Quando essere straniera rimaneva inevitabile: “Il colore della melagrana” di Anna Baar

Silvia Girotto

Con la fine del 2023 la casa editrice Voland offre al pubblico italiano la traduzione, ad opera di Paola Del Zoppo, del primo romanzo della scrittrice di lingua tedesca Anna Baar, di origini balcaniche. Quello che la scrittrice presenta è un romanzo la cui potenza risiede nel saper trasmettere la sensazione di estraneità da cui è colpita la sua protagonista e che si rivela, tuttavia, essere rappresentativa di un concetto che si espande oltre il singolo.

Nata a Zagabria nel 1973 e vissuta per molto tempo in Austria, tra Klagenfurt e Vienna, Baar pubblica nel 2015 Die Farbe des Granatapfels, tradotto in italiano da Del Zoppo come Il colore della melagrana. Una precedente traduzione di un estratto del libro era stata presentata all’interno dell’antologia Quarantadue scrittori e scrittrici dell’Austria di oggi, edita Artemide Edizioni e curata dal professor Giovanni Sampaolo. L’autrice austriaca era stata inserita nell’elenco delle voci di rilievo del volume in quanto rappresentativa di un paese che si mostra da sempre luogo di incontro dal punto di vista culturale e linguistico. Andergraund Rivista ha avuto occasione nel 2023 di intervistare la scrittrice proprio in relazione al suo inserimento nel volume e al suo romanzo Die Farbe des Granatapfels. Nel 2022 è stata riconosciuta l’importanza in ambito culturale austriaco di Anna Baar con il conferimento all’autrice  Großer Österreichischer Staatspreis, il più alto riconoscimento conferito in Austria ad artisti ed artiste attivi nei campi della letteratura, della musica, dell’architettura e delle arti figurative.

Link al libro: https://www.voland.it/libro/9788862435369


Nelle parole di Ana, protagonista e narratrice de Il colore della melagrana che vive le estati su un’isola dalmata con la nonna, non si può non riconoscere fin dall’inizio il tratto autobiografico della stessa autrice, che allo stesso modo ha trascorso periodi della sua infanzia sull’isola di Brač, anch’essa situata in Dalmazia. La consapevolezza di questa caratteristica permette al pubblico di apprezzare in modo ancora più intenso la scrittura di Baar, che farà della ben conosciuta dicotomia Ex Jugoslavia/Austria uno dei contrasti più affascinanti all’interno del romanzo e da cui partiranno le innumerevoli dualità che caratterizzano la storia di Ana e soprattutto della “nona” Nada, secondo centro di questa narrazione.

Il primo importante contrasto riscontrabile nel testo è proprio quello rappresentato da Nada, la nonna, un personaggio che ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale e sopportato l’occupazione fascista. Ciò ne ha fatto una donna orgogliosa nella sua autonomia di azione e pensiero, oltre che nel sistema educativo, altamente contraddittorio per la piccola Ana: psicologicamente spinta ad ammettere il suo amore per la nonna, la bambina non può affermare di avere nostalgia dell’“altra casa”, affogando metaforicamente nella lingua della nonna materna. La relazione che si intreccia tra le due si alterna fra il rispetto, la necessità di evasione e quella di ammettere la dipendenza l’una dall’altra. La bambina ricerca infatti nella nonna la protezione tipica della sua età, mentre l’anziana donna cerca disperatamente, ma sempre con orgoglio, di mantenere saldo il legame tra Ana e la sua origine, quella di bambina nata nei Balcani e poi colonizzata dai nijemci, i tedeschi che intendono opprimere la sua vera identità.

La dicotomia tra culture si lega a doppio filo alla dicotomia tra lingue: Ana parla con la nonna serbo-croato, ripescandolo a fatica dalla propria memoria nel momento in cui sbarca sull’isola, mentre si esprime in un tedesco affettato nella casa a Vienna. La dualità della sua lingua e della sua cultura è motivo spesso di disagio nelle interazioni con Nada, che non tollera il genero o il suo modo di vivere e che mostra nella smania di avere per sé la bambina una necessità di affermazione:

In generale, in tutti i suoi sforzi, l’intenzione era quella di spianare la strada alla bambina, aprirle una strada che l’avrebbe avvicinata a lei, o che quantomeno non le avrebbe permesso di sfuggirle nelle maniere e nei modi di pensare del mondo del padre: una strada che l’avrebbe portata ad appartenere davvero a lei, perché ogni volta che le veniva restituita, che la veniva prestata, solo per l’estate, ci voleva più tempo perché la sua lingua, che era stata sbranata dall’altra lingua, si sciogliesse, perché si spogliasse di calzini inutili e scarpe troppo calde e smettesse di sapere di erba e sapone in polvere e dell’eau de cologne del genero.” (p. 35)

Nada si pone all’interno dell’intreccio come unico legame tra la bambina e la sua terra d’origine e in quanto tale si contrappone nettamente a tutto ciò che potrebbe ricordare ad Ana la sua vita in Austria; le stesse regole della società non valgono per Nada, che svolge ogni mansione a modo suo, senza tenere conto delle implicite ed esplicite norme che regolano la vita sociale:

E come lascia che la zuppa le coli sul mento quando mastica e intanto parla, e come ride con la bocca ancora mezza piena, spalancandola, e tutto si scioglie nel terzo movimento dell’allegro per pianoforte che il padre suona continuamente. (p. 55)

L’incontro tra serbo-croato e tedesco sarà per gran parte della vita motivo di straniamento per Ana, che ha chiara visione dell’astio nei confronti di tedeschi e austriaci da parte della nonna, che dal canto suo non si impegna per celare i propri sentimenti. La difficoltà della piccola Ana nel trovarsi davvero a proprio agio nelle due lingue la pone ad interrogarsi sulla propria identità, una tematica che verrà riproposta dall’autrice in numerosi passi e in diversi ambiti.

Tra questi spicca la questione dell’identità sessuale, con un marcato rifiuto dei tratti sessuali primari e secondari femminili da parte di Ana che si manifesterà dall’infanzia – con i maldestri tentativi di adattare il proprio corpo a quello dei compagni maschi – fino all’adolescenza e alle punizioni personali per minimizzare le proprie sembianze femminili, tentando di rendere accogliente il suo corpo in mancanza di un rifugio adatto alla mente, in costante dicotomia tra maschile e femminile. Io però non voglio questo corpo (p. 158) appare come un mantra ossessivo che la protagonista riversa in ogni pagina, in una costante tristezza della sua condizione di ibrido, a metà tra due realtà che appaiono inconciliabili.

Dal punto di vista linguistico quella che nel libro viene definita “la lingua della madre” (e quindi di Nada) è la lingua della terra, delle estati a piedi nudi sull’erba, dei giochi con gli altri bambini sporcandosi di terra, ma anche delle costanti richieste di attenzione e di amore della nonna. “Chi è la luce dei miei occhi?” è la domanda costantemente posta da Nada ad Ana, un’implicita accusa alla nipote di preferire la terra del padre, e delle persone malvagie, all’amore della nonna. La lingua della madre è il luogo degli affetti e delle origini, ma anche con la complicità del suo valore economico e politico finisce per essere un elemento folkloristico agli occhi della bambina, quasi spaventoso per certi versi nella stereotipata immagine che ne hanno gli esterni, tanto da diventare sinonimo di insicurezza. Si tratta di una lingua vissuta solo alcuni mesi l’anno, ferma nello spazio e piegata in un tempo che pare non scorrere per la bambina, come Nada stessa, che rifiuta il passare degli anni rivendicando con orgoglio la propria autonomia. Per tale motivo Ana ha difficoltà a riconoscersi ogni estate, anno dopo anno, nella lingua e nel contesto dell’isola, cercando continuamente un riparo nel conosciuto:

Avrei voluto essere di nuovo al riparo nella lingua del padre, che usciva più facilmente dalle mie labbra rispetto alla parlata di Nada, nella quale mi sentivo a mio agio e cantavo e imprecavo, ma non era cresciuta insieme al mio spirito e che mi rivelava subito come straniera, con la mia ʀ aspra e gutturale.” (p. 166)

Lo straniamento di Ana rispecchierà un disagio che si amplia oltre la sua persona, quello di intere famiglie e innumerevoli singoli individui. Non solo di coloro che provengono dai Balcani in seguito al secondo conflitto mondiale e alla guerra degli anni Novanta, ma anche di coloro che in tutto il mondo si vedono costretti ad incasellarsi in un contesto non proprio, a cui uniformarsi per compiacere, ma riconoscendo in tutto ciò un inganno. La stessa Ana offre infatti al pubblico rappresentative descrizioni di questo sentimento nella madre, che prima di lei aveva cercato il conforto di una realtà che non le apparteneva, e nei riferimenti a coloro che emigrano dai Balcani cercando rifugio in Austria. In questo modo Baar ottiene la rappresentazione di una forma di difficoltà riconoscibile oggigiorno in una realtà, quella europea, fortemente caratterizzata dal viaggio e dallo scambio di idee e culture, che mostra allo stesso tempo la ricchezza dell’incontro ma anche l’impossibilità di un inserimento che sia privo di rischi, paure e difficoltà. Essere una straniera rimaneva inevitabile, sia qui che là […]” (p. 174) afferma Ana.

Infine, il costante e persistente confronto qui presentato è argomento dell’accurata postfazione a cura di Paola Del Zoppo, intitolata La terra del padre e la terra della madre. La traduttrice de Il colore della melagrana osserva infatti questa continua condizione di ambiguità ed estraniamento tra il contrasto isola/Austria, le lingue parlate, il processo di sviluppo e di presa di coscienza della protagonista. Il lungo percorso di accettazione della propria identità, non del tutto disvelata, passa in modo particolare attraverso i confronti e le difficoltà di incasellamento in una lingua o nell’altra, in una complessità efficacemente spiegata da Del Zoppo. Il testo riporta infatti in lingua serbo-croata gli stessi passaggi che nell’originale lo sono, in modo da garantire al pubblico lo stesso senso di inadeguatezza e dubbio che si vuole conferire ad Ana. Una scelta sostenuta dall’assenza di traduzioni a piè di pagina, anche se a volte il concetto viene riproposto con un adattamento anche nell’originale tedesco, in modo che lettori e lettrici siano costretti ad indovinare la situazione. Immedesimarsi in Ana e provare la sensazione di non comprendere davvero il romanzo si rivela la modalità dell’autrice di far comprendere come sia difficile, quasi impossibile, pensare di poter davvero penetrare del tutto il significato delle vite altrui. Impossibile è anche muoversi agilmente tra le righe di questo intreccio, sapientemente creato da Baar per esplicitare una condizione di ibrido che dura una vita e da cui il pubblico, al pari della protagonista, non potrà uscire.

 

Apparato iconografico:

Immagine 1: https://www.voland.it/libro/9788862435369

Immagine 2: https://www.wienerzeitung.at/nachrichten/kultur/literatur/2104887-Um-sich-kreisende-Erzaehlungen-Nil-von-Anna-Baar.html