“1945 e altre storie” di Gábor T. Szántó: il passato che non è ancora passato

Sara Deon

“Questo è un paese senza conseguenze.
E sprofonda verso il basso. […]
Non mi meraviglio che tutto questo paese sia così.
Cerca sempre negli altri la colpa, si sente sempre vittima.
E ovviamente trova sempre negli stranieri
il responsabile dei propri mali.”
(Dal racconto “A onore del vero”, 1945 e altre storie)

In Italia, la grande letteratura ungherese rimanda ai nomi di Magda Szabó, Ágota Kristóf, Sándor Márai, Imre Kertész, Dezső Kosztolányi, Edith Bruck e, più vicini alla contemporaneità, László Krasznahorkai e Péter Nádas. Nel mercato editoriale italiano le loro opere sono state distribuite e diffuse in gran parte da alcune delle maggiori case editrici nazionali: Einaudi, Adelphi e Bompiani. Tuttavia, nell’editoria italiana si staglia una casa editrice, nata nel 2004, il cui catalogo è specializzato in letteratura mitteleuropea, soprattutto magiara – Edizioni Anfora. Proprio grazie al lavoro editoriale di Anfora, il prossimo 10 marzo è prevista l’uscita della raccolta di racconti 1945 e altre storie (traduzione a cura di Richárd Janczer) dello scrittore ungherese Gábor T. Szántó, “l’ultimo scrittore ebreo in Ungheria”, come lui stesso si descrive.

Link al libro: https://www.edizionianfora.net/1945-e-altre-storie


Nel capolavoro post-modernista di Kurt Vonnegut, Madre Notte, secondo solo a Mattatoio n. 5, lo scrittore riporta una poesia tradotta dal tedesco:

“Vidi un compressore stradale così grande che cancellava il sole, la gente restava sdraiata per terra, nessuno che cercasse di scappare. Il mio amore e io guardammo meravigliati questa cruenta scena misteriosa. ‘A terra, a terra!’ gridavano tutti. ‘La grande macchina è la storia!’ Il mio amore e io scappammo e quel motore non riuscì a trovarci, corremmo fino in cima alla montagna, e ci lasciammo la storia alle spalle. Forse avremmo dovuto restare e morire? Ma qualcosa di dentro ci disse di no! Tornammo a vedere dov’era passata la storia e, mio Dio, quanto puzzavano i morti.”

Nella raccolta 1945 e altre storie di Gábor T. Szántó, il fil rouge che lega gli otto racconti presenti è proprio la loro posizione situazionale. Infatti, le storie di Szántó hanno luogo dopo il passaggio della grande storia: sono calate nelle micro-narrazioni individuali dei suoi protagonisti, nei traumi ancora insoluti della Seconda Guerra Mondiale, dell’Olocausto e dell’occupazione sovietica a partire dal secondo dopoguerra. Centrale in questa raccolta è il concetto di post-memoria enunciato da Marianne Hirsch, ovvero la relazione che la “generazione successiva” intrattiene con il trauma personale, collettivo e culturale di coloro che l’hanno preceduta; trauma che questa generazione successiva esperisce, ricorda e ricostruisce attraverso le storie e le immagini altrui con cui è cresciuta. Tuttavia, sebbene non vissute in prima persona, queste esperienze sono state trasmesse in maniera così viscerale da creare delle memorie a sé stanti: nella post-memoria, la connessione col passato è mediata non dal ricordo degli eventi, ma da un investimento immaginifico, dalla creazione di un immaginario plasmato sui racconti e sui sussurri sommessi ascoltati dai propri genitori e familiari. Proprio perché formata dai frammenti traumatici di eventi di un passato ancora vicino, la generazione della post-memoria incorre nel rischio di vivere un’esistenza dominata da memorie altrui, che rendono estranea e aliena la narrazione della propria vita, al punto che – come per Hirsch – questi ricordi ereditati possono diventare più vividi di quelli della propria infanzia.

Lo scrittore William Faulkner scriveva che “il passato non muore mai. E non è nemmeno passato”.  Gábor T. Szántó sottolinea la natura post-traumatica della cultura ungherese, e la delicata rilevanza della letteratura come mezzo di espressione dell’identità culturale. Auto-definitosi “l’ultimo scrittore ebreo in Ungheria”, Szántó – come Hirsch – eredita la memoria della Shoah e della persecuzione dai suoi familiari, infatti i genitori e le nonne furono deportati in un lager austriaco, mentre i nonni risultarono dispersi sul fronte russo, dopo essere stati arruolati come lavoratori forzati. Oltre all’attività da scrittore, Szántó è direttore del mensile “Szombat” [Sabato], che tratta principalmente di politica e cultura da una prospettiva ebraica, discostandosi da quella dei media tradizionali ungheresi. Tra i temi più ricorrenti analizzati nello spazio della rivista, c’è il fenomeno dell’immigrazione in Europa e ciò che viene definito “il nuovo antisemitismo”. Proprio il fenomeno dell’antisemitismo durante la Seconda Guerra Mondiale nel territorio ungherese, e come questo si sia riversato nel pregiudizio e nel collaborazionismo da parte della popolazione locale a danno di quella ebraica, è al centro del racconto eponimo della raccolta, “1945”.

Il racconto ha ispirato l’omonima pellicola in bianco e nero del 2017, con Ferenc Török alla regia e Gábor T. Szántó nel ruolo di co-sceneggiatore. Il titolo originale del racconto è “Il ritorno”, che non a caso si apre con l’arrivo presso la stazione ferroviaria di una coppia di ebrei ortodossi, uno anziano e uno più giovane. L’arrivo del duo, accompagnato da pesanti casse di presunti cosmetici, semina il panico tra la popolazione locale, terrorizzata all’idea che questi siano ritornati per reclamare ciò che era di loro proprietà prima della deportazione. Mettendo al centro l’atmosfera apertamente ostile che i sopravvissuti o i loro cari dovettero affrontare in Ungheria quando fecero ritorno nei loro paesi, Szántó smaschera l’antisemitismo ancora latente tra la popolazione locale, interessata a mantenere i beni un tempo appartenenti alla popolazione ebraica del villaggio, poi finiti all’asta. I due uomini ebrei a malapena parlano: si sono recati al villaggio per adempiere un obiettivo etico e spirituale, che sarà rivelato alla fine del racconto; in forte contrapposizione, gli abitanti del villaggio (in particolare il notaio e suo figlio, il giovane droghiere) seguono avidamente il passaggio silenzioso del duo, proiettandone le insofferenze e i sensi di colpa: sono l’elemento catalizzatore, che risveglia la proiezione paranoide che trasforma l’ebreo in bersaglio. Di bocca in bocca, il timore della perdita di beni e privilegi si diffonde tra quegli stessi villeggianti che avevano visto i propri vicini ebrei venire deportati, nella forma di un risentimento collettivo anticapitalistico che ancora considera l’ebreo come colui che se la passa sempre meglio. Mentre li guida lungo le vie del villaggio, il carrettiere pensa:

“Ha paura del notaio, ha paura degli abitanti del villaggio ma soprattutto anche lui ha paura di questi, qui dietro alle spalle. In fin dei conti devono avere un gran potere se osano tornare a casa tutti soli, qui, da dove sono stati costretti ad allontanarsi così vergognosamente, e in un batter d’occhio si riprendono ciò che era loro. Mihály Suba stesso lavora una terra che fino a qualche anno prima era di proprietà d’altri. Come potrebbe non preoccuparsi che questi ritornano! Un anno fa riteneva esagerato che li buttassero fuori dalle loro case e che li portassero chissà dove, anche se riteneva giusto che, a giovare di quei beni, fossero i suoi simili. Non è giusto che loro abbiano tutto e chi è messo al giogo da generazioni su questa terra viva in miseria.

Szántó mette a nudo, attraverso i pensieri e l’ossessione che si scatena tra la popolazione locale a partire dall’arrivo dei due visitatori, la rottura di quell’equilibrio precario che si era costituito con la scomparsa della popolazione ebraica da quelle zone. Ascoltandone i pensieri, emergono non solo le responsabilità dei cittadini ungheresi nella connivenza col regime nazista, ma anche i vantaggi che ne hanno tratto: case, mobili, tappeti, vestiti, botteghe e attività commerciali. In ultima istanza, l’autore rivela la banalità dei loro moventi, ora emersi ed esasperati a causa del loro ritorno: per avidità, opulenza, o per il mero tentativo di sopravvivere alla povertà, gli abitanti sono divenuti conniventi col regime nazista, e in questa collaborazione hanno garantito una tacita complicità a beneficio di tutte le parti, fatta eccezione per quella che ha fatto inaspettato ritorno.

Un fotogramma tratto dalla pellicola “1945” di Ferenc Török (2017)

In un’intervista con David Calef, interrogato sull’antisemitismo nei discorsi politici dell’Ungheria di oggi, Szántó riflette sulla retorica xenofoba diffusa nel dibattito pubblico ma che, secondo lui, non è mai apertamente antisemita, sebbene sia vero che – commenta sempre l’autore –, secondo i sondaggi, un terzo della popolazione ungherese coltiva sentimenti antisemiti. Piuttosto, la retorica xenofoba si scaglia contro stranieri, immigrati e altre minoranze. Tuttavia, il partito di governo Fidesz da un lato pone l’attenzione sulle relazioni positive con gli ebrei e con Israele, dall’altro si oppone con discorsi in chiave xenofoba all’immigrazione di massa, e nel farlo attacca George Soros: si tratta di una strategia controversa che fa dell’antisemitismo senza dichiararlo esplicitamente, nota anche negli ambienti anglofoni come dog whistling.

Oltre a 1945, in questa raccolta Szántó si apre a un ampio numero di tematiche e provocazioni: la deportazione e sostituzione di alcune comunità etniche in territorio ungherese (La notte più lunga), la precarietà dei confini etici di un rapporto madre e figlio tra perversione e amore materno (Affetto), omosessualità e desiderio carnale (Mirko e Marion), vendetta, brama di giustizia e cacciatori di nazisti rimasti impuniti (Vita, in tranquillità e A onor del vero), l’impossibilità di comunicare il trauma passato in una società che nonostante tutto va avanti (Il primo Natale) e, infine, Trans: il racconto che mette al centro un personaggio protagonista che sta ultimando gli studi per diventare rabbino, quando inizia a vivere in prima persona il dramma di realizzarsi intrappolato in un corpo e in un’identità di genere che non gli appartiene. 

In Queer Visibility in Post-Socialist Cultures, Eszter Timár sottolinea come il discorso assimilazionista del nazionalismo ungherese sia riuscito a trasformare l’identità ungherese in una performance visibile secondo una prospettiva culturale, espressa in un’identità etnica che vede nell’omogeneità pubblica la garanzia simbolica e immediatamente riconoscibile della nazione ungherese. In breve, ogni forma di differenza finisce per rappresentare un’espressione di dissenso dalla nazione, proprio perché elemento che minaccia e infrange l’omogeneità altresì totale. Nel discorso politico europeo è stata generata ad hoc una tensione fortemente contrastiva tra la politica della differenza, in questo caso simboleggiata dal movimento LGBTQ+, e la corrente universalizzante e omogeneizzante: questa opposizione artificiosa mira a fare coincidere un atto come il coming out come una minaccia all’appartenenza nazionale, che oltre all’elemento etnico porta con sé i valori patriarcale-cristiani. In una nazione in cui nei discorsi pubblici spesso il diverso diventa alieno, inteso come elemento straniero, estraneo al sistema religioso, patriarcale ed eteronormativo, non sorprende che l’emancipazione del personaggio protagonista possa avvenire solo attraverso il congedo con la propria nazione, alla volta di San Francisco, una delle capitali liberal per antonomasia del mondo occidentale, dove può finalmente realizzare se stessa come donna trans ebrea. A pochi mesi dallo scandalo che ha investito l’eurodeputato sovranista e omofobo József Szájer (uno dei fondatori del partito di governo Fidesz e fedelissimo di Viktor Orbán), scoperto a partecipare a un’orgia con molti altri uomini coinvolti, il racconto Trans è particolarmente prezioso, perché lancia un messaggio di speranza anche alla comunità LGBTQ+ ungherese, frequentemente oggetto di accuse, violenze e utilizzata come capro espiatorio. E di questo ne era evidentemente ben consapevole Gábor T. Szántó, perché il racconto è uno dei pochi dall’inequivocabile finale ottimista.

Al di là del racconto eponimo, l’operazione narrativa dell’autore Gábor T. Szántó mira a creare un dialogo tra passato traumatico e presente, in un hic et nunc ancora infestato dagli spettri della Storia e incapace di affrontarne le riproposizioni nel presente. Nella raccolta 1945 e altre storie, il retroterra ungherese è dunque lo sfondo dove si alternano riflessioni sull’antisemitismo e l’occupazione sovietica, lo scontro generazionale tra padri e figli e il rapporto tra madri e figli,  l’identità di genere e l’omosessualità,  il desiderio di vendetta per crimini mai sostanzialmente espiati. Registrando frammenti di vite individuali, in Szántó si sente il respiro universale della Storia, mentre i suoi protagonisti si muovono ignari o del tutto consapevoli in uno spazio che è tanto singolo quanto collettivo. È soprattutto l’incomunicabilità a plasmare la realtà e i rapporti nei suoi racconti: il trauma storico, familiare e personale confina i personaggi nella trappola della solitudine e dell’alienazione, tra arrendevolezza e resistenza, disincantato cinismo e speranza. 

Apparato iconografico:

Immagine 1: https://www.edizionianfora.net/1945-e-altre-storie

Immagine 2: https://konyvesmagazin.hu/nagy/szanto_t_gabor_az_elhallgatott_traumak_roncsolnak_emiatt_a_nemzedekek_konfliktusba_kerulnek_egymassal.html 

Immagine 3: https://www.cinematographe.it/recensioni/1945-recensione-film-ferenc-torok/

Immagine 4: https://www.amnesty.org/en/latest/news/2020/12/hungary-dark-day-for-lgbti-community-as-homophobic-discriminatory-bill-and-constitutional-amendments-are-passed/