L’emigrazione come vortice esistenziale: Pajtim Statovci e la cronaca di una famiglia kosovara

Martina Mecco

Questa sezione della rivista nasce un po’ per caso, anzi si potrebbe dire che l’idea di promuovere questo libro sia nata dalla lettura casuale di quest’ultimo, in quanto racchiude molte delle problematiche che sono state affrontate in questo numero, in una fusione tematica che solo pochi autori, tra cui Statovci, sanno realizzare in modo così armonico.

Pajtim Statovci è una delle rivelazioni letterarie degli ultimi anni, esplosa in Italia con la traduzione de Le transizioni, pubblicata lo scorso febbraio dalla casa editrice Sellerio. Statovci nasce in Kosovo nel 1990, paese che abbandona all’età di due anni, quando la famiglia di origini albanesi si vede costretta ad emigrare in Finlandia per sfuggire alle conseguenze delle guerre balcaniche. A Helsinki, dove vive tutt’ora, si laurea in letterature comparate e inizia la sua carriera di scrittore. Seppur giovanissimo, è già autore di tre romanzi che sono stati insigniti di premi letterari finlandesi, come il Toisinkoinen Literature Prize o l’Helsinki Writer for the Year. Se da un lato Le transizioni ha reso famoso il nome di Statovci in Italia, la traduzione del suo primo romanzo Kissani Jugoslavia (in italiano porta come titolo L’ultimo parallelo dell’anima) è invece, paradossalmente, passata inosservata.

Kissani Jugoslavia viene pubblicato per la prima volta in finlandese nel 2014 ed è un romanzo che racchiude in sé due grandi temi: da un lato quello dell’emigrazione e dall’altro quello della sessualità. La trama è apparentemente semplice, si divide infatti in due linee temporali: una, che ha inizio in paesino alpestre del Kosovo nella primavera nel 1990 e un’altra, che si sviluppa invece nella Finlandia contemporanea. Il primo filone narrativo vede come protagonista Emine, una giovane kosovara in età da marito, che racconta con minuziosa attenzione i preparativi del suo matrimonio con Bajram, un uomo profondamente legato ai valori tradizionali della sua terra. Il secondo racconta invece la vita del figlio di Emine, Bekim, e del suo continuo tentativo di rompere le barriere sociali che lo ghettizzano in quanto straniero e omosessuale. L’incredibile forza del romanzo risiede nel fatto che queste linee narrative non si limitano a coesistere, ma si intrecciano e comunicano, finendo per congiungersi anche dal punto di vista simbolico. L’intreccio avviene anche a livello tematico, il tema della sessualità e quello dell’emigrazione cercano di risolversi l’uno nell’altro, dando vita ad un flusso di riflessioni. Vengono infatti affrontati temi importanti come il confronto generazionale, il problema della lingua, i conflitti etnici, il rapporto tra l’individuo e la Storia.

Poco dopo il matrimonio Emine e Bajram si trasferiscono a Prishtina, capitale del Kosovo, dove costruiscono la loro famiglia e conducono una vita serena. Emine ha tutto ciò che una giovane donna kosovara possa desiderare: un marito di sani principi che, con la sua laurea, potrà garantirle un futuro completamente diverso da quello a cui sarebbe stata destinata tra le montagne. Questa serenità viene spezzata da un evento che sconvolge tutte le terre jugoslave: la morte di Tito, a cui segue la presa di potere di Milošević in Serbia. Con la confusione generata dalla morte del dittatore, che paradossalmente era l’unico elemento che garantiva una pace agonizzante, inizia uno dei periodi più bui della storia dei popoli balcanici. In Kosovo esplodono le tensioni covate da decenni tra Serbi e minoranza albanese: agli albanesi kosovari viene tolto tutto e viene dato il via ad una vera e propria pulizia etnica. Molte famiglie come quella di Emine si vedono costrette ad emigrare per sfuggire a una condanna che sembra essere inevitabile. Emine e Bajram si interrogano su dove andare, quale paese potrà mai accogliere dei profughi albanesi? Ma a preoccuparli ancora di più sono gli effetti che questa decisione avrà sulla loro identità albanese e di quella dei loro figli, che saranno forzatamente trapiantati in una cultura estranea, senza la possibilità di tornare alle proprie radici.

Questo distacco dalle origini è particolarmente sentito da Bekim, che lo concretizza nel rapporto col padre Bajram, dove si accende un conflitto dal sapore al contempo generazionale e culturale. Bekim dice di aver imparato a leggere e a scrivere in una lingua che suo padre non comprende, a vivere tra persone di cui disprezza la cultura e a parlare di argomenti che non riesce a capire. Il giovane ha imparato a evitare il padre in tutto ciò che ne caratterizza la vita, quella di un uomo che lamenta la sua nostalgia tanto per Tito quanto per il pane con la margarina.

“Ognuno iniziò a sentire la mancanza di Tito, perchè se Tito fosse ancora stato al potere le richieste dei Serbi non sarebbero mai passate in Parlamento. Il popolo jugoslavo aveva temuto questo momento per anni, il momento in cui l’uomo emerso da una famiglia modesta per guidarci tutti alla fine era morto. Chi avrebbe guidato la Jugoslavia una volta che Tito non fosse più stato in circolazione? Qualche anno dopo la morte di Tito Prishtina divenne un posto pericoloso in cui vivere. Milošević faceva discorsi in cui prometteva di prendersi cura di tutti i Serbi […]. “Nessuno potrà più farvi del male, diceva Milošević. […] Improvvisamente i carri armati e i soldati riempirono le strade. Quando gli albanesi iniziarono ad essere rimossi dai loro posti di lavoro, dalle posizioni negli ospedali e nella polizia, e quando per gli albanesi divenne impossibile studiare, la situazione divenne disperata. In città non c’era nessuna stanza in cui respirare.” (pp. 138- ­139)

Egli spende le sue giornate a rovinarsi l’anima incollato al televisore per seguire le notizie di una guerra che sta distruggendo il suo paese e sterminando i suoi fratelli. Il padre e la lingua albanese rappresentano tutto ciò che Bekim non ha mai potuto veramente conoscere, tutto ciò che deve rigettare per riuscire a sopravvivere in un paese estraneo. Ma se il protagonista sente di non appartenere alla fredda Finlandia, al tempo stesso non può nemmeno ritrovarsi in un Kosovo in cui da un momento all’altro ci si ammazza tra vicini di casa e che ha solo potuto conoscere durante le vacanze estive. Emine e Bajram, una volta arrivati in Finlandia, si sentono costretti ad affrontare il fatto di dover vivere da stranieri in un paese che a malapena sanno dove si trova sulla cartina geografica. La paura dello scontro con questa realtà altra e del pregiudizio è talmente forte da portarli a rinnegare le loro origini, arrivando a pensare che sia meglio essere considerati russi piuttosto che albanesi. Emine e Bajram, ossessivamente preoccupati del futuro dei loro figli, finiscono per perderli. L’unione famigliare si spezza definitivamente con la loro separazione, anche per Emine il marito rappresenta tutto ciò che non esiste più, tutto ciò che con dolore si è lasciata alle spalle e che, per smettere di soffrire, deve abbandonare per sempre.

All’interno del romanzo sono presenti due animali: il gatto e il serpente, la cui interpretazione non deve dipendere da nessuna simbologia tradizionale, ma dal contesto in cui sono inseriti. Il gatto è strettamente legato alla sessualità di Bekim e rappresenta anche l’elemento in cui riconoscere il legame tra il racconto della madre e quello del figlio, le cui voci finiscono per confondersi nell’intreccio di cui si accennava all’inizio. Anche il serpente ha una funzione di collegamento e rappresenta l’evoluzione di Bekim. Fin da piccolo, infatti, inizia ad avere incubi ricorrenti e costernati di serpenti che gli impediscono di dormire, problema che la madre tenta di risolvere con ogni mezzo possibile, dalla psicologia alle pratiche sciamaniche. Da adulto decide di spendere i suoi pochi soldi per comprare un cobra. La convivenza col serpente e la sua stretta rappresentano la vita che Bekim deve affrontare ogni giorno, segnata dal timore di essere accettato, di essere amato e di riuscire a trovare una propria identità. Egli riesce infatti a risolvere la sua condizione esistenziale proprio nel momento in cui, mentre il serpente sta per ucciderlo nella sua stretta, si trascina con le sue ultime forze vitali in cucina per ammazzarlo. Nell’esatto istante in cui infila il coltello nella testa della serpe egli trova un equilibrio.

Kissani Jugoslavia ha in sé tutto il carattere dei grandi romanzi balcanici, in particolare quello delle opere di colui che si può definire il più grande autore jugoslavo: Ivo Andrić. In Statovci, come nei racconti di Andrić, si respira questo principio secondo cui la vicenda del singolo e la Storia sono unite da un legame indissolubile. I personaggi sono quindi legati da un destino che si perpetua di generazione in generazione, come a suggerire il fatto che tutti i popoli balcanici siano legati non solo da un passato ma anche da un futuro comune. I tre personaggi sono accomunati da un destino disperato, quello di essere continuamente alla ricerca di una risoluzione alla lacerazione della loro vita, che sembra essersi spezzata per sempre. Bajram deciderà di tornare in Kosovo, dove morirà di cancro in completa solitudine. Anche Ermine e Bekim decideranno di tornare nel luogo delle loro radici, trovando un paese che non riescono a riconoscere. Le guerre che hanno lacerato i Balcani hanno anche trasformato questi in un mondo irriconoscibile per chi vi fa ritorno all’indomani di una flebile pace che, ancora oggi, sembra sull’orlo di sgretolarsi nuovamente.

“Quando arrivai per la prima volta a Prishtina dopo otto anni, tutto era cambiato rispetto alle immagini della città che erano rimaste nella mia mente. […] Le strade erano affollate, faceva caldissimo, e ovunque mi attanagliava l’odore di sudore, e tutt’intorno c’erano case di mattoni arancioni, la maggior parte delle quali era finita per metà, nient’altro che buchi neri dove ci sarebbero dovute essere porte e finestre. C’era spazzatura ovunque, tra le case e a lato del marciapiede. […] non riuscivo più a parlare in modo corretto; il mio albanese era goffo, lento e insicuro. Non riuscivo a riconoscere tutte le parole che usavano perchè il linguaggio era cambiato.” (pp. 152-­153)

Pajtim Statovci riesce nell’intento di descrivere la condizione dell’emigrato e le difficoltà che deve affrontare in una società che non lo accetta. Ci riesce facendo sprofondare il lettore in un vortice stilistico e tematico che lo imprigiona nelle pagine, dove si può anche, probabilmente, scoprire molto della vita di Statovci stesso.

 

 

Bibliografia
Pajtim Statovci, My cat Yugoslavia, London, Pushkin Press, 2014. (Le traduzioni di questo testo sono state fatte per l’occasione da me M.M.)

Apparato iconografico
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