Affrontare il passato alla ricerca della propria identità: “Freelander” di Miljenko Jergović

Federica Florio

Abstract:

Dealing with the past and national identity. The reconstruction of memory in “Freelander” by Miljenko Jergović

Focusing on the work of Miljenko Jergović, this paper examines how the representation of travels intertwines with the reconstruction of collective and individual memory in contemporary Bosnian literature. As a matter of fact, over the last decades many Bosnian writers have attempted to turn tragic historical events they had witnessed into places of memory (lieux de mémoire), in order to prevent them from falling into oblivion. Freelander (2007), one of the most complex novels written by Jergović, recounts a voyage from Zagreb to Sarajevo. The main protagonist, professor Karlo Adum, driving his old car, decides to face a long trip which will remind him of his past, his family and the history of his Country. As he will get closer to his Bosnian hometown, he will have to deal with thoughts and memories that he has tried to forget. In other words, Freelander shows how travels can give people awareness of their own story and identity.

 

Quando si pensa al panorama letterario contemporaneo dei Balcani, uno dei primi nomi che vengono in mente è quello di Miljenko Jergović, scrittore di indubbio valore e di grande fama. Come gran parte degli scrittori balcanici contemporanei, in particolar modo quelli bosniaci, è strettamente legato alla sua terra di origine e riporta nelle sue opere i drammi e gli orrori che il conflitto jugoslavo dal 1992 al 1995 ha impresso nelle coscienze dei sopravvissuti.

Miljenko Jergović è nato a Sarajevo nel 1966, città in cui ha esordito come poeta, ottenendo il premio Ivan Goran Kovačić nel 1988 a soli ventidue anni. Si è poi affermato come giornalista, drammaturgo, sceneggiatore e, soprattutto, romanziere. Le sue opere, tradotte in una ventina di lingue e diffuse in svariate parti del mondo, sono strettamente legate alla storia dell’ex Jugoslavia. Tra queste, una delle più note è Le Marlboro di Sarajevo (1994), una raccolta di storie scritte proprio mentre la guerra devastava l’attuale capitale della Bosnia-Erzegovina. Un racconto corale poetico e malinconico delle vite degli assediati, che fa della preservazione della memoria il suo filo conduttore.

Gli scritti di Jergović analizzano passato e presente con sguardo lucido, spesso soffermandosi sui rituali degli abitanti della sua città natale. Lo scopo di tale accurata analisi solitamente coincide con la necessità di riportare alla mente usi e costumi che altrimenti si perderebbero; in altre parole, l’obiettivo principale consiste nel preservare la memoria.

È indubbio che la guerra non abbia solo sconvolto gli equilibri internazionali, ma anche causato un cambiamento colossale nella coscienza collettiva. Essa ha segnato un confine invalicabile nella storia, creando un “prima” e un “dopo” che non sembrano trovare punti d’incontro, ad esclusione di un traumatico abisso di separazioni, lutti e violenze. La fuga dal proprio paese, il distacco senza preavviso da familiari e amici, la prigionia e le torture a cui migliaia e migliaia di innocenti sono stati sottoposti hanno comportato una perdita sostanziale delle proprie radici, mettendo in discussione il concetto stesso di identità. Infatti, la distruzione fisica degli edifici, nonché la perdita o la modifica radicale di simboli e monumenti nazionali, soventemente coincide con la cancellazione dei luoghi della memoria (lieux de mémoire) – espressione coniata dallo storico francese Pierre Nora – indispensabili per l’identità sia del singolo che della collettività.

La testimonianza degli orrori della guerra è fondamentale per evitare che il passato recente venga dimenticato, e con esso l’identità stessa. Nel romanzo Freelander (pubblicato in lingua originale nel 2007) la ricostruzione del passato avviene attraverso il viaggio da Zagabria a Sarajevo che il sessantenne professor Karlo Adum, vedovo e in pensione, affronta a bordo della sua vecchia Volvo. Nominato erede da uno zio che non vede da quando era bambino e con il quale non aveva un buon rapporto, si arma di pistola e si prepara all’esodo verso la capitale bosniaca, città che ha abbandonato durante l’infanzia. Karlo e l’auto si trasformano, chilometro dopo chilometro, nel simbolo della memoria stessa; al di là dei finestrini, le immagini del paesaggio si mescolano ai ricordi del protagonista, e davanti agli occhi del lettore scorre la storia della Jugoslavia, con la sua identità frammentata e con le incongruenze che sono sopravvissute alla sua caduta.

Sono proprio i dettagli più piccoli – come quelli conservatisi nella lingua – a riportare alla mente le reminiscenze più amare. Ad esempio, a mano a mano che la vecchia Volvo divora lentamente la distanza che li separa dalla capitale bosniaca, l’attenzione del protagonista viene catturata dai cartelli dei ristoranti lungo la strada, dove sono elencati i piatti del giorno e le specialità del luogo. Nonostante l’enogastronomia non si differenzi in modo così evidente tra i territori croati, serbi e bosniaci, il professore non può fare a meno di notare come una singola variazione ortografica renda quasi sconosciuto un piatto a lui ben noto:

Ogni poche centinaia di metri c’era un luogo in cui si mangiava agnello, janjetina o jagnjetina, come si diceva in quei luoghi. Quella g aggiunta gli dilaniava l’orecchio, e se non ci fosse stata, forse il professor Adum si sarebbe fermato, perché lui non aveva niente contro la carne di agnello allo spiedo, ma il suono duro di quella g conteneva in sé una minaccia, un certo tono di superiorità straniera che lo faceva desistere. […] aveva paura di coloro che ignoravano il motivo della g inserita nel mezzo, tanto quanto di coloro che provenivano dal mondo in cui quella g non era affatto di troppo. Per via di quella minima differenza linguistica erano scorsi fiumi di sangue.” (pp. 109-110)

Jergović padroneggia l’arte dello scrivere tra le righe, e questo ne è un esempio lampante. Quella g dura presente nella lingua serba, quella lettera nascosta e che spesso passa inosservata, possiede la capacità di risvegliare i ricordi più cupi e dolorosi, facendoli riemergere dall’oblio in cui il cervello li ha inconsciamente segregati. È naturale chiedersi se la quotidianità a cui il protagonista assiste non sia, a questo punto, quella di una normalità negoziata, frutto di un accurato processo selettivo in cui ricordi e realtà si amalgamano tra loro, evitando pericolose discrepanze che possono influire negativamente sulla psiche.

Quando il protagonista giunge finalmente a Sarajevo e si reca in banca per ritirare l’eredità dello zio, scopre che il codice segreto del conto – aperto presso la Banca di Zurigo – è proprio Freelander, che dà il nome al romanzo. Il motivo della scelta è fin da subito chiaro a Karlo:

“[…] là dove aveva aperto il conto, si erano trovati davanti un vecchio proveniente da un Paese sconosciuto, da una città nota soltanto perché vi era stato ucciso l’erede al trono austroungarico, e oltre a questa informazione non c’era nulla, nulla di reale o vivo […] Nessun Paese reale corrispondeva a quel vecchio, e il tempo in cui viveva scorreva parallelamente al loro tempo bancario, nei suoi documenti di viaggio erano annotati dati immaginari sulla sua nazionalità e le sue origini, l’anamnesi di uno Stato che presto sarebbe scomparso. Per questo motivo, ai loro occhi, lui era un Freelander, un apolide sin dalla nascita, colui che scomparirà senza lasciar traccia, un uomo libero da qualsiasi patria, un individuo errante senza documenti di viaggio, una rapa senza radice…” (pp. 172-173)

Se lo zio si sentiva un apolide, un uomo privo di un luogo in cui poter ricercare le proprie origini, il protagonista ne è il degno erede. Allontanatosi da Sarajevo da bambino, ha vissuto quasi tutta la vita a Zagabria, una città che oramai fa parte di un altro Paese e in cui non è riuscito a mettere radici, complice lo smarrimento derivante dalla caduta della Jugoslavia.

“Freelander”, tuttavia, ha più di un significato: esso è anche il nome di una macchina, e non è di certo una coincidenza, perché il ruolo dell’auto è centrale nel romanzo – così come in Buick Riviera (2002) e Volga, Volga (2009), le due opere che assieme a Freelander creano, appunto, la cosiddetta “trilogia dell’automobile”. Il professore e la Volvo sono uniti da un legame solido, che dura da più di trent’anni. Karlo è a dir poco affezionato al suo mezzo, che non ha mai nemmeno pensato di cambiare, perché si è sempre dimostrato affidabile e duraturo. La Volvo, alter ego del protagonista, è il simbolo della stabilità e del benessere economico raggiunto nella Jugoslavia degli anni Settanta, il fantasma di un’epoca che appare lontanissima nel tempo e nello spazio.

Il legame tra Karlo e la Volvo è così stretto che entrambi sembrano manifestare, durante la traversata Zagabria-Sarajevo, i medesimi cambiamenti. Al disagio psicologico del professore si unisce quello fisico dell’auto, provata dalle numerose ore di viaggio e dalle strade in pessime condizioni. Il mezzo, compagno fedele e all’apparenza indistruttibile, in realtà scricchiola e rivela molte incertezze: si trasforma così nella metafora perfetta della ricerca della memoria, in cui i ricordi sono costretti a rompere la dura superficie della rimozione selettiva per tornare a galla e ridare al protagonista la consapevolezza del proprio passato e della propria identità.

 

Bibliografia:

Miljenko Jergović, Ljiljana Avirović (a cura di), Freelander, Rovereto, Zandonai, 2010.

Peter Carrier, Places, Politics and the Archiving of Contemporary Memory in Pierre Nora’s Les Lieux de memoire, da Susannah Radstone, Memory and Methodology, London, Routledge, 2000, pp. 37-58.

Andrea Lešić-Thomas, Miljenko Jergović’s Art of Memory: Lying, Imagining, and Forgetting in “Mama Leone and Historijska čitanka”, in “The Modern Language Review”, Modern Humanities Research Association, Vol. 99, N. 2, 2004, pp. 430- 444.

Apparato iconografico:

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