Epilessia tirolese: l’origine dello sfacelo in “Amras” di Thomas Bernhard

Martina Cimino

 

Se la letteratura austriaca del secondo Novecento si apre sotto il segno della ricerca della propria identità culturale, distinta da quella tedesca, alla quale era stata omologata durante il Terzo Reich, è su questa posizione che si inseriscono le opere della grande tradizione austriaca. Tra i grandi scrittori del secondo Novecento, Thomas Bernhard è senz’altro da considerare come il vero erede che, a partire dal suo esordio in prosa avvenuto nel 1963 con la pubblicazione di Frost (“Gelo”), tematizza sia il suo viscerale legame con la letteratura precedente, sia il paradossale rapporto di amore-odio nei confronti della propria patria. Infatti, nella letteratura bernhardiana la questione dei vincoli coincide con la dimensione originaria, quella contingenza che tocca in sorte a partire dalla nascita e che, se non messa in discussione, può inibire e soffocare qualunque movimento del pensiero. Tale dimensione, però, non può essere identificata con una determinata città austriaca, nonostante i riferimenti siano palesi, ma con il luogo in cui si è scaraventati, costretti. Luogo che può suscitare, come si legge nel volume autobiografico Die Ursache. Eine Andeutung. (“L’origine. Un accenno”), pubblicato nel 1975, un sovvertimento intellettuale ed emotivo sicuramente distruttivo e probabilmente mortale, che è poi questa condizione intellettuale ed emotiva” (pp. 116-117).

A partire da questa inevitabile situazione si configurano per Bernhard due tipi ricorrenti di personaggi: coloro che accettano il vincolo di appartenenza familiare senza interrogarsene e inseguono una forma di autoconservazione di natura, in quanto non sono in grado di tener testa al richiamo vorticoso della Geworfenheit – termine usato da Heidegger per indicare quello stato in cui all’uomo si rivela il suo essere come un essere-gettato e in cui consiste la fatticità dell’esserci – , e coloro che, pur essendo in netta minoranza, con uno sforzo immane cercano di recidere quel contatto andando nella direzione opposta – espressione su cui si fonda la vicenda del secondo volume autobiografico, pubblicato nel 1976, Der Keller. Eine Entziehung. (“La Cantina. Una via di scampo”) –, nella speranza di perseguire il fine della propria vita.  La fuga si delinea dunque come un’esigenza etica di opposizione a quella paralisi del pensiero che è il radicamento all’origine e che implica perciò un processo di rinuncia totale e totalizzante. Processo che, oltre a includere un’estenuante e continua lotta contro se stessi, non cede mai il rischio della comoda e primordiale ottusità incarnata dalla massa. In Auslösung. Ein Zerfall. (“Estinzione. Uno sfacelo”, 1986), ad esempio, la scelta di Franz Josef Murau si rivolge alla conquista di un’autonomia intellettuale che deve essere raggiunta a ogni costo, implicando come prezzo – e qui il riferimento al pensiero di Wittgenstein è evidente –, il coraggio di trarsi via dalla passiva adesione all’origine. Pertanto, come lo stesso Murau confessa: ho pagato il prezzo massimo per la mia indipendenza da Wolfsegg […]. Cosa mi è costato, conquistare la libertà interiore per giungere a quella esteriore” (p. 110). Infatti, decidere per la vita autentica significa prendere le distanze dal pensiero della patria e della famiglia; pensiero contro il quale occorre esercitarne uno opposto e rispondere con un tentativo ulteriore di annientamento.

Nel tracciare queste figure, Bernhard le estremizza, alludendo a quella scissione dell’individualità, a quella polarità “altro-medesimo” che si annida nel sé e che trova nel nucleo familiare la sua cellula fondamentale. Nucleo dal quale ci si deve differenziare, non solo per inclinazione, ma anche per trovare la possibilità di conquistare uno spazio altro che gli consente l’apparenza di una vita.

Mi sono separato dai miei in tutta consapevolezza, di fronte a loro mi sono privato, per colpa mia, per così dire, dei miei diritti, mi dissi, e presi a camminare nell’altra direzione.” (p. 234)

Tuttavia, per quanto lontano il protagonista possa spingersi, il risultato finale è sempre lo stesso e l’azione devastatrice dell’esistenza la medesima. Sia scegliendo di restare, sia decidendo di partire si viene fagocitati da quell’esistenza che si delinea come un lento annientamento che coinvolge tutti allo stesso modo, aumentando quel divario che tra queste tipologie di personaggi risulta immenso e scava nel fatto che, se da un lato si resta irretiti nel medesimo e ci si condanna a una non-vita nell’apparente mantenimento della vita stessa, dall’altro ci si logora in un’affannosa e ostinata decisione di vivere, andando incontro a una morte che può prodursi solo attraverso una scelta di vita.

Singolare all’interno della produzione di Bernhard è la prosa Amras, un’opera che, pur non rientrando all’interno del genere romanzesco e dunque tra le opere di maggiore diffusione, permette una spiegazione peculiare di quanto finora affermato. Pubblicato nel 1964, Amras si pone come seguito del primo romanzo e come sintesi di tutto l’universo narrativo dell’autore. Infatti, l’importanza del volume è sottolineata dall’autore stesso che in un’intervista rilasciata nel settembre 1984 al quotidiano viennese “Die Presse” lo identifica come il suo prediletto e poi riconfermata nel romanzo Estinzione in cui lo annovera come uno dei massimi risultati della letteratura finora prodotta: avevo dato a Gambetti cinque libri […] Il processo di Franz Kafka, Amras di Thomas Bernhard, La portoghese di Musil, Esch o l’anarchia di Broch” (p. 7). L’audacia di quest’opera consiste nella modalità polifonica e frammentaria della narrazione che, servendosi di più voci incastrate tra loro – le lettere di K. a Hollof, uno specialista di Merano, le annotazioni di Walter e l’andamento prosastico –, risulta frutto di una piena maturità autoriale in grado di confrontarsi con la lezione dei grandi classici romantici. In primis con Novalis, posto in epigrafe: Noi cerchiamo ovunque l’assoluto, e troviamo sempre e soltanto le cose. Da Novalis e dai romantici, Bernhard riprende le problematiche di un ambiente e una natura ostili all’uomo: Amras, una torre la cui caratterizzazione claustrofobica risponde pienamente alla poetica autoriale. Infatti, Amras, sobborgo nei pressi di Innsbruck, è uno scenario che richiama uno dei monumenti storici del Tirolo, Ambras, donato dall’imperatore Ferdinando I d’Asburgo al secondogenito Ferdinando II e scelto come residenza dopo le nozze con Philippine Welser, donna non aristocratica. La torre legata in questo modo alla storia del Tirolo e che, pertanto dovrebbe essere segno di bellezza, svela il suo risvolto negativo attraverso la distruzione della maggior parte degli stereotipi, dipingendola come un inferno dominato dalla malattia. Malattia che, sottolineando il disprezzo e il sarcasmo di Bernhard per il proprio paese, viene definita epilessia tirolese e causa la vicenda di distruzione, in quanto ad esserne affetti sono sia la madre che il fratello del narratore, Walter. Infatti, in seguito a un programmato suicidio collettivo causato dall’insopportabilità della malattia materna, a cui i due fratelli sfuggono, K. racconta il trasferimento nella torre di Amras operato da parte dello zio con lo scopo di non sottoporli a processo. In essa, però, entrambi conducono un’esistenza incentrata su se stessi, credendo di poter trovare nell’oscurità le condizioni adatte alla realizzazione dei propri studi; infatti,

per noi non era un carcere…brancolando nel buio e tremando di freddo sulla scala superiore, nei nostri pensieri devastati da tutti i quadranti celesti, con impeto smisurato, ubbidivamo costantemente alla nostra terribile, benché sublime, demenza fraterna.” (p. 12)

Se, dunque, ogni comunicazione verbale tra i due fratelli si annulla in quella che viene definita demenza, al contrario quella corporea assume un significato quasi mistico della ricerca di un contatto corporeo antecedente ogni linguaggio che dovrebbe permettere ai due fratelli, di indole opposta – Walter dedito alla musica e K. allo studio delle scienze naturali – di riprendere i propri studi. Cosa che, tuttavia, non avviene, in quanto la torre rappresenta il peso del retaggio familiare, la cui decadenza rispecchia l’agonia di un’intera civiltà. Agonia di cui i due fratelli portano il peso, sentendosi come ultimi eredi di una civiltà fallita nell’ambizione di voler conferire valore al mondo.

Esempio, dunque, dei personaggi bernhardiani, Walter e K. cercano di liberarsi del passato con le astuzie del corpo e della mente, invano… passando sempre da uno stato di caos all’altro… da sempre condannato a spegnermi insieme alle malattie mortali del Tirolo, alle malattie mortali della nostra famiglia.” (p. 50)

Ma la loro condanna scade e si manifesta nel patologico, coinvolgendo i due fratelli in modo diverso e distruggendo così ogni possibile tentativo di liberazione inseguito attraverso le visite specialistiche a cui Walter viene sottoposto a Innsbruck e in cui K. assume, nel corso di esse, la postura di estraneo. Affetto dalla particolare epilessia tirolese, ereditata dalla madre, Walter, in particolare con la sua morte, rappresenta dunque quell’inevitabile processo di dissoluzione insito nella natura stessa che, accentuato dalla malattia, mostra l’estraniamento del corpo dalla mente e il vano tentativo di ribellione destinato al fallimento della volontà contro la legge della natura.

Continuando ininterrottamente a sentirci, spaventati di noi stessi, eravamo i prodotti della letale inalazione dell’ossigeno tirolese… uccisi lentamente dal confluire di corpi avversi alla Creazione…” (pp. 81-82)

Questo tentativo, nonostante il trasferimento di K., ormai unico sopravvissuto, ad Andrals – una tenuta dello zio in cui inizia a lavorare – fallisce nuovamente, come testimoniato dalla sua ultima lettera indirizzata da Schermberg, denominazione che varia minimamente da quella di Schernberg, noto ospedale psichiatrico nei pressi di Salisburgo.

Se, dunque, follia e suicidio possono sembrare le uniche possibilità di risposta a un più generale sfacelo della civiltà contemporanea, qualcosa all’interno della torre di Amras, come i suoni che provengono dalla strada, le figure intraviste dalle tende, gli oggetti noti, testimonia che non è così e che ancora esiste, seppur inaspettato, un attaccamento alla vita dall’aurea quasi sacrale.

me ne vado per una selva di esperienze soffocate, di appigli mortali per lo spirito, tutto è morto, i libri sono morti, e io non faccio che respirare aria morta… Quante volte, quante innumerevoli volte, poiché d’un tratto mi osservo dentro me stesso con il massimo autocontrollo a me possibile, io mi sono già ucciso… La ringrazio del freno a volte anche rude che Lei ha esercitato sul mio pensiero… per le lezioni che mi ha impartito, nella Sua casa lassù in alto sopra la terribile città, nella Sua “casa metafisica”, come Lei soleva chiamarla.” (p. 85)

Tale attaccamento, ripercorrendo l’opera di Bernhard fino a Estinzione, suscita infine nel protagonista la consapevolezza di dover agire in modo radicale, accettando quell’essere-dato-a-se-stesso che gli consente di scegliere la morte per mano propria, attraverso quell’autentico scollamento dall’origine che è possibile solo nell’atto della scrittura.

 

Bibliografia:

Thomas Bernhard, Amras, Milano, SE, 2005.

Thomas Bernhard, Amras, Torino, Einaudi, 1989.

Thomas Bernhard, Estinzione. Uno sfacelo, Milano, Adelphi, 1996.

Thomas Bernhard, La cantina. Una via di scampo, Milano, Adelphi, 1994.

Thomas Bernhard, L’origine, Milano, Adelphi, 1992.

Apparato iconografico:

Immagine 1: https://i1.wp.com/www.doyouneedasign.it/wp-content/uploads/2019/03/bernhard-1-e1559248906757.jpg?resize=700%2C394

Immagine 2: https://www.einaudi.it/content/uploads/2019/09/978880621318GRA.JPG