Racconti di una Russia in fiamme: “Fuoco. La grande prosa russa del primo Novecento”

Evy Bovo Vania

Lo scorso anno è stato pubblicato presso la casa editrice Atmosphere Libri Fuoco. La grande prosa russa del primo Novecento, il primo di tre volumi antologici dedicati alla letteratura russa degli anni Venti e Trenta del Ventesimo secolo. A cura di Mario Caramitti e pubblicata all’interno della collana “Biblioteca del fuoco”, l’antologia è organizzata secondo principio tematico. A Fuoco, che raccoglie testi legati alle tre rivoluzioni e alla guerra civile, seguiranno Sogni. Le grandi utopie russe del primo Novecento e Segni. Le forme dell’avanguardia russa.

Il volume contiene diciassette brani scelti di tredici autori: dai Premi Nobel Ivan Bunin, Boris Pasternak e Michail Šolochov, ad autori di fama internazionale come Maksim Gor’kij, Michail Bulgakov, Isaak Babel’, Aleksandr Blok, Evgenij Zamjatin, Vladimir Nabokov e Boris Pil’njak fino ai meno conosciuti Aleksej Remizov, Nikolaj Nikitin e Sergej Budancev.

Libro: https://www.atmospherelibri.it/prodotto/fuoco-la-grande-prosa-russa-del-primo-novecento/

“Una Russia in cenci, gelida, affamata, arde della parola di fuoco.

Il fuoco erompe dal cuore, incontrollabile.

 

Salgo su una montagna, volgo il volto all’est: è fuoco!

 

mi sposto all’ovest: fuoco!

guardo il nord: brucia!

e il sud pure: brucia!

mi abbandono a terra: scotta!

 

Chi e dove potrò incontrare, che travasi l’avvampo di questo fuoco incontrollabile

– ci consumerà tutti! –” (p. 9)

Ad aprire l’antologia è un estratto di Russia scompigliata (1927), straordinario esempio della prosa onirica di Remizov. In questo breve testo, che funge da introduzione alla raccolta, è già possibile individuare i temi principali dei brani contenuti nel volume: il freddo, la fame, la guerra. Sullo sfondo, una Russia sconvolta, sull’orlo dell’abisso.

L’incertezza provocata dalla situazione in corso in quegli anni non può che riflettersi nelle opere dei contemporanei: in Maksim Gor’kij, i personaggi dei racconti finiscono per mettere in discussione addirittura se stessi. Il protagonista di Karamora, il famoso terrorista Pëtr Karanzin, viene arrestato per aver ucciso Popov, un compagno da poco arrivato in città e membro sotto copertura della polizia segreta. Il momento in cui Popov viene smascherato dal protagonista è descritto da Gor’kij in modo magistrale. Nella notte del suo arresto, Karanzin riceve dal capo stesso della polizia segreta la proposta di sostituire il compagno ucciso: in caso di rifiuto, avrebbe perso a sua volta la vita. Karanzin accetta senza esitazione, ma è proprio questa mancanza di esitazione che scatena in lui un pensiero costante che lo tormenterà fino alla fine.

“[…] un qualche sentimento dentro di me protestava contro la mia decisione? Non protestava. Cosa significa? Che significa questa calma e da dove proveniva? Perché non sentivo verso di me, quella ripulsa che giorno prima avevo io verso Popov? Ripassavo nella memo ria tutte le parole di cui gratificano i traditori, mi ricordai tutto ciò che era stato pubblicato e detto su di loro, e tutto ciò non mi feriva, non mi turbava. Era come se colui che ieri aveva costretto un uomo a impiccarsi, e oggi aveva deciso di eliminarne ancora molti, si fosse nascosto da qualche parte, mentre un altro, perplesso, aspettasse la sua voce, volesse sapere qualcosa su di lui, cercasse un criminale e non lo trovasse. Il criminale non c’era.” (p.48)

Il tema del doppio è rintracciabile anche nella Caverna di Evgenij Zamjatin, in cui la Pietrogrado del 1918 e 1919, gelida e affamata, viene descritta attraverso metafore del mondo preistorico. È così che le abitazioni diventano “caverne”, i figli “cuccioli”, e ad essere venerato è un “dio di ghisa”: la stufa. È il protagonista stesso, Martyn Martynič, a riconoscere la natura duale propria e della compagna: i Martyn e Maša di un tempo, vitali, gioiosi e rispettosi delle regole convivono con la loro versione imbestialita, cavernicola, disposta addirittura a macchiarsi di reato per un po’ di calore, per qualche ciocco di legna. È proprio a questo lato animalesco che i due protagonisti finiranno per soccombere.

Scontri e battaglie sono centrali in diversi testi, ma in nessuno di questi i protagonisti vengono dipinti come eroi. Al contrario, i soldati cosacchi e tedeschi del brano tratto dal Placido Don di Michail Šolochov si rivelano, durante una prima scaramuccia, disorientati e spaventati. Entrambe le truppe mandano colpi a caso, e la vittoria dei russi sui nemici non è che fortuita.

La paura della morte imminente si ritrova anche nell’estratto della Guardia Bianca di Michail Bulgakov. Nikolka, il protagonista, rimane l’unico, assieme al colonnello, a tentare di difendere la città di Kiev dall’avanzata dei nazionalisti di Petljura. All’improvviso però, il compagno viene colpito mortalmente, e il protagonista si ritrova solo. “”Hai paura?” pensò Nikolka e senti di avere una paura folle. “Perché? Perché?” pensava Nikolka e subito comprese di provare paura per l’angoscia e la solitudine, che, se in quel momento il colonnello Naj-Turs si fosse retto sulle sue gambe, non avrebbe avuto alcuna paura…”. Nel dettagliato racconto della ricerca da parte di Nikolka di una via di fuga, Bulgakov rende in modo eccezionale il senso di angoscia derivato dal sentirsi in trappola in uno spazio che, fino a poco prima, era percepito come familiare e sicuro.

Interessantissimo è La parola al compagno Čurgin di Evgenij Zamjatin, in cui vengono narrati gli echi della Rivoluzione di febbraio nelle campagne russe. Come un telefono senza fili, a migliaia di chilometri di distanza le notizie vengono storpiate, addirittura ribaltate, e così Rasputin diventa per i contadini un eroe su cui riporre tutta la propria fiducia. A narrare gli eventi è proprio uno dei contadini, e il registro colloquiale e le espressioni gergali contribuiscono ad alimentare nel testo l’elemento tragicomico. La voglia di sovvertire l’ordine esistente è tanta, ma dalla città le informazioni giungono approssimative: pare che “il libro Marx” abbia sostituito la parola di Dio, ma di cosa si tratti esattamente non è chiaro né al villaggio, né al fratello del narratore, che si trova in città. Sarà proprio questa vaghezza di informazioni ad originare l’evento culmine del racconto: per “un errore di suono”, la statua del dio greco Mars che si erge nel giardino del possidente viene scambiata dai contadini in rivolta per la rappresentazione di Marx.

I vari testi, seppur differenti per genere e stile, sono tutti accomunati da una fitta presenza di metafore, similitudini e personificazioni, rese in maniera straordinaria dai traduttori e le traduttrici:

“Tutto è ucciso dal silenzio, e solo la luna, stringendosi fra le mani blu la testa tonda, lucente, spensierata, si aggira come un vagabondo sotto la finestra.” (Isaac Babel’, L’armata a cavallo, p. 82)

“E i capelli nuotavano sul cuscino, come pesciolini d’oro.” (Nikolaj Nikitin, Notte, p. 150)

“Gli ha aperto lo stesso Obertyšev, con indosso un cappotto legato con una corda, le guance non rase invase da cespugli rossicci in mezzo a radure di gramigna impolverata. In mezzo alla gramigna i denti gialli di pietra, e tra quelli, per un istante, la coda di una lucertola: un sorriso.” (Evgenij Zamjatin, La caverna, p. 227)

Questa antologia è di grande valore non solo per la varietà dei testi presentati, alcuni dei quali fuori catalogo da lungo tempo, ma anche per l’eterogeneità delle forme in cui l’angoscia, la confusione e la violenza che hanno caratterizzato la Russia nei primi trent’anni del secolo scorso sono narrati.

Apparato iconografico:

Immagine copertina:

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