Per una regia della voce: “Der Hof im Spiegel” di Emine Sevgi Özdamar

Martina Cimino

Scrittrice, drammaturga e attrice di origine turca, Emine Sevgi Özdamar è un’autrice contemporanea di letteratura tedesca tout court, la cui produzione si pone, a partire dall’esordio letterario avvenuto nel 1990 con Mutterzunge (La lingua di mia madre), in una posizione transculturale dovuta all’esperienza biografia della migrazione. Infatti, emigrata a soli diciannove anni in Germania per lavorare in una fabbrica di Berlino Ovest, vi torna nel 1976 per stabilrvisi dopo il colpo di stato militare in Turchia e dopo aver frequentato l’Accademia d’arte drammatica a Istanbul. Considerata inizialmente come rappresentante di una cultura minore nella cornice della Gastarbeiterliteratur, la letteratura dei lavoratori­ospiti, Özdamar può essere inclusa in una letteratura minore soltanto nel caso in cui con minore s’intende il significato attribuito al termine da Gilles Deleuze e Félix Guattari, cioè la letteratura di una minoranza in una “lingua maggiore”. Infatti, Özdamar scrive in tedesco e si muove all’interno di questa lingua con quella libertà tipica di chi ne avverte l’essenza corporea e la realizza in un’esperienza carnale, debitrice alla sua formazione teatrale, che permette di parlare di scrittura somatica.

Non è un caso, dunque, che il tema della lingua e della sua corporeità sia una costante che attraversa l’intera opera dell’autrice; con rilievo particolare nel racconto Der Hof im Spiegel (Il cortile nello specchio), tradotto in Italia nel marzo 2018 da Stefania Sbarra, all’interno del festival internazionale di letteratura Incroci di civiltà organizzato dall’Università Ca’ Foscari di Venezia. In questo racconto, la protagonista, immersa nella quotidianità della sua vita a Düsseldorf, osserva degli sconosciuti e ne propone dei ritratti attraverso una comunicazione quasi interamente telefonica. Il centro della narrazione è, dunque, l’atto di osservare: un osservare indiretto, un gioco di specchi che esclude la protagonista da ciò che guarda e la rende estranea alle scene reali che si susseguono attorno a lei. Scene che vengono raccontate mediante il telefono alla madre e che, mentre sono espresse a voce alta, annullano la distanza che intercorre tra la protagonista e il suo mondo d’origine, ricreando un’intimità di cui il legame con la madre è esemplificativo. Infatti, sono queste telefonate che permettono al corpo di porsi come uno strumento di connessione tra le due realtà. Ed è solo nel momento in cui queste vicende vengono verbalizzate e accolte nel luogo della parola che gli eventi e gli interlocutori possono essere avvertiti come attuali e presenti.

Ero felice allo specchio perché ero in più luoghi allo stesso tempo. Mia madre e sei suore e un prete, vivevamo tutti insieme. […] Quando mia madre morì ed io lo venni a sapere al telefono mentre guardavo lo specchio, nello specchio vidi lo stampo delle labbra. Una tarma vi si posò sopra. Dopo la morte di mia madre e di mio padre ho scoperto in quello specchio che mia madre era un’orfana. Sapevo che non aveva avuto una madre, ma quando dopo la sua morte divenni molto triste e non volevo più vivere, eppure vivevo, a volte parlavo a me stessa con la sua voce. E quella voce era la voce di una matrigna. […] Dovevo venire in un paese straniero per scoprire in uno specchio la sua infanzia da orfana”. (p. 55)

Il telefono è, dunque, lo strumento di una comunicazione tanto intensa e coinvolgente da creare un legame corporeo tra la donna e gli interlocutori che va oltre la distanza fisica. Un legame di cui partecipa anche lo specchio che, dilatando l’esperienza sonora (di ascolto) e riflettendo il rapporto che la protagonista intrattiene con se stessa e con gli altri, si pone come indizio di autenticità, rivelando l’interiorità della donna e il legame con i suoi interlocutori. Infatti, è solo attraverso lo specchio che può ascoltarsi.

Nello specchio vedevo me stessa, la cucina, la vasca e il balcone che si affacciava sul cortile. Il cortile aveva lo stesso aspetto di molti anni addietro, quando lo avevo visto per la prima volta. […] Telefonavo sempre in piedi davanti allo specchio. Lo specchio mi mostrava se amavo o meno le persone con cui stavo parlando. […] Allo specchio vedevo ancora una volta me sessa, sentivo la mia voce, vedevo la cucina, e la cucina si amplificava fino alla casa delle suore in cortile”. (p. 43)

Amavo lo specchio appeso sopra il tavolo della cucina. Si riusciva a far parlare la stanza. Solo là sentivo la mia voce”. (p. 49)

Tuttavia, è solo nella combinazione dei due mezzi che la prospettiva del racconto risulta chiara: lo specchio permette di ascoltare, il telefono di condividere e andare oltre; creando una sorta di ipersemiosi tipica di un teatro della visione in cui i segni convogliano una comunicazione da un dentro a un altro dentro. Una comunicazione che si scopre essere solitaria nel momento in cui la madre viene a mancare e la perdita si configura come assenza di parole, ricerca spasmodica di esse attraverso la voce della matrigna con cui rivolge a se stessa gli insegnamenti della madre e della nonna paterna e un nuovo interlocutore, il poeta Can Yücel, morto due anni prima. Lo specchio non è che uno scrigno di morti e la lingua, in cui si concentra la totalità dell’esperienza corporea, un monologare con se stessa e la propria infanzia. Dunque, quando la Özdamar afferma che le sue parole tedesche non hanno un’infanzia, la costruzione scenica diventa evidente:

Ora abito soltanto nello specchio. Parlo con te nello specchio”. (p. 77)

Bibliografia
Daniela Allocca, Babele allo specchio. Dinamiche topologiche nelle opere di Emine Sevgi Özdamar e Terézia Mora, in Annamaria Laserra, Percorsi mitici e analisi testuale, Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 121­-136.
Emine Sevgi Özdmar, Il cortile nello specchio, Venezia, Cafoscarina, 2018.
Gilles Deleuze, Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Macerata, Quodlibet, 1996.
Giovanni Sampaolo, La realtà è un gioco di specchi, il Manifesto, 30 marzo 2018.
Sandra Paoli, Emine Sevgi Özdamar, Rita Ciresi, Yasemin Şamdereli. Due scrittrici e una filmmaker nel nuovo Occidente transculturale, Roma, Università degli Studi Roma Tre, 2014-­2015.

Apparato iconografico
Immagine in evidenza:
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1. Copertina di Emine Sevgi Özdmar, Il cortile nello specchio, Cafoscarina, Venezia, 2018