La realtà nella finzione. “Stepne” di Maryna Vroda

Viktor Toth

 

Un ritorno, un funerale. La premessa di Stepne ricorda molto altri film del cinema ucraino recente: Dodomu/Evge (“Homeward”, 2018 di Nariman Alijev, o il documentario Cej došč nikoly ne skinčyt’sja (“This rain will never stop”, 2020) di Alina Horlova. Se in entrambi i casi il viaggio dei protagonisti li conduce in paesi stranieri, verso oriente, nel film di debutto di Maryna Vroda la destinazione è la regione di Lebedyn, vicina alla regione di Charkiv, ma lontana abbastanza, almeno nell’arco temporale del film, dai bombardamenti. Stepne (2023) - IMDb

Per vedere il trailer: https://www.locarnofestival.ch/en/program/archive/film/stepne?fid=18800962-9f85-4a5e-9a8d-3225857f2312&l=en&eid=0


In un ambiente rurale che sembra fossilizzato, tra case isolate fra loro arredate da mobili vecchi di decenni, ornate di souvenir e ricordi polverosi, abitate da persone anziane quasi completamente abbandonate a sé stesse, Stepne sembra più interessato a documentare e mostrare, che narrare. Un racconto quasi nullo, con lo scheletro di una trama, che può essere riassunta nel modo seguente: Anatoliy ritorna ad assistere la madre in fin di vita. La realtà che si cela tra i rovi di Lebedyn è sospesa nel tempo, tant’è che sono pochi i dettagli che permettono di collocare il film nell’era successiva al Majdan – tra i quali, una conversazione del protagonista con un anziano della zona, nella quale entrambi esprimono una certa diffidenza nei confronti di “queste rivoluzioni dei giovani”. 

Durante il funerale che costituisce il fulcro centrale dell’opera, e la cena conseguente, Maryna Vroda chiarisce ulteriormente ciò che rende interessante il soggetto del film: alcuni anziani si dilungano nel raccontare aneddoti del proprio passato, e si scopre che alcuni di loro sono di etnia russa, trasmigrati durante l’era sovietica per lavoro o in seguito al servizio militare. L’ambiente di Stepne è profondamente legato ed influenzato dalla passata occupazione sovietica, da qui il senso di paralisi, di “vecchiaia” che permea nel film. 

Ulteriore indizio è dato dal nome di uno dei produttori del film: Peter Kerekes, il regista di Cenzorka (“107 Mothers”, 2021). Kerekes è un documentarista slovacco di origini ungheresi che con Cenzorka (anch’essa co-produzione slovacco-ucraina) ha scavalcato nel territorio del cinema di finzione, ma non senza mantenere le sue radici documentaristiche. Nel film Cenzorka, vincitore del premio alla migliore sceneggiatura della sezione Orizzonti a Venezia nel 2021, al film di finzione si mescola la presenza di molti attori non professionisti che interpretano sé stessi o che raccontano eventi personali realmente accaduti. Difficile non notare la somiglianza con la scena del funerale di Stepne. Se è palpabile l’influenza di Kerekes, è altrettanto importante notare che Stepne mantiene una sua autonomia formale, se non altro per le scelte di fotografia, maggiormente scenografiche.

Maryna Vroda, con il suo debutto, si inserisce in una tendenza cinematografica che si sta lentamente solidificando in Est Europa che esplora i confini tra realtà e finzione, presentando opere che non rientrano nel documentario ma che spesso cercano di includere frammenti di realtà nella loro narrazione. Altri esempi recenti, oltre al già citato Kerekes, sono Chleb i Sol (“Pane e Sale”, 2022) di Damian Kocur e Sigurno Mjesto (“Safe Place”, 2022) di Juraj Lerotić.