevole, addirittura fastidioso. Sento una sorta di dolore fisico.

“Non lo so”, confesso alla fine umiliato.

“E le sue figlie?”

Non lo so. Davvero non lo so. Ho il cervello in pappa.

La volta dopo nella clinica psichiatrica di Bohnice.

“Le vengono mai pensieri suicidi?”, mi chiede lo psichiatra.

All’improvviso cala un silenzio ancora più profondo di qualche istante prima. Mia moglie, seduta lì al mio fianco, abbassa lo sguardo.

“No”, mento. “Ho una moglie e tre figlie, io, mi proibisco di pensare a questa soluzione”

Ma ho detto soluzione, mi rendo conto a scoppio ritardato.

È il compleanno di Veronika. Va a cena con delle amiche a Praga e poi andranno a ballare in una famosa discoteca. Prima che parta le auguro di divertirsi (mi rendo conto che se lo merita più di chiunque altro), ma nel profondo del cuore preferirei che rimanesse lì a solidarizzare con la mia tristezza e depressione. Durante la notte, fisso cupo il soffitto della camera da letto e immagino la mia donna che balla… sono geloso? Sì, ma la causa della mia gelosia non è un uomo in particolare, ma la capacità, a me negata, che mia moglie ha di divertirsi. Sono geloso della vita che c’è in lei…

Ieri ho sfogliato la mia agenda dell’anno scorso, come se ci potessi trovare una spiegazione

Martedì 4 dicembre, il giorno dopo essere tornato da Buenos Aires, ho partecipato alla tradizionale asta di beneficenza delle Pigotte dell’UNICEF. Il giovedì pomeriggio ho girato un’intervista per la Česká televize (con Igor Chaun) e la sera sono andato a una degustazione di vini, a cui ero stato invitato dal direttore dell’autosalone Volvo di Průchonice. Il venerdì mattina ho lavorato alla sceneggiatura di un nuovo film col produttore Rudolf Biermann, ho pranzato con Markéta, la mia ex, e poi la sera a Sázava sono andato alla festa dei cinquant’anni del mio vicino Jarda (ricordo che ne sono uscito ubriaco).

Il pranzo di lunedì con Rudolf Biermann e la cena con Martin Bursík e Kateřina Jacques sono saltati… Quel martedì avrei dovuto partecipare a una lettura pubblica a Plzeň e mercoledì ne avrei avuta un’altra a Špindlerův Mlýn. Non mi sono fatto vivo neanche venerdì alla presentazione del mio nuovo libro a Brno e a Olomouc. Non mi sono presentato nemmeno ad altre due cene che avevo in programma e sono rimasti ad aspettarmi invano pure alla radio nazionale. Secondo la mia agenda, quel venerdì avrei dovuto saldare la settimana bianca a Monte Bondone.

Con mia grande gioia ho ritrovato anche il quadernetto nero con gli appunti di viaggio dell’anno scorso; la calligrafia è così minuta, che ora devo mettermi d’impegno per riuscire a decifrarla. Cerco di nuovo un segno premonitore di quello che sarebbe successo di lì a poco.

Il 9 ottobre 2012 ho scritto in un bar di Olomouc: Vicino a me, un tavolo di studenti. Berretti alla francese, foulard al collo, zainetti di tela, pantaloni trasandati. Meticolosa trasandatezza. Rigorosa sciatteria. La divisa con cui affrontano la maratona della vita. Tu dei vestiti ormai te ne fotti. Ti manca poco al traguardo. Fra poco, svaniranno gioie e dolori. Il bar si chiama Destiny. Destino.

E ancora: Dritto davanti a te, subito dietro la porta a vetri d’ingresso si trova un cartello. Tutte e tre le frecce indicano la stessa direzione: Cattedrale di San Michele. Cappella di Jan Sarkander. Convento dei Gesuiti… Ma sai bene che alla fine resterai qui, davanti al tuo Johnnie Walker.

All’incontro è venuto un centinaio di persone: Cento persone, cento storie di vita vera, ne ascoltano con interesse una completamente fittizia, mi appunto nel quaderno nero.

Con indifferenza osservi le auto che passano. L’epoca in cui leggevi le riviste di automobili si è da tempo conclusa. L’unica auto che davvero ti interessa è quella in cui stanno sedute tua moglie e le tue figlie.

Alla scuola elementare di Jablonec ho partecipato a un incontro con dei bambini.

“Anch’io ho scritto un libro”, mi confessa un bimbo di circa sette anni mentre gli faccio l’autografo alla fine dell’incontro. “Ma non l’ho finito.”

“Perché?”, gli sorrido.

“Non avevo la colla.”

“Quanti anni ha Lei?”, mi chiede un altro bambino.

“Cinquanta.”

“Come il nonno.”

Oggi mi sono messo a osservare la grande foto di gruppo fatta alla festa dei miei cinquanta anni al club Jazz Dock. Tutta quella spensierata allegria … Dov’è finita? È passato solo un anno – ed è tutto diverso. Gli ospiti erano così tanti che il fotografo ha dovuto dividere donne e uomini, per farli stare tutti all’interno dell’obiettivo. Guardo le facce delle mie amiche e delle mie ex amanti; non riesco a collegare i volti alle relative storie. Ci sono andato a letto con questa qui? E con quella lì? Non lo so – ma ormai non importa più nulla. E di nuovo mi viene in mente che ho esaurito la mia razione. Ho finito di scrivere la mia storia. La scatola dei cioccolatini è ormai vuota…

Dopo più di sei mesi vado a correre per la prima volta. Non sono neanche a un terzo del solito percorso che mi manca il fiato e i molti chilometri che rimangono li faccio trascinandomi. Quando sento il battito del mio cuore, mi auguro che possa subito scoppiare; alla faccia degli antidepressivi.

Mia moglie mi porta a Bohnice per la mia solita terapia. Siedo impotente nell’auto e all’improvviso mi coglie alla sprovvista il ricordo di mio nonno Josef: era stato ricoverato a Bohnice alcuni anni prima e alla fine era morto lì. Lo andavo a trovare due volte a settimana e la prima cosa che facevo era portarlo fuori sul balcone con la sedia a rotelle, dove poi si metteva a fumare.

Un giorno sono arrivato e la stanza era vuota.

“La sua candelina si è spenta”, aveva detto l’infermiera… e sorprendentemente quella frase me la ricordo tale e quale ancora oggi.

“Gli volevamo bene”, aveva aggiunto.

Ero uscito sul balcone e mi ero messo a piangere.

Lo psichiatra chissà perché sta di nuovo mettendo alla prova la mia memoria; i risultati sono come sempre patetici. Tutto qui?, penso deluso. E la mia voglia di vivere, per esempio? Quella non interessa a nessuno, no? Da uno psichiatra mi sarei aspettato di meglio.

Ce ne andiamo da Bohnice, alla sbarra d’uscita del parcheggio mia moglie prende il portafogli (quello che le ho portato io dal Sudamerica) e cerca le monete.

L’obolo per Caronte, penso tra me e me, ma non dico niente.

Sázava. Accompagno le mie figlie a trovare i bambini di alcuni conoscenti che vivono dall’altra parte del paese. Lungo la strada penso anche a come la mia eventuale morte potrebbe segnare le mie bambine. Sento crescere dentro di me inquietudine e ansia. Siamo arrivati; mi invitano per un caffè, ma declino l’invito il più gentilmente possibile e me ne torno a casa. All’inizio avevo in programma di fermarmi anche alla tomba di mio papà, nel cimitero lì vicino, ma è proprio ciò che ho meno voglia di fare in questo momento.

La depressione risucchia tutte le mie forze. Chiamo mia moglie, che è a una conferenza a Praga… subito dopo aver riagganciato, rimpiango di aver fatto l’ennesima chiamata di autocommiserazione. Fuori dalle finestre è primavera: oggi fa piuttosto caldo e tira un venticello piacevole, mentre io me ne sto seduto nella casa vuota, fisso il vuoto e penso al suicidio.

Il leitmotiv dei consigli dei miei amici è: Tieni duro, andrà meglio!

E se non fosse così?, penso più volte. E se la situazione attuale, nonostante il parere positivo dei dottori, rappresentasse il punto finale della mia riabilitazione? E se fosse questo il mio massimo risultato, con cui volente o nolente devo imparare a vivere?

Quando mi costringo – o sono costretto – a togliermi il pigiama per mettermi dei vestiti decenti, trascorro la maggior parte del tempo con la nuova tuta da ginnastica Adidas o con la vecchia tuta della Nike. La morte come sport, penso.

Bohunka, un’amica di Veronika, mi ha portato due pesi del marito; sono piccolini, a quanto pare perfetti per gli esercizi di riabilitazione. Ormai sono troppo leggeri per suo marito, orgoglioso habitué della palestra.

I miei ringraziamenti suonano un po’ imbarazzati.

“Spero che non ti sia offeso”, mi dice la moglie del culturista.

“Ma figurati”, rispondo con troppa irruenza, perché in effetti è proprio così: mi sono offeso. So che non aveva cattive intenzioni, ma mi sento comunque umiliato. Sono il maschio debole del gruppo, mi ripeto. Il membro malato. Sollevo solo pesi che gli altri maschi solleverebbero con un dito. Nel periodo dell’accoppiamento nessuna femmina mi sceglierebbe.

Vado di nuovo a correre – e finisce ancora peggio dell’ultima volta. Mi si bloccano le gambe e non riesco a riprendere fiato. Sembra assurdo pensare che appena sei mesi fa sono riuscito a correre un’intera maratona. Mi trascino fino a casa e a pranzo mi abbuffo, quasi furioso. È la tipica reazione da bambini: non posso vendicarmi del destino, come forse vorrei, e quindi lo faccio su me stesso.

[…]

La mia memoria non migliora.

Ogni informazione che riguarda mia moglie, le bambine, il cane, i gatti, le medicine o i miei impegni devono mettermeli per iscritto, altrimenti è sicuro al cento per cento che me ne dimenticherò in men che non si dica. Verba volant, scripta manent. Se devo andare a prendere le mie figlie a danza, devo annotarlo in modo leggibile, altrimenti me lo dimentico. Se mia moglie e le bambine non registrano le loro attività nella mia agenda, spesso non ho la più pallida idea di dove possano essere.

Leggo sull’agenda che devo accompagnare le bambine al corso di danza e così andiamo in tram fino a Smíchov. Sono nervoso, mia figlia di otto anni mi tranquillizza. Accompagno le bambine (anche se in realtà sono loro ad accompagnare me) e me ne vado in un bar lì vicino, dove, seduto a un tavolino all’aperto, aspetto che finisca il corso. Ordino un caffè e un calice di vino bianco, sebbene l’alcol mi sia ancora vietato. Chiamo mia moglie per assicurarmi di ricordare l’ora in cui finisce il corso. Controllo in continuazione di avere chiavi, cellulare e portafogli. Mi tremano le mani. Ordino un altro bianco, l’ansia non se ne va. Pago con largo anticipo e vado a prendere le bambine; naturalmente arrivo troppo presto, così aspetto su una panchina in corridoio, sfinito.

Ho ancora quella deprimente sensazione di aver fatto qualcosa di sbagliato. Non sono sicuro di ricordarmi a che ora finisce il corso di danza, ma non voglio chiamare un’altra volta mia moglie per chiederglielo. Arrivano delle adolescenti; la loro ostentata sfacciataggine rimane per me un mistero. Ascolto controvoglia la loro conversazione banale, a tratti perfino volgare. Quando la mia figlia più piccola esce dalla porta di fronte, tiro un sospiro di sollievo.

 

Apparato iconografico:

Immagine 1: https://1gr.cz/fotky/idnes/19/081/r7/JB7d3116_82958610.jpg

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