La memoria storica tra malinconia e orrore: “I Cinocefali” di Aleksej Ivanov

Federica Florio

Nel dicembre 2020 la casa editrice Voland ha pubblicato nella collana “Sirin” I cinocefali, l’ultimo romanzo di Aleksej Ivanov. L’opera, edita in lingua originale nel 2011 con il titolo di Psoglavcy, è stata tradotta per il pubblico italiano da Anna Zafesova, nota giornalista e traduttrice.

Lo scrittore, classe 1969, non è particolarmente conosciuto in Italia. Gode, tuttavia, di fama internazionale: autore di oltre venti libri e vincitore di numerosi premi russi – tra i quali spiccano il Book of the Year, il Prose of the Year e il Tolstoy Prize –, Ivanov è stato spesso paragonato a Dostoevskij e a Čechov, tanto che molti lo considerano degno erede della grande tradizione letteraria russa. Le sue opere possono vantare diverse trasposizioni cinematografiche, tra le quali spicca Geograf Globus Propil (2013), tratto dall’omonimo romanzo del 2003.

Link al libro: https://www.voland.it/libro/9788862434102

I cinocefali è un libro dalle molte sfaccettature, difficile da definire; Ivanov mischia sapientemente più generi diversi, creando un thriller avvincente che prende i toni del genere horror e del romanzo storico. Come sottolineato dalla traduttrice nella postfazione, la trama mostra inizialmente tipici tratti fiabeschi: tre giovani moscoviti, ingaggiati da una misteriosa fondazione che opera sotto l’egida dell’UNESCO, approdano nello sperduto quanto primitivo villaggio di Kalitino, nella riserva Kerženskij. La loro missione è breve e semplice: recuperare un antico affresco, custodito in una chiesa abbandonata, raffigurante san Cristoforo con la testa di cane. Si preannuncia un lavoretto di una settimana con un ottimo compenso e i tre ragazzi, muniti di tutti i comfort tecnologici di cui potrebbero aver bisogno, si avventurano nella riserva Kerženskij con spavalderia, certi di godersi l’avventura e, soprattutto, il guadagno che ne deriverà. L’arrivo nel villaggio, tuttavia, li costringe a ridimensionare le loro aspettative: Kalitino non è un paesino incantevole, gli abitanti non accettano di buon grado l’intrusione degli arroganti moscoviti e l’affresco – chiamato Il Cinocefalo – sembra muovere gli occhi. È proprio quest’ultimo a suscitare il grave turbamento che accompagnerà i giovani – in particolare, il protagonista Kirill – lungo le strade deserte e disabitate di Kalitino. Il ritratto di san Cristoforo ha caratteristiche fisiche molto particolari: non presenta la testa di un semplice cane, ma qualcosa di strano, bizzarro, che provoca angoscia perché non lo si può ricondurre a un essere reale o, quanto meno, noto. È questa stranezza a stuzzicare la fantasia e la paranoia del protagonista:

Kirill non l’avrebbe definita una testa di cane. Era uno strano incrocio tra un luccio e un formichiere, un ibrido assurdo e ingenuo e perciò particolarmente convincente. In fondo, l’artista non avrebbe avuto difficoltà a disegnare un cane, e se aveva raffigurato qualcosa di diverso allora non voleva semplicemente appiccicare una testa canina su spalle umane, no, aveva dipinto questo mostro dal vero. Dunque, il mostro esisteva nella realtà.” (p. 27)

L’ossessione di Kirill aumenta gradualmente quando il mondo moscovita si scontra con quello della riserva. Ivanov non rappresenta la campagna come un posto idilliaco che custodisce l’anima nazionale russa. Al contrario, il villaggio di Kalitino è un luogo misero e violento, arcaico, separato sia a livello spaziale che temporale dalla civiltà. La pesante critica sociale è presente fin dai primi capitoli, e accompagna il lettore per tutta la narrazione attraverso il punto di vista del protagonista:

Questo villaggio di degenerati, questo mondo squallido: sì, esisteva davvero, ma non era necessario a nessuno, nemmeno a sé stesso.” (p. 30)

D’altro canto, Mosca appare eternamente separata dal resto della Russia. È considerata come un luogo paradisiaco e irraggiungibile, dove gli abitanti sono più moderni e razionali; in altre parole, è una città abitata da persone che si sentono superiori, perché hanno avuto molte più opportunità – non solo economiche, ma soprattutto culturali – rispetto alla provincia. Ivanov porta all’estremo questa contrapposizione, associando alla capitale l’opportunità di vivere, senza limitarsi a esistere:

“Qui, le persone camminano su due gambe, portano pantaloni e parlano, eppure continuano a vivere fermi nel tempo, come animali, e forse non è un caso se i loro antenati adoravano un uomo-bestia.” (p. 32)

San Cristoforo rappresentato con le fattezze di un cinocefalo

Il tema del conflitto tra i moscoviti e il resto della Russia sfocia nel macrotema storico. La narrazione si sviluppa nella dimensione temporale, tanto che il passato soppianta Kirill e diviene il vero protagonista del romanzo. Appare subito evidente che i personaggi ignorano del tutto la storia, perfino quella più recente. I tre ragazzi sono privi di un background russo e i loro riferimenti culturali sono di matrice esclusivamente occidentale, in particolare hollywoodiana. Il protagonista scopre la storia attraverso le ricerche in Internet, compiendo delle vere e proprie indagini e mischiando, in un grande calderone, scismatici, Gulag, zar, santi e galeotti. L’autore è molto meticoloso, in particolare, nel ricreare le vicende che fanno da sfondo alla leggenda del cinocefalo; egli richiama leggende ed episodi di lotte religiose, sciorinandoli per decine di pagine. La precisione storica incuriosisce senz’altro il lettore, consentendogli di seguire passo passo le scoperte di Kirill, i suoi ragionamenti e le successive ossessioni, che lo portano al limite del delirio. A lungo andare, tuttavia, le numerose narrazioni degli avvenimenti passati, farciti di nomi e date, si protraggono un po’ troppo e indeboliscono il ritmo del romanzo. Risulta immediato chiedersi se questo torpore non sia un effetto voluto, un modo per creare in chi legge la stessa confusione che pervade il protagonista.

La memoria storica è l’unico elemento che consente realmente di distinguere l’uomo dalla bestia. Il villaggio di Kalitino è, in un certo senso, ancora incatenato al passato, e questo legame è visibile nei resti della prigione dimenticata e nella vecchia e lenta draisina che funge ancora da mezzo di trasporto. Nonostante la presenza fisica dei “reperti”, la mancanza della memoria vera e propria e dei ricordi tramandati di generazione in generazione costringe Kalitino all’isolamento:

“Al di là del bene e del male. Fuori dal mondo. Non era una riserva, era una zona ad accesso vietato. Come quella che circondava Černobyl’. Solo che invece delle radiazioni qui c’era il degrado. Nella zona di Černobyl’ era vietato entrare per non contaminarsi, qui non si doveva entrare per non ridursi a uno stato animale.” (p. 246)

Il paragone con Černobyl’ risulta particolarmente azzeccato, in quanto dà un’idea precisa dello smarrimento che Kirill prova. Lo scontro con il suo stesso popolo e la scoperta di un passato che non è mai morto provocano nel protagonista un profondo shock. Il crollo delle proprie convinzioni diventa il nemico da cui nascondersi. Le immagini che Kirill ricrea nella mente, grazie alle ricerche sul Web, si mischiano alla realtà, plasmando un intreccio di dubbi, allucinazioni e convinzioni destinate a essere demolite. Tramite i numerosi rimandi ai film horror – rigorosamente americani – Ivanov alterna immagini visive reali e scene cinematografiche, tanto da non consentire la distinzione tra ciò che è vero e ciò che è frutto dell’autosuggestione.

A tratti sembra che il libro si cimenti in un vero e proprio elogio alla paura. Non si sa se i fantasmi e i mostri dimorino solo nella mente di Kirill o se esistano davvero. Il dubbio pervade il lettore e lo tiene incatenato a sé, costringendolo a proseguire la lettura in cerca di risposte. Il ritmo della narrazione è ben scandito e riesce ad alternare momenti frenetici e angoscianti ad altri più pacati, come a voler dare il tempo a chi legge di riprendere fiato prima di continuare la lotta contro un mondo dimenticato, offeso e che ha intenzione di vendicarsi.

 

Apparato iconografico:

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Immagine 2:

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