“Il morbo Kitahara”: perdita della memoria come perdita dell’umanità

 

Silvia Girotto

 

Abstract:

“The Dog King”: Loss of Memory as Loss of Humanity

The Austrian novelist Christoph Ransmayr wrote Morbus Kitahara (“The Dog King”) as a uchronic novel aimed to expand the debate about memory and its loss in European society after World War II. This topic was particularly significant when the novel appeared in 1995, as it was the most opportune time to reflect on what had changed since the war ended. The book describes an alternative world after the conflict, in which Austria and Germany face repercussions for their military actions and their population is condemned to live in poverty and fear. This analysis aims to highlight the criticisms of the contemporary view of history and memory. Ransmayr places it at the centre of the debate, urging the European society to re–elaborate the past. This paper aims to present some of the most relevant themes of the novel – i.e., punishment, guilt, and re–elaboration – and to clarify how they are connected to the contemporary world. Through this novel and its intertextuality, it is possible for the audience of the twentieth and twenty–first centuries to focus on the importance of memory and elaboration  in shaping the future.


 

Negli anni Novanta, nel periodo immediatamente successivo alla caduta del Muro e alla riunificazione della Germania, si chiude per l’Europa un importante capitolo della propria storia. È il momento di guardarsi indietro, comprendere ciò che si è concluso e fare i conti con il proprio vissuto. Sta per terminare un secolo caratterizzato da due guerre mondiali, due momenti di distruzione per la comunità del Vecchio Continente, che hanno coinvolto milioni di cittadini e cittadine e ne ha segnato la vita, sia privata che politica. È arrivato il momento che potrebbe considerarsi di chiusura dopo le atrocità di cui si è fatta esperienza, il momento di valutare quanto si è riusciti a migliorare. La Storia è stata davvero maestra di vita per l’Europa? Questa domanda dirige il dibattito politico, sociale e letterario – profondamente legati tra loro – verso il tentativo di una presa di coscienza e valutazione di quanto svolto.

Proprio in questo periodo lo scrittore austriaco Christoph Ransmayr, nato nel 1954, pubblica con la casa editrice tedesca Fischer Morbus Kitahara (“Il morbo Kitahara”, 1995), romanzo che vuole indagare quanto di ciò che è stato vissuto in Europa sia davvero rimasto nel ricordo e nelle conseguenti azioni, sia dei governi che dei singoli. In Morbus Kitahara Ransmayr descrive un mondo alternativo successivo ad una grande guerra avvenuta in territori che non vengono mai nominati. Nonostante questa iniziale vaghezza è facilmente riconoscibile l’ambientazione di un’Europa post Seconda Guerra Mondiale, in particolare delle zone dell’Austria occupate dai vincitori. Nello specifico, gran parte della vicenda si svolge nel paese di Moor, che potrebbe essere identificato con il paese di provenienza dello stesso Ransmayr, originario di una piccola cittadina accanto al Traunsee, un lago come quello attorno a cui ruota gran parte del romanzo.

Nonostante si presenti inizialmente come un romanzo antipatriottico, questa messinscena verrà presto smascherata, rivelando come le critiche che si incontrano all’interno della storia siano molto più ampie di quanto non si creda. L’occupazione da parte dei vincitori di Austria e Germania porta certamente il pubblico ad individuare nella situazione che ora il paese di Moor vive una punizione per le azioni compiute durante il periodo del governo Nazionalsocialista tedesco. La critica contenuta in quest’opera è in realtà assai più complessa. Questo non è infatti da identificarsi con un romanzo antipatriottico, ma nemmeno come un sostegno alla Opferthese, la cosiddetta “teoria della vittima” che vede la popolazione austriaca come vittima dei crimini nazionalsocialisti o riluttante collaboratrice. La critica di Ransmayr si rivolge piuttosto all’umanità nel suo complesso, come si vedrà proseguendo con la lettura del testo.

Fin dalle prime pagine è possibile identificare un’ambientazione che rispecchia più che l’idea di distopia quella di ucronia: si mostra infatti un mondo post Seconda Guerra Mondiale in cui la Storia ha fatto il suo corso e le potenze alleate hanno vinto, ma la punizione che viene messa in atto nei confronti degli stati sconfitti viene rielaborata. Seguendo uno degli sviluppi possibili della Storia, nel passato immaginato da Ransmayr viene messo in atto quello che era il piano Morgenthau, una proposta del Segretario al Tesoro degli Stati Uniti Morgenthau per deindustrializzare la Germania. In Morbus Kitahara, con la fine del conflitto si procede ad imporre una politica di limitazioni agli stati sconfitti, una politica in cui un comandante, chiamato generale Stellamour, è una rappresentazione di Morgenthau. Inizialmente questi viene introdotto nella cittadina di Moor come un Grande Fratello orwelliano, presente ovunque, ma che presto sparisce per lasciare ad Ambras, ex detenuto di guerra, il compito di amministrare la zona e rimanendo quindi una presenza impalpabile. Gli abitanti di Germania e Austria sono costretti alla sottomissione, alla divisione in aree che vengono occupate e sfruttate. Chi vive a Moor è isolato dal resto del mondo e l’unico canale di comunicazione, le dogane, è attentamente controllato dall’esercito occupante. Non esistono più treni per spostarsi e nemmeno elettricità per attivare elettrodomestici e altri strumenti: l’isolamento dall’esterno è completo.Nella realtà, ovviamente, il piano venne rivisto data la delicata situazione, in particolare a causa della costante paura di un’influenza comunista e dell’inizio della Guerra Fredda, che portarono le potenze vincitrici a ritenere che non fosse opportuno lasciare i perdenti completamente sguarniti.

L’isolamento è dunque la punizione a cui sono costretti i popoli occupati e Moor ne rappresenta un chiaro esempio: le persone che vi abitano subiscono l’occupazione, per assistere poi a uno smantellamento delle infrastrutture per il trasporto, raggiungendo un isolamento totale sia fisico che spirituale. Infatti, ogni sorta di tecnologia viene allontanata, sono totalmente assenti elettricità e armi da fuoco. La popolazione viene lasciata a difendersi da sola, dato che l’esercito si occupa solo di controllare che le attività lavorative vengano svolte nei tempi e modi previsti. Tutto ciò porta a mettere in pratica un quasi completo ritorno al passato, ad una situazione di vicinanza alla Natura anche attraverso l’uso della forza per sovrastare il prossimo.

L’isolamento porta dunque ad un ritorno al passato della società non solo nello sviluppo tecnologico, ma anche nei rapporti. Vi sono spesso manifestazioni di violenza, si temono le scorribande, non si raggiunge mai davvero un momento di tranquillità. Vige la legge del più forte e Ambras, colui che controlla per conto degli occupanti la zona, è il più temuto e rispettato proprio per la fama della sua forza fisica.

Spesso un ritorno al passato viene mostrato nelle utopie – e non solo – come se fosse un ritorno ad un momento felice, un’età dell’oro dell’umanità per la maggiore vicinanza alla Natura. Il ritorno ad una condizione preesistente e innocente appare come un paradiso, un privilegio per chi vive al suo interno. Tuttavia, questo avvicinamento a uno stato primordiale può funzionare come utopia solo se si presenta come unica possibilità esistente. Al contrario, a Moor si è consapevoli delle possibilità al di fuori dei confini del paese, negli altri luoghi si immaginano infatti ricchezza e bellezza grazie alla pubblicità che viene mostrata in paese, ai racconti dall’esterno e ai militari che arrivano da oltre i confini. A Moor la popolazione viene invece costretta alla povertà e soprattutto ad umiliarsi festeggiando la vittoria del nemico e ricordando la tragedia come una colpa di ciascuno di loro.

I protagonisti del romanzo sono due uomini e una donna con origini differenti, ma accomunati da una stessa condizione di staticità. Colui che appare per primo e che fin dall’inizio si palesa come il centro della vicenda è senza dubbio Bering, figlio di un reduce di guerra nato proprio durante l’ultimo bombardamento. In quanto all’epoca neonato, non si è macchiato di alcun crimine e sembra quindi inizialmente rappresentare la necessità di un destino di espiazione con una promessa di rinascita. Il pubblico è spinto a vederlo in questo modo per varie ragioni: tra queste il suo ruolo centrale nella vicenda e il fatto che possieda doti che potrebbero portarlo a migliorare la vita della popolazione di Moor. In realtà egli mostra un certo egoismo nel comportamento, non riuscirà davvero a cambiare le condizioni del suo paese e serve invece ciò che lo affascina. Diventa infatti autista di Ambras e dipendente dall’unica tecnologia che può trovare a Moor, la macchina di Villa Flora. La violenza appare inoltre presente in lui, anche se latente. Egli rappresenta in questo modo una sorta di incessante presente, simbolo di una generazione intrappolata in una punizione che non gli è propria.

Ambras è invece un rappresentante del passato che viene punito, pur essendo stato vittima del lager di Moor durante la guerra. Per questo è costretto a rimanere nel paese, anche se in virtù della sofferenza patita è ora amministratore della cava di pietra del luogo. È l’unico abitante ad aver ottenuto potere ed è odiato per la sua stabilità economica e politica nella zona del lago di Moor. Per lui non vi è rinascita e possibilità di redenzione, la sua vita è ormai segnata e una supposta rinascita non esiste davvero.

L’ultimo personaggio al centro della vicenda è Lily, una giovane donna che controlla il mercato nero di Moor, svolge incursioni oltre il confine per procurare beni richiesti, ma impossibili da ottenere a Moor per altre vie. È figlia di un criminale di guerra fermato a Moor e quasi ucciso e ora lei vive solo per se stessa, rappresenta in qualche modo la condanna della sua famiglia, portando tuttavia a Moor beni utili. In questo modo appare come l’unico personaggio che possa rappresentare una sorta di futuro.

Per quanto riguarda la scelta dell’ambientazione spaziale, per Ransmayr è particolare la scelta compiuta in questo libro. Le principali tematiche che caratterizzano generalmente i suoi testi sono infatti legate a luoghi esotici, lontani e sorprendenti, mentre in questo caso non solo viene scelto un luogo in Europa, ma soprattutto che si trova vicino al luogo di nascita dello stesso autore. Lo straniamento qui non è quindi spaziale, ma temporale e soprattutto nella rielaborazione della Storia. “Rielaborazione” è infatti in questo romanzo un termine chiave, in quanto anche concetto fondamentale al termine delle atrocità a cui la popolazione europea ha assistito nel corso della Seconda Guerra Mondiale e, in generale, di tutto il secolo che all’epoca della pubblicazione stava per finire. L’idea di ricordare affinché questi avvenimenti non si ripetano mai più è un mantra che si mantiene fino ai giorni nostri, eppure si può essere certi del fatto che questo auspicio non si sia realizzato com’ era stato inteso. L’autore è consapevole di questa mancata rielaborazione della memoria e intende mostrare una critica a questa idea di ricordo, che funziona in maniera pressapochista, con metodi che rimangono semplici parole e spesso non vengono applicati. Si spiega in questo modo la decisione di isolare Moor e trattare in suoi abitanti in modo duro: a detta dei vincitori, è necessario che i luoghi designati facciano espiazione della colpa del proprio paese e siano in tal modo un esempio per non dimenticare le ingiustizie che hanno provocato. Devono fungere da monito perché ciò che è accaduto non si ripeta, come avviene ad esempio con il servizio fotografico annuale che si tiene presso la cava di pietra: in un macabro anniversario, gli abitanti di Moor devono posare come se stessero trasportando pesanti sacchi e mostrarsi distrutti. Tutto questo sotto all’iscrizione che si trova all’entrata della cava di granito:

QUI GIACCIONO

UNDICIMILANOVECENTOSETTANTATRÈ MORTI

UCCISI

DALLA POPOLAZIONE DI QUESTO PAESE

BENVENUTI A MOOR” (Ransmayr 1997: 27–28)

Gran parte del romanzo si concentra proprio sulla vita all’interno del paese di Moor, come se fosse una grande prigione continuamente osservata dall’esterno per ricordare la punizione a chi si comporta in maniera non rispettosa delle regole imposte. La questione che ci si pone è quanto sia effettivamente efficace questa punizione. Risulta al contrario evidente come l’assoggettamento ai vincitori non porti nulla se non astio per chiunque abbia del potere, in primo luogo astio verso Ambras per il suo potere politico e fisico. La risposta della popolazione alle imposizioni non è tuttavia comprensione degli sbagli compiuti anche verso di lui, ma piuttosto odio nei suoi confronti. Questo odio si trasmetterà poi anche su Bering, il dotato figlio di un fabbro e inizialmente innocente. La sua dote è infatti quella di cavarsela con la meccanica, qualità che lo potrebbe rendere una risorsa per la cittadina; in un primo momento gli viene chiesto aiuto da parte di diversi abitanti. Tuttavia, egli non mostra alcun interesse ad aiutare la città, rinchiudendosi anzi con Ambras a Villa Flora, che per lui è rifugio e paradiso.

I pensieri di Bering si concentrano quindi su se stesso, a sottolineare come l’isolamento e la punizione lo abbiano fatto crescere con l’idea di dover godere di quello che ha, senza combattere per altre persone. Quello creato da Ransmayr è un mondo in cui nessuno sceglie di aiutare il prossimo e questa condizione porterà anche lo stesso Bering ad essere vittima e fautore della violenza, anche involontariamente. A rappresentare questa discesa verso la violenza si trova il morbo Kitahara, la malattia del titolo, che si manifesta attraverso una macchia costantemente presente sull’occhio sinistro di Bering dal momento in cui compie il primo vero atto di violenza. Non mostrando compassione per il destino delle altre persone ripete proprio ciò che è successo durante la guerra. Come chi lo ha preceduto, non riesce a fare della sua esperienza una risorsa e, per l’appunto, a rielaborare quanto visto e criticato. E questo è ciò che succede, presumibilmente anche secondo il pensiero di Ransmayr, alla popolazione europea a lui contemporanea. L’analisi del passato e del ricordo all’interno dell’ambito letterario mostra quindi come Morbus Kitahara possa non essere tanto un punto di partenza per un dibattito quella questione del ricordo, bensì il prodotto di un dibattito sui concetti di memoria e rinascita già presente in quegli anni. Si tratta di un dibattito sul presente che porta ad un ripensamento anche del passato, in quanto il modo in cui si desidera mostrare il primo condiziona quello che si racconterà dell’ultimo. Queste considerazioni sono in effetti riscontrabili ne Morbus Kitahara poiché l’effetto della sofferenza di Moor sul mondo esterno, come i protagonisti scopriranno nel corso della vicenda, è nullo. Una volta riusciti a uscire da Moor per portare il padre di Bering all’ospedale di Brand, la scoperta dell’esterno è infatti scioccante per Bering e Lily:

E dove erano le lapidi? I monumenti commemorativi? Le iscrizioni? Qui si faceva sfoggio di facciate rivestite di eterna, levigatissima roccia, ma non erano certamente questi i templi alla memoria, che il segretario di Moor evocava nei suoi discorsi celebrativi – e non contenevano le candele e le fiaccole e neppure i blocchi con i nomi incisi con lo scalpello e le lapidi commemorative con le massime del messaggero di pace, come si vedevano nelle case di culto della regione del lago. Sa il diavolo che cosa contenevano quei palazzi, quelle casseforti, quei depositi di merci, quei casinò, quei bordelli dell’esercito e chissà che altro…” (Ransmayr 1997: 238)

Non vi è traccia a Brand dei monumenti alla memoria, non c’è nulla che ricordi alla gente la brutalità di ciò che è stato e la punizione che stanno subendo a Moor e forse anche in tanti altri luoghi. Non vi è alcun tipo di ricordo e ai due ragazzi che si avventurano per le strade della città appare improvvisamente inutile tutto il contesto in cui vivono, le belle parole che si mettono in bocca i comandanti per sfruttare un paese che ha la colpa di aver ospitato dei criminali.

E la reazione di Bering è infatti la seguente:

‘Mai dimenticare Non devi uccidere.’ Bravo! Nelle comunità di espiazione quegli stupidi ripetevano simili comandamenti come pappagalli per ore e ore e se li trascinavano sui campi ricamati sugli striscioni, mentre sulle facciate di Brand scorrevano le scritte luminose con gli slogan della pubblicità. A Moor c’erano le rovine. A Brand i grandi magazzini.” (Ransmayr 1997: 239)

Alla luce di tutto ciò, ci si deve quindi domandare cosa sia davvero il concetto di “memoria” in questo romanzo. La conclusione a cui si può arrivare è che la memoria sia principalmente un concetto che viene subito. Ci sono infatti due principali gruppi di personaggi caratterizzati dal subire la memoria e il ricordo in questo libro. Prima di tutto i giovani, che non hanno esperienza della guerra e dovrebbero per questo simboleggiare la possibilità di un nuovo inizio, di imparare e correggere il mondo attorno a loro. Tuttavia, come si vede nel romanzo, questa possibilità viene totalmente cancellata per loro, vittime della guerra ma anche capro espiatorio, costretti a subire la punizione dei genitori. Bering e Lily appartengono a questa generazione e nessuno dei due riuscirà infatti a far nascere qualcosa dalle macerie in cui sono nati.

Gli anziani sono invece coloro che hanno fatto esperienza della guerra e che per sempre saranno seguiti da questi ricordi. Ne fanno parte Ambras, che vede nell’assoggettarsi al padrone e nel sottomettere i più deboli l’unica sua possibilità di vita, e il padre di Bering. Quest’ultimo mostra segni di malattia tanto da portare Bering e Lily ad accompagnarlo all’ospedale di Brand per le cure. Egli è perseguitato dalle immagini della guerra in una malattia che è realizzazione della condanna decisa dai vincitori. Appare come una punizione divina: il continuo ricordo delle atrocità commesse e subite lo insegue ovunque. Anche in questo caso si tratta di ricordo che non porta ad una nuova possibilità.

Di fronte all’ingiustizia che riguarda anche il proprio genitore, in una comune distopia sarebbe un probabile sviluppo una ribellione da parte del figlio, ma Bering ha ottenuto una posizione privilegiata nella villa di Ambras e – uscendo dalla condizione di povertà – decide di seguire i propri interessi e le proprie volontà. In questo modo egli risulta essere sia vittima che artefice della violenza di Moor. La falsa parabola della memoria si manifesta qui in maniera chiara: il ricordo è solo una facciata di fronte alle atrocità dei conflitti e un modo per lavarsene le mani. I vincitori vogliono ripartire senza davvero fare i conti con il passato.

All’interno di questa rielaborazione del passato si inserisce anche un discorso sulla memoria riguardante l’autore in sé, che pur non avendo vissuto quel periodo ne parla, inserendovi scene anche disturbanti, come il ricordo della tortura di Ambras e il destino a cui è condannato. Parlare per personaggi che rappresentano un’intera generazione è da sempre una questione delicata e Ransmayr è consapevole delle difficoltà dell’affrontare in maniera adatta queste tematiche. La modalità che decide pertanto di mettere in pratica è l’intertestualità, basando interi passaggi della sua opera su testi originali e seguendo idee filosofico–sociali che partono da questi avvenimenti. Il brano che parla della tortura di Ambras è ripreso infatti dalle lettere di sopravvissuti alla stessa tortura nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale. L’autore in questione è Jean Amérie e l’opera è Die Torture (“La tortura”, 1966). L’uomo, un ebreo di origine austriaca scappato in Belgio e partecipante ai movimenti di resistenza, venne catturato nel 1943, torturato dalla Gestapo e deportato ad Auschwitz, ma sopravvisse e venne liberato nel 1945. Riferendosi al suo periodo di prigionia, Amérie descrive una delle torture a cui lui stesso era stato sottoposto e questa descrizione appare in tutto e per tutto simile a quella descritta da Ransmayr nel raccontare le pene di Ambras durante il suo periodo nel lager di Moor da prigioniero durante la guerra. Allo stesso modo la sua fine, determinata da un suicidio in seguito alle allucinazioni date dal ricordo, altro non è che la conseguenza diretta di un disagio dato dal corpo e trasferito alla mente. In questo Ransmayr pare rifarsi alla fenomenologia francese, nello specifico al filosofo Maurice Merleau–Ponty, secondo cui sensazioni fisiche e mentali sono interconnesse e la memoria stessa – come l’esperienza – non è un fatto unicamente mentale, bensì anche e soprattutto fisico. Questo concetto di interconnessione e di pervasività della memoria è riscontrabile nella totalità del romanzo nell’intreccio che vede i personaggi immergersi in un eterno ritorno, ma anche facendo riferimento alla stessa malattia del titolo. La sua apparizione in occasione del primo sfoggio di violenza da parte di Bering rappresenta come a un cambiamento dell’anima – la realizzazione della violenza – corrisponda un cambiamento fisico, ovvero la macchia davanti agli occhi. Non vi è bisogno di una malattia che renda visibile agli altri la tendenza alla violenza, dato che si tratta di una condizione ritenuta comune e normale a Moor. Chi deve rendersi conto della propria discesa verso prepotenza e aggressività è l’individuo stesso artefice della violenza.

Il pubblico si aspetterà alla fine del libro che questa malattia venga curata – infatti a Brand si trova anche un medico in grado di trattare il morbo – e che ciò possa condurre ad un miglioramento della condizione di Bering e di Moor. In realtà, nessuno tra i tre protagonisti metterà in pratica alcun atto di ribellione, né di fronte alla rivelazione dell’inganno della propaganda, né di fronte al riconoscimento della misera condizione in cui versano i rapporti con il prossimo. La terra di Moor continuerà a rimanere in una condizione di stasi, impossibilitata a tornare alla condizione precedente, ma anche a proseguire, poiché non c’è sviluppo, non c’è possibilità di andare avanti senza analisi del passato.

Il tratto distopico che si riconosce in questo romanzo è proprio l’impossibilità di una rielaborazione della memoria e della conseguente riappropriazione di un’umanità che doveva essere l’obiettivo dei trattati di pace al termine della Seconda Guerra Mondiale. Ransmayr critica i risultati ottenuti, rendendo chiaro come le mosse effettuate dai vincitori non siano servite a insegnare ai popoli colpevoli, dato che non viene data loro occasione di riabilitarsi. Nemmeno ai vincitori questa decisione è stata o sarà d’aiuto, poiché non ha insegnato loro ciò che è accaduto e questi popoli rimarranno destinati alla convinzione di essere nel giusto, rappresentanti del “Bene”.

 

 

Bibliografia:

Christoph Ransmayr, Il morbo Kitahara, Milano, Feltrinelli, 1997. Traduzione di Stefania Fanesi Ferretti.

Attila Bombitz, “ „… und [sie] schreiten einzeln ins Imaginäre“ Zum Roman Morbus Kitahara von Christoph Ransmayr”, in Idem (ed.), Spielformen des Erzählens. Studien zur österreichischen Gegenwartsliteratur, Wien, Praesens Verlag, 2011, pp. 89 – 101.

Sławomir Piontek, “Christoph Ransmayrs Morbus Kitahara und die (Un–)möglichkeit einer Erinnerungskultur”, in Attila Bombitz (ed.), Bis zum Ende der Welt. Ein Symposium zum Werk von Christoph Ransmayr, Wien, Praesens Verlag, 2015, pp. 107 – 116.

 

Sitografia:

Daniela Henke, “Commemorating the Unexperienced: The Strategical Function of Jean Améry’s Memories in the Postmemorial Novel Morbus Kitahara by Christoph Ransmayr”, in Status Quaestionis, Vol. 1, No. 18, 2020, pp. 53 – 56. https://doi.org/10.13133/2239–1983/16833 (ultima consultazione: 17/12/2023)

 

Apparato iconografico:

Immagine 1: https://de.wikipedia.org/wiki/Christoph_Ransmayr#/media/Datei:Vienna_2013–04–12_’Hauptb%C3%BCcherei’_–_Christoph_Ransmayr_reading_048.jpg

Immagine 2: https://www.fischerverlage.de/buch/morbus_kitahara/9783100629081