“Per Elisa” di Magda Szabó: il Grande Trauma e la realtà nel teatro

Nicolò Dal Bello

 

La carriera letteraria di Magda Szabó (Debrecen, 5 ottobre 1917 – Kerepes, 19 novembre 2007) percorre tutto il XX secolo, tra poesia, romanzi, sceneggiature, opere teatrali e saggi. Una scrittura prolifica, a tratti patologica, coltivata sin dalla più tenera età.

Una vita votata alla letteratura, che comporta l’impossibilità di dividere l’autrice dalla sua opera: il critico letterario Augustine de Sainte-Beuve riteneva che la vita di un artista fosse inseparabile dalla sua opera, essendo questa il risultato del temperamento del suo autore; questo comporta che l’esistenza del singolo, le sue esperienze personali e soprattutto la Storia si riversino sulla scrittura, che ne diventa preziosa testimonianza.

Esistono degli avvenimenti che tendono a sovvertire l’esistenza, a tracciare un solco tra il prima e il dopo. Di questo parla Magda Szabó nel romanzo Per Elisa (“Für Elise”, 2002), ove è centrale il Grande Trauma collettivo della storia ungherese, il trattato del Trianon (4 giugno 1920): imposto al termine della Grande guerra dalla Triplice alleanza all’Ungheria sconfitta, comportò il depauperamento dei territori magiari e una forte trasformazione geografica e amministrativa del paese. Dal punto di vista culturale, fu la fine della potente e feconda Grande Ungheria, che divenne Csonka Magyarország (“Ungheria mutilata”).

Il romanzo narra l’infanzia e l’adolescenza di Magda Szabó e della sorellastra Cecilia, un’orfana che entra nella vita della piccola Magdalona all’età di quattro anni, tra vita scolastica, educazione, sentimenti, fantasticherie. A prima vista sembrerebbe una normalissima autobiografia, ma il trauma storico di cui si è accennato proietta la sua ombra lungo tutto il romanzo, invisibile ma sempre presente.

“Ogni personaggio importante della mia vita possiede, nel profondo della mia coscienza, una parola chiave, sentendo o leggendo la quale compare, dietro alla definizione, una persona: ogni libreria mi riporta mio marito, il nome di un qualsiasi eroe della mitologia mio padre, un frammento di melodia di Chopin mia madre; la parola chiave di Cili è: Trianon.” (p. 31)

Il personaggio di Cecilia è al centro di vari dibattiti che ne mettono in dubbio l’esistenza, al punto che si è arrivati a negare la veridicità del romanzo, definendolo come un connubio tra fiction e autobiografia. Ma la Szabó ribadisce l’autenticità dei fatti trattati, stabilendo uno statuto di verità: Ho promesso in questo libro che non avrei mantenuto alcun segreto, e non mi sarei vergognata nell’ammettere cose delle quali parlo al Signore tra me e me solo durante la Confessione dei peccati” (p. 319). Il lettore, di fronte ad un racconto autobiografico, ha il brutto vizio di trasformarsi in un segugio, cercando le tracce di rottura del contratto di verità. Ma Cecilia non è un personaggio di fantasia: è un’intelligente alterazione del reale atto a introdurre il simulacro della Storia, strumento per realizzare e raccontare un’esperienza collettiva attraverso la vita della stessa autrice.

Il racconto del trauma è un’operazione delicata, da equilibrista: è necessario maturarne la consapevolezza di ciò che è successo e che circonda l’esistenza del singolo. La piccola Magdalona riceve passivamente il trauma:

“[…] l’absurdum politico che in guerra e dopo era accaduto da noi, a noi, era evidente quanto una frattura esposta. La storia aveva sparso la cenere vulcanica della prima guerra mondiale sul paese, sulla città, sulla popolazione, e se il bambino viveva solamente con il sospetto che fosse accaduta una disgrazia insolitamente grande, il cittadino adulto era conscio del fatto che la bufera aveva scaraventato nell’arena, dal suo trapezio nel tendone del circo del mondo, un’intera nazione, e che il fallimento non era conseguenza della nostra mancanza di coraggio, ma il risultato di una qualche obbrobriosa congiura, e coloro che parlavano di ciò facevano anche presente che la pace non sarebbe arrivata senza la concertazione politica di stranieri.” (p. 33)

La narrazione della storia diventa uno scavo incessante nell’autrice e nei personaggi a cui dà voce, volto a recuperare ricordi complessi, stratificati, rielaborati. Ma ricordare serve soprattutto a comprendere e a far luce sugli squilibri della storia personale e collettiva. Il tempo nel romanzo non è il racconto di un ricordo cristallizzato, ma una sorta di doppio binario per il quale si sviluppa sia la narrazione autobiografica che il reportage storico-sociale.

A questo proposito, bisogna introdurre il concetto di Traumascapes, ovvero “places across the world marked by traumatic legacies of violence, suffering and loss, (where) the past is never quite over” (Tumarlin 2005, p. 12). Quando un luogo viene colpito da un evento catastrofico che ne altera gli equilibri sociali, culturali ed economici, ciò che una volta rappresentava un organismo complesso muta nella sua struttura e assume nuove caratteristiche: di questo corpo vengono aperti e ridisegnati i confini, tenuti insieme o divisi dall’impatto che l’esperienza scioccante ha avuto sulla precedente unità. Tutto ciò avviene attraverso meccanismi profondamente performativi in cui anche il momento di crisi è riconosciuto come elemento chiave nella formazione delle comunità, tanto da diventare evento proto-strutturale dell’aggregazione sociale.

La Magda del romanzo si ritrova allontanata da questa nuova comunità (“[…] un silenzio loquace anticipava quello che poi sarebbe successo, il che mi stupì perché era la prima volta che venivo esclusa da una qualche comunità”, p. 97), mentre le sue amiche d’infanzia e Cecilia sono pienamente inserite.

Alla base di questo isolamento di Magda c’è la sua scelta di parlare direttamente e senza mezzi termini della e alla società che sta scoprendo grazie a questa sorellina che conosce il mondo meglio di lei: Allora Cili si mise a sollecitare mio padre perché mi fornisse qualche informazione sul presente, e sul fatto che non vivevamo all’epoca dell’imperatore Augusto” (p. 256). La scelta di rendere opaca la verità storica è appunto dovuta al trauma dell’isolamento e del mondo fantastico fatto di fiabe nel quale Magdalona vive da sempre: il primo contatto con la realtà è prima un fortissimo rifiuto (“«Beh, se l’avete portata, potete anche riportarla; può andarsene di qui. Chi è che vuole una sorella, chi è che vuole qualsiasi cosa, anche se è orfana del Trianon!» continuai a ululare, e a pestare i piedi”, p. 46); ma poi prende piede una logica ferrea, di rifiuto della visione sociale comune. Ad esempio, quando rinuncia a inserirsi nella comunità in lutto perenne, chiedendo di abbandonare gli scout perché secondo lei ci sono altri modi di agire per il bene della patria:

“«Quello dei ragazzi è bello, ma l’inno delle ragazze scout non è cantabile – dissi con la sicurezza dell’esperta –; non contiene un solo accenno al fatto che l’Ungheria sia stata mutilata da tutti i lati. Il testo dice solo che andiamo cantando su un bel prato fiorito, dove ci aspetta il gioco e ci sono farfalle e il torrente chioccola; ci godiamo tutte queste belle cose, poi ci mettiamo al lavoro, ma l’inno non indica che razza di lavoro sia quello per cui ognuna è soddisfatta. Se il lavoro è aiutare gli altri e sopportare qualsiasi cosa, non è un’indicazione felice, perché non dobbiamo sopportare tutto, contro il male occorre lottare. Questo non c’è nemmeno nel finale, anche qui si dice solo che dobbiamo volerci bene tra di noi e dobbiamo avere una madre, e che anche la patria è fiera di noi, e che l’intero mondo ci deve rispettare. Dove sta scritto in questo testo qualcosa per cui io so cosa devo fare, affinché possiamo riavere la vecchia Ungheria?»” (p. 225)

La realtà contemporanea non è capace di accettare questa matta ragazzina che si “[…] era rivolta all’umanità in prima persona, come una madre del Trianon, fornendo una serie innumerevole di suggerimenti sorprendentemente sensati, con i quali alleviare la situazione […]” (p. 168), ed è per questo che affida alla sorella adottiva il compito di vivere nella comunità, mentre lei affronterà il mondo reale attraverso lo specchio deformante del romanzo e, ed è qui una delle questioni più importanti di tutto Per Elisa, del teatro.

Il nostro essere nel mondo consiste fondamentalmente di una messa in scena. L’individuo esiste, in larga misura, per il suo rappresentare sé stesso in relazione all’ambiente, fisico e sociale, che lo circonda. L’agire (essere attori) è, prima di tutto, dare forma alle proprie rappresentazioni intrapsichiche attraverso il loro manifestarsi concretamente, il loro farsi cosa (ovvero farsi azione) nell’ambiente fenomenologico così come è percepito e così come viene attivamente strutturato. Agire significa poi anche essere spettatori (interagenti) dell’azione altrui. Riscoprendo l’intima commistione tra la realtà quotidiana e quella teatrale si stabilisce un nuovo rapporto tra le azioni e i pensieri: il modo peculiare con cui ogni ruolo si realizza è espressione degli apprendimenti relazionali che ogni individuo agente ha vissuto sino a quel momento della sua storia ed è condizionato dai modi tipici di comportamento relazionale codificati dalla cultura della società di cui egli è parte.

Magda Szabó non è solo l’adulta Magdolna, ma nella sua azione di autrice diventa interprete di tutti i personaggi del romanzo. Il suo riflesso giovanile è incapace di interagire con il presente, ma da adulta comprende appieno ciò che la circondava: ha promesso di non mentire sul suo passato, ed è per questo che sceglie di rendere gli altri personaggi delle maschere nelle quali di volta in volta delineare la storia sia sociale che prettamente storica. Questo è il motivo per cui nel romanzo i dialoghi sono ridotti all’osso, ma carichi di una potenza scenica e drammatica impressionante: ogni parola è pesante e lapidaria, come se volesse caricarsi di una tensione totalizzante, in un botta e risposta che è perfettamente cadenzato da una sceneggiatura fatta di ricordi personali e storici.

La piccola Magdolna durante la sua infanzia e adolescenza recita e recita, e trascina in questa sua attività anche Ceci, che però in quanto essenza del presente storico non può lasciarsi andare alla narrazione fantastica:

“Cili solo per costrizione, per la fedeltà che voleva dimostrarti fingeva che fosse la gioia della sua vita recitare qualcosa che tu avevi inventato; Cili voleva la realtà, e l’ha avuta, la disgraziata, quindi adesso non ti stupire se si era aggrappata a me, perché neanche tu l’avevi capita, ma solo ti immaginavi di aver capito cosa stesse succedendo nei cuori dei due infelici. Per te, tesoro mio, il mondo e un palcoscenico, come per Shakespeare, e tu stessa sei la regista del dramma.” (p. 357)

Magda e Cecilia sono due facce della stessa medaglia: da una parte c’è la vera bambina, incosciente e intrappolata in una realtà alterata fatta di letteratura, epica, sicurezza; dall’altro l’adulta consapevolezza della storia, che è ciò che si desidera lasciare al prossimo:

“Cili conosceva bene uno degli scenari della Prima guerra mondiale, quello che aveva coinvolto le regioni meridionali dell’Ungheria; era svenuta quando era stata colpita da una pallottola, ma comprendeva meglio di me cosa fosse la discriminazione etnica; […] Finché a me avevano raccontato di Troia e di palazzi reali, finché Cili non era arrivata, non mi interessavano le cose alle quali lei faceva immediatamente attenzione. Cili ero io, mentre lei era me, ovvero l’una le lacune dell’altra, in due formavamo un autentico intero.” (p. 50)

Per Elisa è allora riconducibile al teatro epico di Brecht, un teatro che desidera in superficie stupire lo spettatore allontanando le situazioni dal suo vissuto, scegliendo non tanto di sviluppare azioni quando rappresentare situazioni che procedono per blocchi, per episodi, non attraverso un’azione lineare. È un teatro che presuppone un montaggio tramite grosse trame e che procede a scossoni, nel tentativo di produrre choc: vuole rappresentare qualcosa che tutti hanno già visto, ma ponendola in un contesto differente, inserendo la potente alterazione della realtà caratterizzante la forza teatrale. Si esercita un lavoro di decostruzione del testo letterario che viene ridotto a un insieme di azioni storiche, sociali, quotidiane, in una sorta di attualizzazione del dramma classico rispetto alla realtà dello spettatore.

Alla fine dell’opera la mano della regista segna l’entrata in scena della Magda reale, diretta verso un mondo tanto reale quanto fuori dal suo controllo: ha immaginato il suo ultimo dramma, ovvero un futuro matrimonio con il funzionario statale Ludwig; ma allo stesso tempo, separandosi dalla sorella, e diventando l’unica e ultima protagonista, unisce la metà storica a quella creativa, trovandosi di fronte al peso inesorabile del destino.

Nella letteratura ungherese, per paradosso o per arguzia della storia, ma comunque per una evidente necessità culturale, resta rintracciabile una prolungata persistenza del rapporto mitopoietico fra storia, identità e letteratura nazionale. La scrittura di Magda Szabó, diretta testimonianza di un secolo di Storia centroeuropea, acquista una particolare valenza agli occhi di qualsiasi lettore extra-ungherese, aprendo le porte ad una realtà difficilmente accessibile.

Ma rimane soprattutto una Storia illuminata discretamente dai drammi quotidiani, nei quali l’intero popolo magiaro può riscoprire, al di là dei filtri romanzeschi e mistificatori, la Storia dell’Ungheria. L’eroe che abita questo romanzo-teatro epico non è tragico, ma storico: sono in azione la storia e l’uomo-attore che soffre a causa non della natura, ma della storia, e mentre il personaggio (come la piccola Magda) è inconsapevole all’interno della sua alterata realtà teatrale, lo spettatore comprende la relazione fra storia e sofferenza umana.

 

Bibliografia:

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Cinzia Franchi, In viaggio. Letteratura ungherese femminile tra Settecento e Novecento, Szombathely – Padova, Savaria University Press, 2018.

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Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, Il Mulino, Bologna, 1986.

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Umberto Eco, Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani, 1985.

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