Tre giorni nel gelo della guerra. “Il convitto” di Serhij Žadan

Martina Mecco

Lo scorso dicembre è uscito in Italia presso l’editore Voland Il convitto (Інтернат, 2017) di Serhij Žadan, tradotto da Giovanna Brogi, anche curatrice di una preziosa postfazione, e Marianna Prokopovyč. Il romanzo non rappresenta il debutto dell’autore in traduzione italiana, sono già infatti stati pubblicati dalla stessa casa editrice altri due romanzi: La strada del Donbas e Mesopotamia. Žadan è infatti divenuto un autore molto amato sia in patria che all’estero, ormai consacrato al pubblico italiano come una delle voci più importanti dell’odierna Ucraina.

Serhij Žadan non è solo un autore di romanzi, la sua produzione è inizialmente dedicata alla poesia. La sua è una figura molto attiva anche all’interno delle proteste e degli odierni dibattiti riguardanti il paese. Inoltre, è frontman della band “Žadan i Sobaki”, fondata nel 2000 con il nome “Sobaki v kosmosi”.

Link al libro: https://www.voland.it/libro/9788862434089


Il convitto è un romanzo ambientato nell’Ucraina orientale, una regione in cui dall’aprile del 2014 si combatte una guerra estenuante, dove le parole terrore e disperazione fanno da padroni. La storia narrata si snoda su tre giornate vissute dal personaggio principale, Paša, un insegnante di lingua ucraina orgoglioso della sua professione. Le tre giornate di Paša, nel tentativo di andare a recuperare il nipote che si trova in un convitto, non conoscono riposo e possono essere riassunte in termini di una lunga corsa che, nella seconda parte del testo si trasforma definitivamente in una fuga disperata per tornare al calore del focolare, all’ “odore di lenzuola appena lavate” (p.306). Nel momento in cui Paša esce di casa non sa esattamente cosa lo aspetti, la sua riluttanza nei confronti dei telegiornali, che tende sempre ad ammutolire, lo coglie impreparato di fronte a ciò che incontra fuori dalla sicurezza dell’abitacolo. Ben preso si accorge, però, del fatto che l’atmosfera ha qualcosa di strano e questa sensazione viene enfatizzata dall’assenza del canto degli uccelli. Il recupero del nipote si trasforma ben presto in un percorso attraverso truppe e posti di blocco.

Il carattere interessante del romanzo non si ferma al fatto che viene raccontata, con uno stile sensazionale, una guerra ancora oggi attuale, ma il modo in cui questa narrazione si dispiega. Il punto di vista è infatti quello di un civile, la cui unica volontà è quella di riportare a casa il nipote, non c’è nessun atto eroico da parte di Paša. Risiede proprio in questo punto di vista la chiave vincente del romanzo, di fronte alla guerra non ci sono privilegiati, le sensazioni sono due, da una parte la paura e dall’altra la voglia di continuare a vivere.

Confrontandosi con romanzi come quelli di un autore come Žadan resta sempre aperto il quesito riguardante il genere letterario esatto in cui debbano essere incasellati. Se di primo acchito può sembrare un reportage della guerra dal punto di vista di un civile, in realtà questa definizione non è abbastanza. La classica distinzione di genere viene scardinata a piè pari dall’autore, inserendosi così pienamente nell’ampio fenomeno della letteratura postmoderna. Se il genere risulta di difficile attribuzione, la forma del testo offre invece degli spunti particolarmente interessanti su cui riflettere. Difatti, la vera protagonista sembra essere proprio la lingua, inconfondibile marca stilistica dell’autore ucraino.

Sebbene si presenti come una lingua apparentemente semplice e molto scorrevole, essa riserva, in realtà, degli aspetti frutto di un’attenta elaborazione stilistica. In particolare, l’attenzione di Žadan si rivolge all’elaborazione di metafore e similitudini potentissime, in grado di mostrane in modo quanto mai diretto e chiaro il carattere di alcune sensazioni. Paša non afferma semplicemente di avere paura, ma lo fa con riferimenti di carattere sensoriale o identificandolo con il paesaggio circostante. A essere messi sullo stesso piano delle percezioni emotive sono gli elementi più disparati, tutto ciò che passa sotto l’occhio di Paša. A dominare in questo vasto universo semantico sono appunto i riferimenti al paesaggio che, immerso in un gelido inverno, assume degli aspetti simbolici che permeano tutto il testo. L’atmosfera esterna e quella interna al protagonista si fondono, permettendo una perfetta consonanza di proiezioni tra il freddo dell’inverno e quello della paura. La paura, come il gelo dell’inverno, pervade tutto il romanzo, si insinua nelle viscere dei personaggi e scandisce il ritmo dei loro passi. Se si dovesse trovare un metro del ritmo del romanzo, probabilmente sarebbe proprio quello della paura e dell’angoscia. Accanto a questa nebbia emotiva, però, la forza narrativa dell’autore riesce ad innestare un processo dinamico. La sensazione provata dal lettore si potrebbe esemplificare con una metafora altrettanto calzante: un filo teso che viene continuamente pizzicato da qualcos’altro che proviene dall’esterno.

“Avanzano così per un po’, alla cieca. La paura è una sostanza invisibile ma travolgente: anche se non vedi alcun pericolo reale e intorno è tutto tranquillo, nonostante nel cielo baluginano riflessi metallici, la sola idea di essere nel mirino di qualcuno e di poter saltare in aria in qualsiasi istante, indipendentemente dai colori che si muovono nel cielo, basta a rendere la situazione sgradevole, vorresti stare lì con gli occhi chiusi e contare, diciamo, fino a cento, finché tutti i mostri circostanti non se ne siano andati.” (p.50)

Le metafore sono il cuore pulsante della narrazione, il mezzo che permette all’autore di rendere ancora più vivida e tangibile la realtà che vuole raccontare ai lettori. Si potrebbe affermare ne Il convitto, forse ancor più che negli altri due romanzi precedenti, emerga la doppia vena artistica dell’autore: quella della scrittura-jazz e la profonda ricerca instaurata sul rapporto tra parola e immagine. Le frasi del romanzo si susseguono alternando scene in cui vengono dipinti i già citati stralci di paesaggio a momenti in cui il lettore viene portato nel vivo dell’azione. Se nel primo caso si ha una distensione del ritmo che permette di godersi le forti immagini date dalla scrittura di Žadan, nel secondo caso si viene intrappolati in un vortice dove le azioni si susseguono senza pause.

“All’improvviso si rendono conto di essere caduti in trappola. E ci si sono cacciati dentro loro stessi. E non sanno come uscirne. Perchè non sono venuto a prenderlo prima? – si chiede avvilito Paša. Perchè non sono andato via dalla città ieri sera? Avrei dovuto prendere il ragazzo e scappare via subito finché c’era la possibilità. Che bisogno c’era di passare la notte laggiù? Dove andare ora?” (p.179)

Il susseguirsi delle scene e le continue descrizioni lasciano ben poco spazio, nel romanzo, ai dialoghi dei personaggi. Questi vengono infatti ridotti all’osso, all’essenziale, come a sottolineare come, in una situazione come quella in cui è inserito il protagonista, ci sia ben poco da dire, che piuttosto sia necessario agire. Nonostante questa impellente necessità di fare qualsiasi cosa per sfuggire a un destino che al solo pensiero fa gelare il sangue, Paša riesce a ritagliarsi dei momenti in cui riflettere sulla propria vita, in cui ricordare scene del suo passato. Molte sono le domande che il protagonista si pone e tutt’altro che banale sembra essere la risposta. Ci sono istanti in cui cerca di indagare aspetti che trovano spazio nell’intimo, come quello della sessualità, che compare a più riprese nel testo senza però mai avere una vera e propria chiarificazione. Nonostante tutta l’attenzione narrativa sia posta su un presente che incalza continuamente, emergono nel romanzo anche momenti di ripresa del passato. Paša ricorda infatti alcuni episodi relativi al suo lavoro come insegnate, la riflessione sul passato sembra portare a una domanda che nel resto sembra implicita, quella sul futuro.

Il convitto di Serhij Žadan è un romanzo in cui trovare una rappresentazione, profondamente lirica e narrativa al tempo stesso, della vita ai tempi di una guerra che distrugge ogni aspetto del quotidiano. Ciò che però non si spezza è la speranza di ritornare un giorno, a quella condizione di sicurezza priva del terrore dei posti di blocco, alla fine dell’inverno e al germoglio di una vita “nuova”. Pochi sono gli scrittori che riescono a narrare episodi così complessi impiegando una lingua fresca come quella di Žadan, autore che ha ancora tanto da dare al suo pubblico e che si spera di vedere presto nuovamente pubblicato in traduzione italiana.

Apparato iconografico:

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Immagine 3:

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