Vivere “in un’orgia di morte” – i “Giorni maledetti” tra Mosca e Odessa di Ivan Bunin

Stefania Feletto

La Rivoluzione d’Ottobre del 1917 è considerata uno degli eventi che hanno cambiato in modo radicale il corso della storia, non solo russa, ma mondiale. In molti si fecero trascinare dall’entusiasmo che questo rivolgimento portava con sé e importanti figure dell’intelligencija russa la sostennero, diventando promotori e protagonisti del cambiamento anche in campo culturale. Non mancarono posizioni diametralmente opposte, occupate da coloro che osservarono e annotarono i fatti, preoccupati dalla crescente violenza bolscevica e che riconobbero, nel diffondersi della Rivoluzione, i presagi di un’imminente catastrofe. Tra chi rifiutò in modo netto l’azione bolscevica e mai scese a compromessi con questa, c’è Ivan Bunin, primo scrittore e poeta russo a ricevere il Premio Nobel per la letteratura nel 1933.  Tra il 1918 e il 1919 Bunin raccoglie in Giorni maledetti i fatti, le emozioni, i pensieri riguardo alla Rivoluzione, alla guerra civile e al destino dell’intera Russia. Alcuni estratti del testo comparvero tra il 1925 e il 1927 sul periodico parigino “Vozroždenie”, mentre il libro, che venne pubblicato integralmente in volume nel 1936 dalla casa editrice berlinese Petropolis, non fu mai pubblicato in Unione Sovietica fino alla Perestrojka. Oggi, grazie al lavoro di Marta Zucchelli, possiamo leggere Giorni maledetti (Okajannie dni) per la prima volta in italiano, pubblicato in aprile per Voland.

Link al libro: https://www.voland.it/libro/9788862434133


Dopo la cacciata dello zar Nicola II, la presa del Palazzo d’Inverno a Pietrogrado e la cacciata del Governo provvisorio, nel novembre del 1917 il potere era stato assunto dai bolscevichi di Lenin. Nonostante ciò, la nuova autorità non veniva riconosciuta all’unanimità all’interno del paese, soprattutto tra le frange più moderate della popolazione, e le prime forze di resistenza si organizzarono già a metà novembre di quell’anno, costituendo l’Armata dei Volontari e l’Armata Bianca. È questo il momento storico che racconta Bunin, allo scoppio la guerra civile tra “i rossi” e “i bianchi”, ossia l’insieme dei vari gruppi controrivoluzionari, i quali, pur contando sulla coalizione con Regno Unito, Stati Uniti e Francia, finirono per perdere il conflitto, non potendo contrastare il potere crescente dei bolscevichi, che si consolidò in quella che si sarebbe chiamata, di lì a poco, Unione Sovietica.

In Giorni maledetti Bunin raccoglie in forma diaristica il proprio vissuto, a cavallo tra il 1918 e il 1919. Il racconto di questi anni si divide in due parti: la prima, che inizia il 1° gennaio e si conclude il 24 marzo 1918, si svolge a Mosca quando il Governo provvisorio di L’vov e Kerenskij è già stato cacciato, si sta sciogliendo l’Assemblea costituente e i bolscevichi si stanno stabilendo al potere; la seconda, che riprende il racconto a più di un anno di distanza, e che inizia il 12 aprile 1919 per terminare il 20 giugno dello stesso anno, è ambientata a Odessa, dove Bunin si è recato per fuggire da Mosca, nel pieno della guerra civile tra l’Armata Rossa e le forze controrivoluzionarie.

Nelle pagine che compongono quest’opera, Bunin racconta gli avvenimenti, gli incontri e i dialoghi avuti con gli amici e i conoscenti, oltre a riportare quelli sentiti tra la gente nelle piazze. Si ha quasi l’impressione che si tratti di appunti scollegati fra loro, una mescolanza di voci confuse, articoli di giornale uniti a pensieri personali dell’autore, come se si trattasse di un agglomerato apparentemente privo di forma. È procedendo nella lettura che si coglie come questa commistione sia testimonianza stessa di una generale atmosfera di confusione nello scrittore e nella società, frutto dello spaesamento di fronte ai rivolgimenti rivoluzionari. Le informazioni sui giornali sono terrificanti e false, sempre a glorificare le presunte vittorie bolsceviche, e hanno l’effetto di amplificare il senso di smarrimento nei cittadini russi. Pur trovandosi in contrasto e rifiutando di condividere le posizioni di intellettuali rivoluzionari dell’epoca quali Blok, Majakovskij, Lunačarskij, Bunin non si chiude completamente in sé stesso, ma incontra i propri conoscenti, parla con le persone del popolo e soprattutto legge i giornali per cogliere qualsiasi informazione, falsa o vera che sia, per avere più dati possibili e comprendere cosa stia accadendo. È nelle pagine del diario che instaura un intimo dialogo con sé stesso e con il lettore: oltre a riportare i fatti che più lo colpiscono, si interroga sulle rivoluzioni, sulla natura dell’uomo, sul valore della propria esistenza in un momento così sanguinoso, su quali siano il passato, il presente e il futuro della Russia e della sua gente.

“Ogni cosa si ripete poiché ciò che in buona sostanza caratterizza le rivoluzioni è una rabbiosa smania di messinscena, di spettacolo, di artificiosità, di farsa. Si ridesta la scimmia annidata in ogni essere umano.” (p. 69)

Non si può quindi ridurre Giorni maledetti ad un diario, ma va esteso al genere del romanzo, in cui Bunin riesce a raccoglie, oltre alle proprie memorie, il divenire del proprio pensiero sul mondo in cui vive. La riflessione sulla Rivoluzione russa diventa il pretesto per considerare la violenza che si nasconde dietro a tutte le rivoluzioni, che nascono come rivendicazioni di diritti, e finiscono per far regredire l’uomo ad uno stadio primitivo e bestiale.

“’Siamo dotati di una psiche davvero singolare, ne scriveranno tra cento anni.’ E questo dovrebbe consolarmi in qualche modo? Che mi importa del tempo in cui di noi non rimarrà nemmeno la polvere? ‘Queste note non avranno prezzo.’ Ma non è forse lo stesso? L’uomo che vivrà tra cento anni sarà ancora la medesima identica carogna – il suo valore lo conosco già!” (p. 83)

I soldati sono ubriachi, rubano, colpiscono i palazzi con delle bombe e uccidono senza motivo i civili. Ai resoconti di morte sui giornali e per strada, Bunin alterna delle visioni bucoliche, tipiche del suo stile narrativo, vissute nelle città di Mosca e Odessa: la natura non smette di seguire il proprio corso, a dispetto degli spargimenti di sangue tra gli uomini. La primavera sopraggiunge, ma lo scrittore non riesce a capire quale senso abbia lo sbocciare dei fiori in un momento in cui si vive in un’attesa continua, che giunga un aiuto o che sopraggiunga la morte. In queste pagine emerge la profondità di Bunin, che nel mezzo della guerra civile e delle barbarie, cerca ancora il significato dell’essere umano e la causa che portano ad un tale regresso.

“Ci si salva solo grazie alla debolezza delle proprie doti, alla debolezza dell’immaginazione, della capacità di prestare attenzione, del pensiero – altrimenti sarebbe impossibile vivere. […] Abbiamo selezionato i libri destinati alla vendita, raccolgo i soldi, devo partire, non posso tollerare questa vita, non posso fisicamente.” (p. 58)

Bunin, a più riprese, affronta anche il tema della “nuova letteratura” e della parola: dai circoli di intellettuali, ora i ritrovi si tengono nelle taverne frequentate da speculatori, bari e prostitute, che ascoltano poeti e prosatori leggere le proprie opere oscene. Si scaglia contro i “geni” che abbondano nella letteratura russa: questi avrebbero corrotto lo stato dell’arte, raggiungendo il successo con facilità e rapidità solo grazie sostegno del governo e dei critici, passando dall’essere guardie bianche un giorno, a bolscevichi il successivo. Bunin si sofferma a riflettere proprio sul ruolo di chi è chiamato a valutare la letteratura, “molto spesso individui per loro natura del tutto inconciliabili con ogni forma d’arte”, pur rimanendo questi gli unici ad essere ascoltati. La paura più forte risulta essere il timore che un domani questo tipo di “letteratura oscena” verrà usata per distorcere i fatti, per far sì che vengano dimenticati e persino glorificati i carnefici in questa guerra. La parola stessa, secondo Bunin, è ormai corrotta, guasta e malata, perché i poeti contemporanei, credendo di saper usare la lingua russa, l’hanno mescolata impropriamente a quella antica e popolare, per loro più “consistenti e succose”, profanando l’una e l’altra e confondendo il contadino, ormai anche lui incapace a parlare.

Nella produzione di Bunin, Giorni maledetti segna il passaggio tra quanto ha scritto in patria e quanto pubblicherà durante l’emigrazione in Francia, quando vivrà con nostalgia il distacco dalla Russia. Quest’opera vuole essere l’appassionata testimonianza, cruda ma realistica di ciò a cui l’abbruttimento dell’uomo può portare e vuole far sì che la lettura sia un mezzo per non dimenticare ciò che è stato e non dovrebbe più ripetersi.

Apparato iconografico:

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Immagine 1: copertina del libro edito Voland