Ildikó Enyedi, corpo e anima del cinema ungherese

Anna Righetto

Ildikó Enyedi è una delle voci più originali del cinema contemporaneo ungherese. Dopo una laurea in economia, inizia la sua carriera come artista concettuale e multimediale, frequentando il gruppo neoavanguardistico Indigo. Viene a contatto con l’arte contemporanea di fine anni Settanta e decide di avvicinarsi al mondo del cinema, iscrivendosi all’ Università di arti teatrali e cinematografiche di Budapest. Dal 1979 gira documentari e cortometraggi, prodotti all’interno del Balázs Béla Stúdió. Unico studio cinematografico indipendente dell’Europa orientale prima del 1989, il Balázs Béla Stúdió è stato il trampolino di lancio per registi come Béla Tarr e István Szabó. Qui, tendenze sperimentali e concettuali si combinavano a un approccio documentaristico. Senza alcun obbligo di distribuzione dei film prodotti, lo studio era uno spazio di “dissidenza istituzionale” che ha documentato il graduale processo di democratizzazione del paese, indagando al contempo le potenzialità espressive del linguaggio cinematografico.

È in questo contesto che Ildikó Enyedi si forma, e non deve aspettare molto prima di incontrare il successo. Già nel 1989 con il suo primo lungometraggio, Il mio Ventesimo secolo, la regista è vincitrice della Caméra d’or per la miglior opera prima al Festival di Cannes.

Ambientato a fine Ottocento, ne Il mio Ventesimo secolo Enyedi rappresenta il prologo del Ventesimo secolo, ne celebra le straordinarie invenzioni, ma si chiede anche quale sia il posto delle donne in un mondo plasmato da uomini. Rifiutando una narrazione lineare, tramite scene solo apparentemente irrelate tra loro, Enyedi coniuga scienza, storia, arte e femminismo per portarci in un viaggio all’alba del modernismo. Le protagoniste sono due gemelle nate nel 1880 a Budapest, rimaste presto orfane, i cui destini vengono misteriosamente separati, salvo poi incrociarsi anni dopo durante un viaggio a bordo dell’Orient Express. L’una è diventata una donna disinibita che si guadagna da vivere seducendo e imbrogliando uomini facoltosi, mentre l’altra è una timida anarchica femminista. L’uomo che si innamora di loro, credendole inizialmente la stessa persona, non può fare a meno di nessuna delle due, rivelandosi nient’altro che la personificazione del patriarcato che vede nella donna ideale una combinazione di modestia e disinibizione sessuale. Nonostante le ingiustizie e le contraddizioni che emergono, Il mio Ventesimo secolo vuole essere innanzitutto un inno al mondo e alle infinite potenzialità dell’umanità. “Il mondo, creato da Dio, è meraviglioso ed è meraviglioso l’uomo che ha imparato a modellarlo” si sente dire alla fine da Thomas Edison parlando al telegrafo. Ovviamente tra le invenzioni ottocentesche da celebrare non poteva mancare il cinema: la fotografia in bianco e nero, le inquadrature che richiamano quelle dei film muti, i raccordi di montaggio a iris fanno de Il mio Ventesimo secolo un omaggio al cinema delle origini.

Dorota Segda in “Il mio Ventesimo secolo”

In questo film prendono forma quelli che saranno i leitmotiv dell’opera di Ildikó Enyedi, prima fra tutti la costante interferenza nella realtà di elementi fantastici, talvolta favolistici, che avvicinano l’opera della regista a un certo realismo magico che si manifesta spesso tramite animali, in questo caso una scimmia che guida le azioni dei personaggi e che potrebbe rappresentare le bizzarrie del destino. La casualità, o il destino, assumono sempre un ruolo chiave nei film di Enyedi, come è evidente nel suo secondo lungometraggio, Bűvös vadász (“Il cacciatore magico”), del 1994, in cui il fato si intreccia a un fitto simbolismo biblico e folkloristico creando una trama complessa e dai molti piani di lettura. In quest’ultimo film compare fra i produttori il nome di David Bowie il quale, affascinato da Il mio Ventesimo secolo, ha voluto collaborare con Enyedi. Si propone addirittura per il ruolo di protagonista, negatogli però dalla regista che non voleva distrarre il pubblico.

L’amore è un tema ricorrente nell’opera di Enyedi, che analizza con sguardo acuto le diverse forme che il sentimento può assumere e le difficoltà nel manifestarlo, senza tuttavia mai scivolare in un trito sentimentalismo. In Tamás és Juli (“Tamás e Juli”), uscito nel 1997, fra i due amanti si contrappone il caso, mentre in Simon mágus (“Il mago Simon”), del 1999, è la barriera linguistica a impedire la nascita di un sentimento. Il tema dell’incomunicabilità riemerge in modo più approfondito e complesso nel quinto film di Enyedi, Corpo e anima, uscito nel 2017, dopo un silenzio durato ben diciassette anni.

 

“Il cuore che si infiamma convulso
il cuore nelle nuvole gonfie di neve
come se là dentro finché la neve taglia
incessantemente bruciasse una città.”

 

Questi quattro versi della poetessa Ágnes Nemes Nagy sono stati la fonte d’ispirazione per la regista, che intende “raccontare una storia d’amore passionale e travolgente nel modo meno passionale e spettacolare possibile”. Il risultato è una commedia dal laconico umorismo nella quale si inseriscono elementi onirici e fiabeschi, tipici di un certo realismo magico, e la tragicità melodrammatica di un sentimento che non riesce ad emergere.

Il filo conduttore del film è la potenzialità della dimensione del sogno in cui, aggirate le difese, emergono i desideri più intimi. La dimensione onirica funge da leitmotiv della narrazione e affiora carsicamente attraversando il film, proprio come fa l’anima nel corpo. Fin dall’inizio e poi periodicamente durante la narrazione sentiamo la musica di Ádám Balázs e Kálmán Oláh (El Camino de la Mente Oculta, Nocturne) che, con una partitura pianistica rarefatta dai toni limpidi e delicati, sembra suggerirci l’interferenza del sogno sulla realtà.

La prima sequenza si apre in un bosco innevato dai tratti fiabeschi, in cui due cervi, un maschio e una femmina, avanzano lentamente. Il maschio si gira e raggiunge la femmina, dando luogo a un primo animalesco contatto. Con uno stacco di montaggio ci spostiamo in un mattatoio. La macchina da presa si sofferma su alcuni dettagli dei corpi degli animali al macello, tra cui l’occhio di una mucca, il cui sguardo genera una soggettiva sugli uomini, carnefici indifferenti al destino dei loro corpi. Cervi liberi e selvaggi nel sogno fanno quindi da contrappunto a bestie prigioniere, in attesa della macellazione.

Si tratta di un inizio paradigmatico che definisce il dramma che permea l’intero film: come trasporre l’amore e il desiderio del mondo onirico nella crudezza e brutalità del mondo reale? Come portare i corpi imperfetti dei protagonisti – lui con un braccio paralizzato, lei incapace di contatti umani – all’intimità a cui erano arrivate le anime? Vediamo poi Endre e Mária illuminati dallo stesso sole che faticosamente si fa spazio tra le nuvole: c’è uno spiraglio di luce, ma il cammino per arrivare a toccarsi è doloroso.

Endre, uomo di mezza età, è il direttore finanziario di un mattatoio industriale. Malinconico e disilluso, è convinto di avere ormai chiuso le porte ai sentimenti, e quando non è al lavoro consuma pasti solitari al bar o nel suo appartamento.

Mária, un’algida ragazza bionda vicina ai trent’anni, è appena stata assunta al mattatoio come ispettrice alla qualità. Ai limiti dell’autismo, ha movenze trattenute, una compostezza monastica, una memoria prodigiosa, non ha abilità sociali, e rifiuta ogni tentativo di approccio, soprattutto fisico. Entrambi hanno atrofizzato i propri sentimenti.

Ma oltre allo schermo della timidezza e alla diffidenza, tra Endre e Mária affiorerà una sintonia apparentemente impossibile. L’irruzione di un’avvenente e sensuale psicologa del lavoro incrina il muro che li divide. Scoprono di essere legati dallo stesso sogno ricorrente, nel quale si cercano sotto forma di cervi.

Mária inizia a cercare Endre, ma si trova fuori luogo, incapace di gestire un sentimento sconosciuto e complicato che la induce a recitare un corteggiamento di una teatralità fredda e impacciata. Tenta un percorso da autodidatta per insegnare a sé stessa le forme di comunicazione sociale e affettiva, come l’emozionarsi e il toccare: si porta a letto una pantera di peluche, accarezza una mucca nel mattatoio, affonda la mano in un piatto di purè, guarda film porno, ma ciò che fungerà da “apriscatole” per la sua anima sarà la musica. L’apice del suo “apprendistato” lo raggiunge in un parco pubblico dove osserva coppie di fidanzati amoreggiare distesi sull’erba. Quando lei stessa si sdraia sul prato e viene raggiunta dagli spruzzi degli annaffiatori automatici il suo volto, altrimenti imperturbabile, viene attraversato da un’espressione di gioia e appagamento.

Ma è troppo tardi, Endre si è tirato indietro, e a Mária non resta che darsi la morte. Si taglia le vene, automacellandosi come gli animali del mattatoio, ma è un suicidio imperfetto, la musica nello stereo si inceppa. Inaspettatamente arriva la chiamata di Endre, e anche nel tentativo di morte Mária mantiene una compostezza impeccabile. Il suo tentato suicidio ora è solo un ostacolo a cui rimediare prima dell’appuntamento con Endre.

Nell’ultima immagine il bosco innevato del sogno è vuoto: lo spazio del desiderio è stato saturato diventando amore. I cervi sono spariti, resta solo il paesaggio, che scompare nello schermo bianco: i cervi sono svaniti non nel buio ma nella luce, il sogno si dissolve concretizzando i sentimenti non espressi nella realtà.

Alexandra Borbély e Géza Morcsányi in “Corpo e anima”

Nella realizzazione del film in tutti i suoi aspetti, dialoghi compresi, Ildikó Enyedi stessa ammette di aver adottato un approccio essenziale, eliminando tutto ciò che poteva essere superfluo, depurando il film per renderlo ancora più disarmante nella sua apparente semplicità.

La regia stessa, attraverso una messinscena sobria e rigorosa, e la fotografia, quasi innaturale per la freddezza che la caratterizza, s’incaricano di rappresentare la paralisi emotiva che attanaglia nel profondo i personaggi, e che li costringe al mutismo e a un’ostentata indifferenza.

Le inquadrature sono prevalentemente fisse e impostate su una geometria rigorosa in cui i corpi degli attori si incastonano alla perfezione. I personaggi vengono spesso ripresi attraverso superfici che li deformano, riflessi su specchi, o li vediamo emergere timidamente da dietro le porte, come a suggerirci la presenza di un diaframma tra loro e il mondo che li circonda. Sono caratterizzati da una gestualità trattenuta ma espressiva, che ne vela le trepidazioni e i turbamenti quotidiani.

I movimenti di macchina sono ridotti al minimo e quando sono presenti la loro lentezza nell’esplorazione dei luoghi e dei corpi inquadrati diventa quasi straziante.

La macchina da presa insiste sui dettagli, soprattutto sui cibi che accompagnano l’evolversi della narrazione. Le conversazioni principali tra i protagonisti avvengono infatti durante i pranzi in mensa, che sembrano essere per loro l’unica occasione di rarefatti contatti. I pasti vengono consumati senza interesse, per soddisfare necessità fisiologiche, senza piacere conviviale, come le stesse trattenute relazioni sociali. Il cibo fa parte dell’apprendistato sensoriale di Mária: mentre guarda con sguardo impassibile i film porno la sua mano va alla ricerca di orsetti gommosi in un bicchiere di vetro e per sperimentare un contatto fisico accarezza gli animali del mattatoio, corpi in attesa di diventare cibo.

Anche la sceneggiatura opera per sottrazione, riduce all’essenziale le informazioni funzionali a delineare il profilo dei protagonisti, e evita un languido romanticismo per poter toccare l’essenza del sentimento in tutta la sua drammaticità.

Alexandra Borbély e Géza Morcsányi in “Corpo e anima”

Corpo e anima si aggiudica nel 2017 l’Orso d’oro a Berlino e nel 2018 è candidato all’Oscar come miglior film straniero, segnando il ritorno in scena di Ildikó Enyedi. Nel 2021 è prevista l’uscita del suo prossimo film, La storia di mia moglie, basato sull’omonimo romanzo di Milán Füst, edito in italiano da Adelphi nel 2002.

Ildikó Enyedi dimostra come il cinema possa essere un mezzo per tentare di rappresentare i misteri dell’universo e dell’anima umana, e nel farlo mostra sempre una grande empatia verso tutti gli esseri viventi e una struggente comprensione della banalità della vita.

 

Bibliografia:

Zsolt Gyenge, Master of Invisible Miracles. Portrait of director Ildikó Enyedi, in “Hungarian Film Magazine”, 2017, pp. 36-37.

https://www.academia.edu/31771734/Master_of_Invisible_Miracles_Portrait_of_Director_Ildik%C3%B3_Enyedi (05/03/2021)

Philip Kemp, On body and soul, in “Sight and sound”, vol. 27, n. 10, ottobre 2017, p. 70.

Alberto Morsiani, Uomini e bestie, sogni e realtà, in “Cineforum”, n. 571, gennaio-febbraio 2018, pp. 24-26. https://bloomnet.org/uploads/media/film_profile/0001/01/c354545340632b9da5a55ff6cf44ac93f80b72ee.pdf (05/03/2021)

Sitografia:

https://filmarchiv.hu/en/news/my-20th-century-a-wonderful-first-film-among-the-berlinale-classics

http://filmarchiv.hu/hu/aktualis/hirek/a-szereto-egyutterzes-filmje-testrol-es-lelekrol

https://magyar.film.hu/filmhu/magazin/enyedi-ildiko-nagy-egoval-nem-mukodott-volna.html (la traduzione di brani tratti da questo testo sono stati fatti per l’occasione da me A. R.)

https://mnf.hu/hu/film/a-testrol-es-lelekrol

http://www.bbsarchiv.hu/

https://www.dailysabah.com/arts/cinema/ildik-enyedis-my-20th-century-released-online-by-istanbul-modern-cinema

https://www.slantmagazine.com/dvd/review-ildiko-enyedi-my-20th-century-on-kino-lorber-blu-ray/

Apparato iconografico:

[Immagine_1] https://port.hu/adatlap/film/tv/az-en-xx-szazadom-az-en-xx-szazadom/movie-709

[Immagine_2] http://www.cine21.com/news/view/?idx=0&mag_id=88875

[Immagine_3] https://www.filmcomment.com/blog/interview-ildiko-enyedi/