Intervista a cura di Giulio Scremin
Abstract:
Living on different planes at once. A conversation with Margo Rejmer
This paper contains a conversation with Margo Rejmer, following the reading and review of Bucharest. Dust and Blood. The author answers some questions about the text, her work, her travels, and some socio-historical considerations. Core parts of the conversation are how the author perceives her job as a writer and reporter and a reflection on decree 770 in relation to the recent Polish abortion debate.
L’intervista e la traduzione italiano-polacco / polacco-italiano sono a cura di G. Scremin. Si ringrazia l’autrice Margo Rejmer per la sua disponibilità e la possibilità concessaci.
GS: Bucarest. Polvere e sangue, la sua prima opera di reportage letterario, esce dopo il suo debutto con il romanzo Toximia. Dopodiché pubblica un secondo reportage, Fango più dolce del miele , sull’Albania, attualmente in traduzione italiana per Keller Editore. Quale percezione ha di sé e del suo lavoro? Si sente più reporter o più narratrice?
MR: Mi sento prima di tutto scrittrice, o meglio inventrice di storie e raccoglitrice di racconti. La decisione di cominciare a scrivere reportage è stata in qualche modo pragmatica. Dopo Toximia sentivo di non avere più nulla da raccontare, mi era morta l’immaginazione, ma avevo ancora voglia di scrivere, di conoscere persone e luoghi nuovi. Lo dico con una certa nostalgia, perché è passato un decennio e sono diventata una persona molto più stazionaria, gestisco le energie in modo diverso. Ma allora, tredici anni fa, quando ero partita per Bucarest, ero molto avida di vita e non mi consumavo così in fretta come adesso. Le storie mi arrivavano da sole perché i romeni erano estremamente generosi nel condividerle. Era facile stringere amicizia con loro e ricevere qualche storia.
Amo questa spaccatura tra mondi, il fatto che la vita possa svolgersi su diversi piani contemporaneamente. Sono completamente protesa sul piano polacco, radicata in esso a causa della lingua, ma oltre a questo vivo anche su altri due piani, quello romeno e quello albanese. Tutti questi piani insieme formano la persona che sono.
GS: In Bucarest convive una moltitudine di stili narrativi. Da dove viene l’idea di raccontare la Rivoluzione romena del dicembre 1989 come dramma in cinque atti?
MR: Avevo la sensazione che la morte di Ceaușescu e la rivoluzione fossero miti fondativi della Romania post-trasformazione, ma erano sfilacciati, pieni di buchi, con finali differenti. Mi sono messa più volte a scrivere il racconto della rivoluzione, ma come può uscire un racconto efficace da un coro di voce cacofoniche?
Ogni persona mi raccontava cose diverse, ognuno ricordava quei momenti a modo suo, a volte basandosi su teorie del complotto. Le uniche cose oggettive nel racconto della rivoluzione erano la data e l’ora in cui Ceaușescu era uscito sul balcone per rivolgersi al popolo. Le persone la raccontavano non basandosi sui fatti, ma sulle emozioni.
A dire il vero non mi interessava scrivere un racconto strettamente storico, che relazionasse gli eventi e raccogliesse i fatti. Mi interessava come la Grande Storia influisce sulla persona e sulla società. Bucarest è la storia degli stessi romeni, della loro consapevolezza e inconsapevolezza, per questo ho usato le convenzioni del dramma e del coro, per catturare la polifonia del discorso e questo caos narrativo in tutta la sua soggettività. Volevo pensare a come le persone ricordano il passato e perché lo ricordano nel modo in cui lo ricordano.
GS: Uno dei capitoli più densi è dedicato alla narrazione del famigerato decreto 770, con cui nella Romania di Ceaușescu si è completamente vietato l’accesso all’aborto e alla contraccezione. Il dibattito sui diritti riproduttivi è quantomai attuale a livello mondiale. Quali somiglianze e quali differenze vede tra i presupposti che hanno portato all’introduzione del “decreto” in Romania e le proposte di limitazione del diritto all’aborto in polonia, che negli ultimi anni hanno portato in piazza migliaia di donne?
MR: Il capitolo sull’aborto clandestino in Romania è probabilmente il testo più popolare che io abbia mai scritto, citato dai media polacchi ogni volta in cui il governo di destra iniziava le sue macchinazioni sull’aborto. Per anni in Polonia la legge è stata tale per cui era possibile interrompere la gravidanza quando questa era sopraggiunta a causa di uno stupro, se metteva in pericolo la vita della donna o se il feto presentava gravi malformazioni. Nel 2020, dopo quattro anni di discussioni, si è deciso che l’interruzione di gravidanza a causa di malformazioni del feto è incostituzionale, ma già prima di questa decisione le donne polacche scendevano regolarmente in piazza, pretendendo che il governo le lasciasse in pace.
Nella Romania comunista, Ceaușescu era ossessionato dalla procreazione e dalla fertilità: nel 1966 introdusse un decreto con cui si permetteva di abortire solo alle donne che avessero dato alla luce almeno quattro figli, e che rendeva estremamente difficile l’accesso ai contraccettivi. Nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro venivano svolti controlli regolari e ufficiali dei corpi delle donne per verificare che nessuna tentasse di nascondere una gravidanza. Si era sviluppato anche un sistema di aborti in clandestinità parallelo a quello statale, fondato sulla solidarietà e sulla cooperazione tra donne, intermediari, medici e persone che praticavano aborti in casa.
Questo è stato per alcuni anni l’inferno delle donne in Romania, e ora la storia sta cominciando a ripetersi in Polonia. Commentando il testo, le persone si chiedono quanto sia lontana la situazione polacca dall’esperienza romena, se stiano cominciando a morire delle donne polacche a causa dell’ossessione del governo e per quale motivo il governo stia condannando le donne all’umiliazione e alla sofferenza. In Romania gli aborti clandestini hanno causato la morte di migliaia di donne; in Polonia, a causa della lentezza e della negligenza dei medici che hanno ritardato l’esecuzione dell’aborto, finora sono morte tre donne. Addirittura tre.
In Romania e in Polonia le decisioni dei politici hanno avuto lo stesso effetto: le politiche pro-famiglia del potere sono state talmente efficaci che il tasso di fertilità è crollato in maniera significativa. Nella Romania comunista le donne non avevano più nessuna voglia di fare figli, nella Polonia di oggi le donne hanno paura di rimanere incinte, paura che è ben visibile nelle statistiche.
GS: Polonia, Albania, Romania, tutti questi paesi condividono un passato di repubblica popolare socialista. In cosa questo passato comune è ancora presente in questi paesi?
MR: Più la trasformazione è deludente, più cresce la nostalgia per il passato e per il sistema precedente. In Polonia è relativamente blanda, perché il mito di Solidarność e la percezione del sistema comunista come un circo assurdo ed esagerato gestito da scimmie incompetenti è molto forte nella memoria collettiva. D’altra parte, però negli ultimi tempi siamo inondati di film e serie tv in cui i tempi della PRL (Polska Rzeczpospolita Ludowa) vengono presentati come attraenti e colorati, completamente diversi da quelli dei ricordi dei nostri genitori, che raccontavano di una realtà piena di tribolazioni, bruttezza diffusa e grigiore.
In Romania e Albania, la convinzione che “il presente è così terribile che le cose in passato dovevano essere migliori” risuona molto più forte che in Polonia. Da anni in Romania cresce la nostalgia per il periodo di Ceaușescu, che pur avendo i suoi difetti aveva a cuore la dignità dei cittadini e l’onore del paese nella comunità internazionale. “Per lo meno avevamo qualcosa di cui andare fieri”, dicono i Romeni. In Albania, paese che ha subito la forma peggiore di regime comunista, il cosiddetto “stalinismo albanese”, è paradossalmente viva la convinzione che Hoxha fosse sì un padre duro e severo, ma che amasse il suo paese al di sopra di tutto, a differenza dei politici di oggi, che senza esitazione rubano quello che possono, sono coinvolti nella criminalità organizzata e mandano i propri figli a studiare all’estero. Ho la sensazione che in Albania ognuno ricordi il passato a modo proprio o ripete quello che sente in casa, ma la memoria è illusoria e inaffidabile. Ecco perché alcuni dicono che l’Albania comunista era pulita e sicura, mentre altri dicono che era una prigione e un inferno totalitario.
Inoltre, sia in Romania che in Albania, la classe dirigente proviene dagli ex partiti comunisti, quindi non ha alcun desiderio di discutere del passato e di chiedere conto al sistema precedente, e le istituzioni statali non sono interessate a tenere un discorso sul passato. In Polonia è diverso, l’attuale classe dirigente proviene da oppositori del comunismo, perciò da noi non c’è dubbio su chi siano stati i buoni e chi i cattivi. Il sistema ci è stato imposto dal nemico e doveva essere abbattuto, ed è quello che abbiamo fatto, possiamo esserne fieri. In Romania e in Albania il discorso sul passato è un fascio di narrazioni contraddittorie, pieno di silenzi, lacune, ambiguità e falsificazioni. Nessuno ha interesse politico a separare la menzogna dalla verità. Né la Securitate né il Sigurimi sono mai stati chiamati a risponderne, nonostante abbiano avuto un impatto esteso e distruttivo sulla vita delle persone.
GS: Dalla prima pubblicazione dell’opera all’uscita della traduzione in italiano sono passati ormai quasi dieci anni. In questo periodo ha avuto modo di tornare in Romania? Ha trovato delle differenze?
MR: Dalla scrittura del libro sono stata in Romania diverse volte. Bucarest si è abbellita, è più ordinata di un tempo, più amichevole. Gli ultimi dieci anni della Romania possono essere raccontati con le storie delle diverse ondate di resistenza sociale a un governo profondamente corrotto. Quando vivevo a Bucarest mi sembrava che la società fosse impantanata nel marasma, ma solo pochi anni dopo, le proteste contro la distruzione dei villaggi Roşia Montana e le manifestazioni dopo l’incendio del club Colectiv mi hanno mostrato che allora non vedevo la luce in fondo al tunnel.
Negli ultimi dieci anni i movimenti di piazza hanno portato cambiamenti nella scena politica romena, in politica sono comparsi volti nuovi, ma le élite post-comuniste rimangono ancora attaccate al potere e molti romeni votano ancora per loro. Si può avere l’impressione che ora, dopo quest’ondata di rinascita, la società sia di nuovo stufa della politica e dell’attivismo, ma i processi di cambiamento seguono un andamento sinusoidale; quindi, credo che nel lungo periodo i rumeni riusciranno a rinnovare la loro scena politica e a rimuovere dal potere i personaggi più discutibili.
GS: Come è stato il suo rapporto con il traduttore Marco Vanchetti?
MR: Può succedere che i traduttori mi contattino, si consultino con me sulle varie fasi del lavoro o mi facciano domande sul testo. Ma può anche succedere che io non abbia nessun contatto con il traduttore, e questo è stato il caso dell’edizione italiana di “Bucarest”. Ho sentito da alcuni che la traduzione è molto buona e ho visto che il libro contiene molte note del traduttore Sono convinta che Marco Vanchetti abbia fatto un ottimo lavoro.
GS: Quali sono i suoi piani per il futuro? Ha in programma altri viaggi e altri reportage, di tornare alla narrativa o magari sperimentare nuovi generi?
MR: Sto lentamente completando una raccolta di racconti ambientati in Polonia, Albania e Kosovo. Quando avrò finito, mi piacerebbe tornare in Albania per ultimare finalmente la seconda parte di Fango, Czekają nas piękne dni (“Ci aspettano giorni felici”). Ho anche un’idea su un western femminista ambientato nei Balcani, ma oltre a tutto questo vorrei anche tornare in Romania e scrivere ancora di questo paese; perché gli anni passano, ma questo paese lo sento sempre molto vicino.
Apparato iconografico:
Immagine 1: ritratto di Margo Rejmer di Katarzyna Lason (2018)
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Margo_Rejmer,_photo_taken_by_Katarzyna_Lason.jpg?uselang=it