Martina Cimino
“Devo aver scritto un giorno, da qualche parte, che i Balcani sono una condizione dello spirito più che una geografia. Negli anni ho sperimentato quanto sia vera, per me, tale verità, che non mi abbandona, anzi feconda novi sogni, alimenta altre prospettive. Ma adesso aggiungerei che quella topografia è una mappa interiore, viscerale e profonda, che ha preso per assomigliarmi, in qualche modo.” (p. 242)
Angelo Floramo, medievista di formazione e docente di Storia e Letteratura all’Istituto Superiore Magrini Marchetti di Gemona, nel maggio 2024 è tornato alla narrativa con Breve storia sentimentale dei Balcani per i tipi di Bottega Errante Edizioni nella collana “Camera con vista”.
La pubblicazione con Bottega Errante Edizioni è all’insegna dell’intento comune di far scoprire la terra balcanica, tanto affascinante e ricca, che continua dalla pubblicazione di Guarneriana segreta (2015), L’osteria dei passi perduti (2017) e La veglia di Ljuba (2018).
Link: https://www.bottegaerranteedizioni.it/product/breve-storia-sentimentale-dei-balcani/
Un grande ritorno, dunque, da segnalare per l’impresa che Floramo cerca di compiere con la scrittura di questa breve storia. Una storia che non ha voluto composta di eventi storici e battaglie quanto di un percorso proustiano, e quindi spesso aneddotico, che l’autore intraprende in modo “sentimentale”. Un aggettivo chiave che, presente fin dal titolo, è volto ad accogliere il lettore in un percorso mnemonico di sapori, odori e paesaggi che “evocherà il modo strano e unico che hanno i rami delle betulle quando graffiano i cieli trasparenti della primavera, in un punto imprecisato di quel nodo di intersezioni che imprigionano le anime randagie dell’Oriente, a est di Gorizia fino a non so dove”. (p. 6)
Nel suo essere narratore e protagonista di questo personale vagabondaggio, Floramo non cede mai del tutto a una scrittura esperienziale, tutt’al più fisica e materica. Tanto che anche quando ricorre a fonti storiografiche e letterarie, la mescolanza con l’aneddotica è sempre centrale. Che sia la lettura dei romanzi di Andrić, dei saggi di Kiš o della rivista Studia Mythologica Slavica dell’Università degli Studi di Udine, leggere è per Floramo un’azione tattile, in cui avere tra le mani i volumi è paragonabile all’assaggio di una pietanza tradizionale e al perdersi del flâneur.
“questa volta il rito della sinestesia, perfino dell’assaggio veloce, quasi clandestino, sarà la mia madeleine proustiana per evocare gli spiriti che andrò investigando. […] Ma la madeleine non si addice ai Balcani. […] Mi rendo conto una volta di più che i Balcani occhieggiano da sempre dagli scaffali della mia vita. Il mio sguardo ha sempre cercato risposte in quella direzione, stregato dalla mania del collezionista di conchiglie, preso dall’entusiasmo dell’innamorato che smarrisce il sentiero, inevitabilmente, nei labirinti della sua ossessione”. (p. 9-11)
È una narrazione, dunque, che ha l’ambizione di essere “una storia di popolo”, come dichiarato nella prefazione. Ed è proprio dal popolo illirico che la narrazione prende avvio, rievocandone le imprese come fondanti l’identità comune dei popoli che abitano queste regioni. O meglio, un unico popolo di cui ancora resta traccia: “secondo me sono ancora là, da qualche parte. Invisibili e potenti. Si sono tramutati in paesaggio. O in canto” (p. 20). Ed è infatti, tra le altre figure, alla leggendaria regina delle amazzoni Illiris – corrispettivo mitologico di Teuta, regina di Scutari – che Floramo fa risalire l’archetipo femminile di questa terra. Una terra “matriarcale. Sanguigna. E pirata fin dentro alle fibre dell’anima” (p. 22), di cui un’altra anima è Medea. Una Medea che, fotografata nel suo consumarsi d’odio, diventa il controcanto alla narrazione eroica degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro svelando come la rotta del viaggio mitico, che ha definito la geografia di queste terre, è ora quella che chiamiamo Rotta balcanica. Una rotta che è ancora una volta Utopia.
Tuttavia, se i Balcani sono per Floramo una terra-ventre “che palpita al pensiero dei tanti peccati da poter ancora realizzare, a costo di bruciarsi la vita” (p. 29), questo è ancora più evidente nella terza parte del libro che nel ripercorrere le vicende novecentesche parte proprio da uno tra i più importanti simboli di resistenza e identità di queste terre: lo Stari Most di Mostar. Quel ponte che era speranza di pace e che, nonostante il bombardamento dei croati del 9 novembre del 1993, per abbattere “c’è voluta tutta la cattiveria del Mondo, perché quello non voleva saperne di rovinare in basso, dentro all’acqua ghiacciata del fiume” (p. 179). Un altro simbolo di resistenza, dunque, che ancora una volta rimanda a quell’archetipo femminile di terra-madre, esangue ma indomita come le donne in nero di Belgrado, Srebrenica e Tuzla o le partigiane protagoniste nella lotta antifascista, consapevoli di come solo nella cura si potesse preservare l’utopia di una terra che, seppur divisa da frontiere e intrisa di violenze, continua a generare.
Guerre fratricide, ideologie controverse ma soprattutto un amore. Quell’amore che Floramo cerca qui di spiegare a chi, sfortunatamente – o fortunatamente, aggiungerebbe forse in modo ironico – non ha ancora messo piede su questa terra e non si strugge in quel sentimento di lacerazione che solo questa terra tanto divelta può portare con sé, perché in fondo definire i Balcani è impossibile. E Floramo lo sa, perciò tutto ciò che gli resta da fare è solo raccontarci parte della sua topografia interiore e ipotizzare un congedo temporaneo a Sveto, “piccolo villaggio tirato su con le pietre grigie strappate a forza di fatica e bestemmie dalla campagna, smarrito sull’altopiano carsico che collega Gorizia con Trieste” (p. 237). Prima che torni, il pubblico può esserne sicuro, a scrivere di Balcani.
“Io è qui che vado cercandomi, è qui che alla fine torno sempre.” (p. 237)
Apparato iconografico:
Immagine 2: https://www.morgantieditori.it/project/angelo-floramo/