“Autoritratto con pianoforte russo”: la ricerca della perfezione nel caos

Silvia Girotto 

Il 18 marzo 2021 la casa editrice Voland ha pubblicato nella sua collana “Intrecci” Autoritratto con pianoforte russo, tradotto da Cristina Vezzaro. Questo ultimo romanzo dello scrittore tedesco Wolf Wondratschek è stato pubblicato per la prima volta in lingua tedesca nel 2018 con il titolo Selbstbild mit russischem Klavier presso la casa editrice Ullstein Buchverlage di Berlino.

Wondratschek, classe 1943, è noto in Germania a partire dagli anni Sessanta per la sua produzione passata dalla poesia degli inizi a un sempre crescente interesse per la prosa, con collaborazioni anche nelle vesti di autore di drammi radiofonici e come sceneggiatore. Da segnalare sono in particolare le sue raccolte poetiche, il cui tono gli ha permesso di essere definito come uno dei pochi “Rock-Poeten” di lingua tedesca. Dopo aver abitato prevalentemente a Monaco di Baviera, ora vive a Vienna.

Libro: https://www.voland.it/libro/9788862435086


Il romanzo in questione è ambientato proprio nella capitale austriaca degli anni Dieci del nostro secolo, dove si incontrano in un cafè l’anziano pianista russo Suvorin e uno scrittore austriaco, narratore il cui nome rimarrà celato al lettore per tutto il corso della storia e che potrebbe essere visto come l’alter ego di Wondratschek stesso. I due personaggi iniziano un dialogo che si protrae per diversi mesi e in cui fin dalle prime pagine è possibile identificare, da parte di Suvorin, una grande carica nostalgica verso un passato che non è stato semplice e che, tuttavia, non mancava di soddisfazioni. La musica, tema centrale di Autoritratto con pianoforte russo, è ciò che caratterizza la vita di Suvorin fin da quando questo era un bambino che imitava con le dita i movimenti sui tasti del pianoforte. Ora tutto ciò sembra essere svanito, le lezioni private che l’anziano offre sono un palliativo che può soltanto ricordargli i bei tempi in cui lui stesso si riteneva un pianista abile e devoto alla musica; ora esse non mostrano nulla se non la sua inadeguatezza a suonare ancora. Come afferma lui stesso, non ha più l’età per fare vera musica:

Molto prima di mezzanotte sono un uomo sfinito e mi accascio sul letto. Ronfo proprio quando sarebbe il momento di fare musica. Mi mancano quelle ore, come mi mancano! Mancano, quelle ore che decidevano ogni verità, le ore che erano buone con me, che mi mettevano il cervello in ordine. Anzi, nel disordine necessario. Per l’esattezza, in una specie di ordine superiore. Il tardo Schumann. Gli alcolisti russi. Quei sonnambuli notturni dei cechi. Quelle ore erano tutto, le ore di stanchezza iperattiva. […] quello che si suona prima di mezzanotte non sa di niente.” (pp. 24-25)

In questa poderosa nostalgia e nella musica di allora si è insinuato tuttavia il germe dell’insoddisfazione per il mancato raggiungimento di un perfetto incanto. La musica è per Suvorin un atto quasi mistico, che necessita di rituali e soprattutto di un momento di contemplazione silenziosa, troppo spesso rovinata dalla confusione e dagli applausi che si scatenano al termine di un’esecuzione pubblica. L’anziano pianista non sopporta l’intromissione arrogante e autoritaria né del virtuoso esecutore né del pubblico, che violano il mistero dell’arte musicale:

L’ultima nota deve ancora sfumare che subito: urla, strepiti, bravo! Non un attimo di silenzio, nemmeno mezzo secondo. Che ignoranti! Che barbari! Nemmeno ascoltano l’eco, non vi si soffermano, non sono scossi, pieni di stupore, non vi è traccia di abbandono tra gli ascoltatori.” (p. 37)

Sono proprio la nostalgia e la ricerca di un momento di comunione con la musica i principali fili conduttori di questo romanzo. A questi si accostano anche paragoni con altre forme d’arte, come la scrittura – che consente la creazione di un momento individuale solenne –, e con i più disparati aspetti della vita di Suvorin, costantemente legata all’arte musicale. In particolare, il trasporto nella ricerca di autenticità nell’esecuzione musicale assume un interesse chiaro nell’ambientazione scelta dall’autore, che ha ben presente l’atmosfera di familiarità e quasi di confessione che offrono i cafè viennesi a chi vi si rifugia. Allo stesso tempo Vienna, con i suoi templi della musica – basta pensare ad edifici come la Volksoper, la Staatsoper, o la Musikverein –, costituisce uno dei luoghi di massima esaltazione dell’arte musicale. Per tale ragione è quasi ironico cercare a Vienna un momento di intimità con la musica, in una città che ne è pregna e che la esalta in maniera teatrale. All’ambientazione si ricollega, tuttavia, anche il tema della nostalgia, essendo Vienna una città quasi fuori dal suo tempo, legata ancora a un passato imperiale di cui si possono facilmente scorgere le tracce al giorno d’oggi. E come il passato di Suvorin, felice ma alla costante ricerca dell’ideale, così anche questa città ricorda con affetto il suo passato glorioso eppure imperfetto.

In questa storia ricca di perplessità e ricerca di soluzioni si rende visibile una domanda: come ottenere la perfezione? Ma soprattutto, ha senso cercarla? Suvorin è un uomo costantemente “fuori tempo”, perennemente nostalgico del suo modo di suonare di una volta, dell’autenticità del trasporto della musica e della moglie tragicamente morta in un incidente anni prima. Anche lei musicista, è stata per Suvorin un punto di riferimento durante la sua vita, fino a quando con lei ha perso anche la bussola della propria esistenza. Il declino a cui lo porta la ricerca della perfezione – soprattutto a partire da questo tragico evento – si mostra concretamente nella vita di Suvorin, che si lascia andare rifiutando di seguire i consigli medici, vivendo nel disordine e portando avanti un monologo che non ha nulla di concreto, tanto che alla fine del romanzo non si presenterà alcuna soluzione alla sua condizione, ma nemmeno un destino chiaro. Come simbolo di questa inconcretezza il lettore riconosce le cartoline, testimonianze di luoghi che Suvorin non ha mai visitato e che, proprio come la perfezione stessa, all’anziano russo risultano irraggiungibili. Ciononostante, egli si strugge nella malinconia di tempi migliori, abbandonandosi completamente alla condizione presente quasi fosse morto. Suvorin si trova a disagio nel presente in cui vive, rifiuta relazioni diverse da quelle che può intrattenere nell’intimo ambiente del ristorante italiano “Gondola”, perfino quella con la figlia. Finisce per ritrovarsi isolato da ciò che lo circonda, “uno contro tutti” come egli descrive anche la figura di Beethoven, altra immagine ricorrente all’interno di Autoritratto con pianoforte russo.

Per quanto riguarda gli aspetti tecnici, nonostante la presenza di due interlocutori, il dialogo si rivela un monologo di Suvorin, narrato tuttavia dal punto di vista dell’anonimo scrittore, che lascia trasparire le sue considerazioni tra le riflessioni dell’anziano pianista. Il testo richiede massima attenzione da parte dei lettori, dato che le diverse prospettive e dimensioni si accavallano in maniera continua. Il passato della narrazione si mescola al presente e le stesse voci del romanzo sono difficilmente identificabili, soprattutto in alcuni passaggi dove domande e risposte non sembrano essere legate da alcun filo logico. Questa alternanza non è mai del tutto comprensibile e nemmeno la punteggiatura offre un aiuto a chi legge. Se in un film il cambio delle voci e l’inquadratura ci permettono di seguire l’alternarsi dei punti di vista, Wondratschek realizza lo stesso nel suo romanzo, causando tuttavia confusione nel suo pubblico. Virgolette e punteggiatura, così come l’entrata in scena di nuovi personaggi – ad esempio il violoncellista Heinrich Schiff – rendono instabile la narrazione, che si sviluppa su piani continuamente diversi, in un altalenarsi tra il presente del ristorante, il passato più remoto di Suvorin a Leningrado e quello più recente in Austria, passando per la descrizione di episodi riguardanti terze persone, come un aneddoto su Beethoven. I continui flashback e la sovrapposizione dei piani rendono quindi spesso evidenti le tecniche cinematografiche che caratterizzano la prosa di Wondratschek. A tutto ciò si aggiunge la sovrapposizione di realtà e finzione: oltre al sospetto che lo stesso autore si nasconda dietro l’anonimo narratore, il libro stesso sembra inserirsi in una posizione indefinita tra vita reale e fantastica. Lo si comprende, ad esempio, nelle prime righe del capitolo tredici, in cui si mostra come, siccome Suvorin – “come tanti russi” – è superstizioso e desidera evitare questo numero, il capitolo venga quasi soppresso: non porta alcun titolo ed è il più breve del romanzo.

In questa instabile successione di descrizioni si galleggia senza scegliere la rotta: Autoritratto con pianoforte russo non è una storia che fornisce risposte, al contrario i lettori non possono fare altro che porsi continue domande dalla prima all’ultima pagina e naufragare nel caos che ne deriva.

Apparato iconografico: 

Immagine di copertina e Immagine 2: https://de.wikipedia.org/wiki/Wolf_Wondratschek#/media/Datei:Wolf_Wondratschek_2003_2.jpg